martedì 30 dicembre 2008

Montaonda vive

Da oggi il "bollettino di Montaonda", sorta di newsletter per tenere informati i miei amici di quello che faccio senza impazzire a ripetere le stesse cose, si trasforma e diventa Blog.  Perché ormai, dopo un anno e mezzo (i numeri li troverete presto in archivio qui sotto, con le date originali taroccate), mi sono stufato di mandare messaggi e allegati, a chi sì e a chi no, e poi con le foto e senza, eccetera, vista anche la velocità pessima della pennetta che uso per connettermi... In questo modo credo che vi potrete iscrivere da soli, e verrete automaticamente avvisati ogni volta che ci sarà qualcosa di nuovo. Penso che all'inizio manterrò la cadenza di una volta al mese, poi si vedrà. Idem con il multimediale: si comincia con piccole e poche foto, e poi si vedrà - audio, filmati, boh.
intanto facciamo un po' di pratica...
l. 

lunedì 29 dicembre 2008

Bollettino 14 - Ultimo numero speciale da Tirana

Sì, è la mia ultima visita a Tirana, per aiutare Chiara a chiudere casa, torniamo insieme il 24 e poi basta, con l’Albania si chiude. Fa uno strano effetto pensare di lasciare per sempre questa casa ampia e dagli spazi accoglienti, questa città confusa e di cui non si viene a capo. Ieri siamo andati a bere un tè (ciai mali, il tè albanese fatto con un’erba che dev’essere una varietà di salvia) e mangiare una fetta di torta (buona, degna di una pasticceria nostra) con alcuni amici. Carlo, 28enne toscano di Reggello (a poca distanza da MO) che è qui per l’ONU, a me che chiedevo diceva che nei prossimi 4-5 anni l’Albania si gioca l’accesso o meno all’Europa, ovvero al "mondo civile". Se entra decolla, se non entra l’aspetta un periodo oscuro. Ma perché questo avvenga restano da sciogliere alcuni nodi fondamentali, la corruzione degli organismi pubblici, la questione della proprietà delle terre (al momento non c’è ancora un catasto!), e altri che ora non ricordo. Il problema grosso, prosegue, è che l’economia è pompata dalle rimesse, che arrivano al 30% del PIL, e che in pratica qui si importa tutto, ma proprio tutto tutto, dai rubinetti alla verdura, e non si produce nulla. Nemmeno in agricoltura sono riusciti a creare consorzi o cooperative. Chiaramente: visto che escono dalla dittatura comunista di collettivizzazione non ne vogliono sapere, e si coltivano ciascuno il suo orticello, di pochi acri, così ben difficilmente riusciranno a produrre qualcosa in grado di essere venduto, tanto più in Europa, che ha standard di importazione che richiedono pianificazioni e investimenti. L’olio fa schifo, anche se sono pieni di ulivi…

Tirana cresce: ma guardate, quante di queste case hanno le finestre?

L’altra sera siamo rimasti a casa casa a guardare un film – su dvd, perché di cinema non se ne parla nemmeno. Tanto i film costano 500 lek, circa 4 euro, ma sono tutte copie piratate. Anche nel video shop del centro commerciale CasaItalia di cui si vedono grandi pubblicità ovunque, su autobus e tabelloni (non ve ne descrivo la tristezza e lo squallore), tutti i dvd in vendita sono taroccati. Ho controllato, non ce n’è uno originale. Fotocopie a colori, etichette applicate sul dvd che contiene il film e basta (nemmeno i menù si aprono). In pratica il mercato degli originali non esiste in tutto il paese.
Oggi piove, e sono andato nella stanza dove avevo steso il bucato ad asciugare. Nel mezzo, sul parquet nuovo e lustro (l’edificio è stato terminato un anno e mezzo fa) ho trovato una pozzetta, che non veniva dal bucato. Ho guardato in alto e la lampadina, che è appesa a due fili che escono dal soffitto, grondava goccioline. Sopra stanno costruendo altri due piani (uno credo abusivo). Un’infiltrazione. Non l’accenderemo più, finché non torna l’asciutto. Anche in bagno, sotto il box doccia - ipermoderno e con doccette laterali, davvero piacevole da usare - escono due pisciatine che si allargano verso la griglietta dello scolo centrale. L’asse del cesso, ovviamente nuovo pure lui, non si riesce a fissare. Il palazzo è ancora non terminato, ma ha misure e finiture di lusso: l’appartamento (sono 140 mq, senza contare le terrazze, per 650 € al mese, su cui il padrone paga il 10% di tasse – Chiara ha insistito perché deve detrarlo dal reddito, e quel 10% lo pagano metà per uno – altrimenti qui si fa tutto in nero) è circondato su tre lati da una terrazza con uno splendido panorama sulla città. Peccato che il muretto della terrazza mi arrivi appena al cavallo – e non sono un gigante; dove ci sono le sbarre di ferro, queste sono altri 10 cm più basse, e sicuramente tra il pavimento e quella inferiore ci si infila ben più di un bambino. Siamo al 7° piano e soffro di vertigini: non mi ci è voluto molto a capire che un simile terrazzo non sarà mai a norma. I balconi, raccontavano gli amici italiani di Chiara, spesso scolano l’acqua verso l’interno, inondando le stanze dalle porte. Una ragazza presente (eravamo in 5) ha detto che una notte ha dovuto evacuare una stanza (naturalmente edificio nuovo), le si è allagato mezzo appartamento. Se vengono costruiti così i palazzi quanto dureranno? La cucina ha una modernissima cappa d’aspirazione Zanussi, ma quando gli inquilini dei piani di sotto cucinano ci manda i loro odori, dai peperoni grigliati al fritto di pesce, credo perché il tubo di fuoriuscita non è orientato verso l’alto ma solo orizzontale. La stanza da letto ha l’interruttore della luce che resta coperto dalla porta aperta (possibile che l’abbiano montata coi cardini dalla parte sbagliata?). Sono solo piccoli esempi, potrei farne altri mille.
Per le strade bisogna guardare sempre dove si mettono i piedi, marciapiedi e bordi strada sono pieni di buchi profondi anche un metro. Tombini scoperchiati (il ferro vale un sacco, pare che in tutti i balcani vadano a rivenderseli). La raccolta differenziata avviene in maniera particolare: se ne incaricano i giovani rom, maschi dai 10 ai 30 anni, che girano per la città con i tricicli a pedali e selezionano dai cassonetti quello che si può recuperare. Da questo punto di vista la situazione è abbastanza deprimente, diceva un altro Carlo, ingegnere di una ONG che si occupa della sicurezza di una grande discarica alle porte della città (e ha sorriso chiedendomi se avevo visto i quartieri periferici – cosa che non ho fatto, perché Chiara abita in centro).



…In serata ieri siamo passati poi dallo Sheraton per incontrare alcuni colleghi di Chiara e portarli a cena al giapponese dove siamo stati con Carlo. Poco prima lei ha insistito perché entrassi a vedere una discoteca in stile superkitsch, dove era in corso una festa, piena di ragazze con gonnelline corte e abitini leggeri, ragazzi ben rasati dai capelli corti, credo che fosse proprio il posto dove va la gioventù danarosa. Fuori mercedes ultimo modello, cheyenne e simili, ragazzi foruncolosi attaccati a sigarette e cellulari. Dentro luci e fumi, musica techno, o quello che è diventata, e tanto sudore nell’aria. Siamo arrivati fino alla pista da ballo, come palombari, con i cappotti, loro erano tutti in abitini leggeri, cortissimi per le ragazze, tutta gente che si muoveva a onde e in maniera piuttosto disordinata. Possibile che non abbiano ancora imparato a ballare?
…Oggi a mezzogiorno, vista la bella giornata di sole, ho preso la nikon e sono andato a fare un po’ di foto. Risalendo la via di Elbasan, dopo un po’ che camminavo e scattavo ho incontrato un rom che aveva incendiato un cassonetto per scaldarsi, e gli ho fatto una foto dove si vede lui accucciato, di fianco alle fiamme e al cassonetto. Poi ho proseguito ancora un centinaio di metri, ma c’era troppo inquinamento e non vedevo nulla di interessante lì vicino, così sono ritornato sui miei passi. Di fianco al rom ora c’era ora una Chevrolet bianca con le luci della polizia. La foto la vedete qua sotto, perché scatto tanto, anche l’inutile, e poi butto via. Dalla Chevy sono scesi due tipi in bomber blu, non particolarmente cattivi, ma che, ad ogni buon conto hanno allontanato il rom. Be’, mi è sembrata un’azione ordinaria di polizia, e non mi è dispiaciuta. Il fumo bianco che si levava dal cassonetto era mefitico – potete immaginare, dentro c’era di tutto. Insomma, un intervento per il bene comune. Mi aspettavo quasi che prendessero dall’auto un estintore, o che chiedessero ai ragazzi del lavaggio, una decina di metri più a sinistra (cfr. foto), di spruzzare acqua (loro ne hanno sempre tanta!) sul cassonetto per spegnerlo. Invece lo lasciano bruciare, e quando gli passo davanti mi fanno cenno di avvicinarmi, e dicono che sono dell’ambasciata americana - hanno un bel cartellino giallo in vista – vogliono sapere perché facevo le foto e vedere le foto che ho fatto. Erano albanesi, ma parlavano un inglese decente. Io ho detto che sono un giornalista italiano, che sono a Tirana in vacanza e pensavo di fare un reportage sulla città (non ho detto che era per i miei amici). Gli ho fatto vedere le foto – il display della nikon è una bomba – e in pratica mi hanno fatto cancellare soltanto la foto dove si vedeva il rom di fianco al cassonetto incendiato, dicendo che dovevo cancellarla perché quella era una via in cui c’era un oggetto che non avevano piacere fosse fotografato. Tutto con buone maniere, io ho detto ok, e ho cancellato la foto davanti ai loro occhi. Poi mi hanno chiesto i documenti, gli ho dato il tesserino stampa (ce l’ho ancora, anche se ormai esercito soltanto per vizio privato) e anche la carta d’identità. Mi hanno chiesto se era la prima volta che ero in Albania, e dove alloggiavo. Io ho detto che ero qui per la terza volta, e che alloggio da un’amica. Mi hanno chiesto chi era quest’amica. Ho tirato fuori il biglietto da visita di Chiara, con scritto bello in grande Repubblica Italiana Ministero dell’Ambiente. Mi hanno chiesto se ero worried per quelle loro domande io gli ho detto not at all, sono perfettamente tranquillo, sono un giornalista e so cosa state facendo. Mi hanno chiesto se ho un cellulare e io gli ho detto che è italiano e qui non lo uso e non gli ho dato il numero. Insomma stavano esagerando. Hanno abbozzato, si sono scusati (e perché? Temono ritorsioni internazionali?).



Forse adesso capisco perché non si vede mai gente che fa foto in questa città, che considero davvero pittoresca. E poi mi chiedo come mai l’Ambasciata americana può permettersi di mandare in giro degli sgherri a fermare la gente e chiedergli i documenti, in un paese sovrano, che ha polizie di tutti i tipi. È vero, pochi minuti prima ero passato davanti all’ingresso della loro ambasciata con la macchina fotografica in mano, ma il braccio era giù, lungo e disteso, e camminavo guardando avanti. E poi avevo camminato altri dieci minuti, mi ero fermato a fare una trentina di foto. Possibile che mi abbiano seguito tutto quel tempo, fino a lì? Per cancellare proprio la foto del rom che si scalda davanti alle fiamme del cassonetto incendiato? Mah, che dire…
Ora, mentre scrivo, qualcuno si è messo a lavorare al piano di sopra, martellate potenti proprio sopra di me, cose che cadono, detriti che scendono nella canna fumaria. Così, guardando alla mia destra, ho scoperto che anche dalla canna fumaria della cucina filtra acqua, a metà altezza, attraverso l’intonaco vedo trasudare goccioline che colano giù.
Non riesco a immaginare cosa sarà questa casa tra 10 anni (ricordate il film Brasil?). Potrebbe essere un rudere come un condominio superelegante, abitato da ministeriali e fotografi di moda, da modelle. Ma non riesco a immaginare cosa sarà Tirana tra 10 anni, non riesco a immaginare cosa sarà l’Europa, cosa sarà il mondo tra 10 anni.
Il 23 sera andiamo in una galleria d’arte (ce ne sono in tutto 3!) a ritirare delle foto che abbiamo deciso di regalarci, belle ed economiche, firmate e autenticate, ma il supporto su cui sono incollate non è uguale a quelle che avevamo visto, due le hanno tagliate storte, da un’altra manca un pezzo... Valentina, la gallerista con cui ormai ci sentiamo amici, sospira e allarga le braccia, cosa voliamo fare? A me un po’ dispiace partire, a Chiara invece no, in fondo lei c’è stata due anni e non è stato facile. 24 mattina, ultima corsa col taxista amico fino all’aereoporto, all’ingorgo in uscita dal centro fa una manovra da film e salta 200 m di coda che erano 10 minuti preziosi, arriviamo al pelo, e carichi di bagagli a mano in maniera vergognosa, ma nessuno ci dice nulla. Ciao, Albania, grazie! (Arrivare a Malpensa è come atterrare a Düsseldorf, nebbiolina, tutto è diritto, il traffico verso la metropoli scorre ordinato e noioso).

martedì 25 novembre 2008

Bollettino 13bis - Numero Speciale II: L'Albania dentro


A Cruja Chiara e io abbiamo comprato le magliette dell’Albania, rosse con il simbolo dell’aquila a due teste, e le tazze, per il caffè e il tè. Le vogliamo indossare nel nostro mondo, metterle di là per fare scandalo, rovesciare l’America, per simpatia verso questo paese ultimo tra tutti i popoli dell’Europa, cencioso e rozzo ma vivo, estremamente vivo nella sua istintualità. Chiara ha conosciuto donne in gamba ma che non stanno bene in questa società così deprimente, che vorrebbero andarsene ma non trovano dentro di sé la forza per opporsi. Perché qui – soltanto dopo giorni e giorni si riesce a dare un nome a questa sensazione di carenza - non c’è alternativa, non c’è opposizione, non c’è alcuna utopia: qui c’è soltanto una fortissima spinta all’omologazione. Non ho idea di quanti e come cerchino di contrastarla, con che mezzi e quanto successo. Come che sia non si vede. Le donne, per esempio, non hanno i decenni di femminismo e rivalsa alle spalle, non hanno ancora imparato a buttare fuori tutto quello che sentono, a credere in se stesse. Viene data loro come unica carta quella della sessualità, con tutti gli invischiamenti che comporta, tacchi alti e trucco curato; proprio come per l’uomo ci sono soltanto cellulari e suv. Il paese è pieno di autolavaggi, basta l’acqua compressa e una spugna, olio di gomiti, e qualunque ragazzo può guadagnare come e credo di più che a lavorare in fabbrica. Le mercedes nere, ultimissima generazione cattiva, e ce ne sono tantissime, dopo un’ora di traffico sono di nuovo sporche, e allora occorre lavarle di nuovo, tanto per chi le ha non costa nulla, e lavarle ancora, e ancora. Continuare a pulire, pulire e incerare, come rituale di purificazione, di potenziamento e ricarica di un mana applicato al nuovo idolo da rendere luccicante, automobile… Un rituale ossessivo, senza speranza di giungere a un termine, come il gesto di un animale nevrotico… che non porta a nulla, che non dà altra gioia se non il vederne nell’immediato l’effetto, del rispecchiarsi nell’atto mancato, perché dopo un’ora la macchina è sporca di nuovo. Nulla qui arriva a termine, si corrompe prima, non si tolgono le protezioni di plastica dai pannelli cromati, per esempio delle porte e degli ascensori, perché si usa tutto subito e poi non ci si pensa più, i cantieri dei palazzi in costruzione sembrano già rovine. L’imballaggio diventa subito scarto, monnezza, il nuovo langue e arrugginisce, diventa maceria. Ognuno costruisce, disfa e forca come crede, per ottenere la possibilità di farlo basta pagare. La corruzione viene riconosciuta ed elevata a motore del sistema. Ci sono migliaia di vigili, guardie poliziotti, portieri, e nessuno fa nulla, se non lavorare per garantirsi e garantire i privilegi di chi se li può permettere. Qui si vive tra le macerie del comunismo e la monnezza montante del capitalismo, cellulari, plastica e stronzate di ogni genere. Qui si vende tutto quello che si può vendere, l’Albania è l’Hong-Kong del 2000, ma dietro la porta di casa. È la nostra bidonville, l’a casa dei nostri operai immigrati. Bene, è tutto questo, e questo è il punto: questo, cribbio, è un mondo reale, maledettamente reale. Qui qui qui, i rifiuti li si brucia alla luce del giorno, nelle periferie, non espatriati, o dentro a impianti nascosti, che potrebbero ricordarci gli impianti nascosti di Auschwiz. Il biologico non esiste, se non con il senso di una conquista di consumo iperlussuoso. Qui i cassonetti sono aperti, luogo di scambio in cui la gente getta o prende, a seconda di quello che ha di troppo o di bisogno. Questo è il vero resto del mondo. Non sono favelas, perché qui è tutto insieme, dietro una casa che crolla a pezzi c’è l’ambasciata americana. Ci sono le periferie costruite in due mesi, tutte colorate, che a me risvegliano le immagini dei primissimi anni ’70, quando scoprivo in bici il quartiere Gallaratese. Terra di espansione, e sempre nello stesso senso, tra città e fuori città non ci sono limiti, nel parco cittadino pascolano le mucche, non esistono recinti e strisce che dicano dove finiscono le strade e dove inizia il giardino, non ci sono barriere tra mondo e natura, tutto è giocato tra dentro, dove si tolgono le scarpe e i pavimenti luccicano, e fuori di casa, tutto il resto del mondo è cortile, tutto è zingaro. La monnezza straripa, la vita si riversa sulle strade, piene di banchetti con persone che vendono o lavorano, che smangiucchiano borek, che se stanno seduti perché non sanno che fare. Il paese arabo, l’India e la Cina dell’Europa, l’Albania. Il Gange qui è laicissimo, un rivolo putrido che si chiama Lana, ma sui monti, dopo aver superato periferie, discariche e cave, risalendo strade che sembrano appena uscite da un bombardamento, il verde è tenero, ci sono pini, erba, roccia grigia e dura, ci sono probabilmente ancora gli Illiri.
Ho regalato a Chiara, ora che si è licenziata e verrà via, un portapassaporto albanese di similpelle rossa con la scritta in similoro. Perché in qualche modo si sente il desiderio di farsi ambasciatori di questo paese, vera compassione, non quella pietistica, perché forse avremmo bisogno noi tutti di essere più albanesi, di sentire questa forza di rivalsa, di soffrire per quello che vediamo attorno a noi nell’occidente, che è monnezza come e peggio di questa, solo imbellettata, e quello che è qui è anche da noi, e ci riguarda tanto quanto, e avremmo bisogno di sapere come loro inventare le cose dal nulla – come il cameriere a Dhermì, che quando gli abbiamo chiesto se c’era un dolce ci ha portato un piatto con una mela tagliata a fettine, ben disposte a raggera, su cui aveva colato del miele. Quanto era buono quel dolce, nella sua semplicità autentica di mela vera e miele vero, mangiata su una terrazza sotto cui muggiva il mare nero nero nella notte.

lunedì 24 novembre 2008

Bollettino 13 - Numero speciale: L'Albania I


Cari tutti, stavolta il bollettino esce - a parte il cronico ritardo – in edizione speciale, dall’Albania. Massì, sono venuto qui a trovare Chiara… naturalmente avrei da dire anche su MO, ma visto che in questi ultimi mesi sono più le cose che mi succedono qui, in questa trasferta ormai agli sgoccioli, mi sembra più giusto parlarvi di quello che ho davanti agli occhi, che è spettacolo non da poco, e in qualche maniera, ora, pensandoci, lo trovo anche consono al bollettino, essendo Tirana una sorta di eremitaggio, lontano dai clamori della cronaca, ormai interessata soltanto a seguire balletti di dubbio gusto con ballerine e cotillons vari (basti così). Albania, terra di montagne, pianure acqutrinose, mare dirupato e pastori, segregata dal resto del mondo fino a 18 anni fa, prima da un’economia pastorale e poi dalla dittatura più feroce del comunismo reale, pure filomaoista. Da dopo allora, dagli sbarchi di Brindisi, moltissimo è cambiato, questo lo vedi quando arrivi, la città è invasa di improbabili palazzoni ultramoderni, negozi, traffico caotico e gente che arriva qui da tutto il paese. A Tirana l’aria è inquinatissima, probabilmente per la cattiva qualità del combustibile, oltre che per la cilindrata spropositata dei mezzi (mai visto così tanti suv in vita mia), e tuttavia la respiro con un senso di freschezza, di curiosità. Certo, i marciapiedi fanno schifo – bisognerebbe camminare con gli occhi incollati a terra per evitare buche, sconnessure, inciampi in oggetti vari, detriti, rifiuti, macerie che ricordano l’Italia più sudicia di anni ormai dimenticati. Che dire? Qui tutto è improvvisato, impermanente, precario. Negli ultimi due giorni l’ondata di freddo ha fatto saltare la luce almeno 4 volte perché quasi tutti gli impianti di riscaldamento sono elettrici, del tipo condizionatore-scambiatore di calore (che tra l’altro costano tantissimo sia come installazione che come gestione!), quindi immagino per eccesso di consumo (e quando in casa salta l’elettricità, come ora, spariscono luce, riscaldamento e anche l’acqua). Ma ecco che si spiega a cosa servono tutti quegli enormi generatori da cantiere che affollano i marciapiedi della città, col blackout tutti si mettono in funzione, macchine diesel della stazza di un cassettone, minimo, producendo un frastuono e un olezzo che pare di essere ripiombati nell’era del carbone, tra fumi neri e vibrazioni inquietanti. La vita continua, anche nell’internetshop sottocasa, una 40ina di posti, ancora in stile ultramoderno, vetri acidati e acciaio, ma che importa, aspetti quel tot e riaccendi il computer, nulla qui deve avvenire subito, c’è sempre una seconda chance, anche attraversando la strada più trafficata, sembra una giungla ma poi nessuno ti mette sotto. La “città dei generatori” l’ho chiamata, e infatti i suoi grattacieli colorati in miniatura, gli alberi della luce con centinaia di fili che si spargono a raggera sopra la tua testa in mille direzioni, ricordano un po’ uno scenario alla Metropolis – puro caso, venendo qui, per il viaggio in aereo mi sono portato dietro Time Machine di H.G.Wells. A testimonianza vorrei riuscire ad allegare mille foto, quante ne sto scattando a ogni passo, per congelare il ricordo di un volto particolare (ma qui i volti sono tutti particolari), una palazzina di cinque piani di mattoni nudi, con il tetto costellato di antenne satellitari e serbatoi dell’acqua, una vecchia casa a un piano di mattoni bianchi e tetto a tegole, che verrà spazzata via, schiacciata dalla speculazione edilizia nel giro di pochi anni, se non di mesi, una palazzina ultramoderna di vetri a specchio, che ti ferisce lo sguardo con i suoi assurdi angoli acuti. Sembra una DDR vent’anni dopo, se fosse sopravvissuta senza testa e senza cuore, semplicemente come torso che si dibatte su se stesso, aprendo tutte le porte ai vizi dell’occiriente, spazzando via come acqua sporca tutto quello che aveva.
Tirana è un farwest dietro l’angolo, ormai le merci dell’occiriente ci sono arrivate tutte, traboccano da mille negozietti improvvisati, da mille baracchette e angoli di strada dove la gente, venditori più o meno pezzenti ma sempre dignitosi, allineano la loro merce sfruttando le piastrelle del selciato, il muretto delle recinzioni – come quella della casa di Hoxha-il dittatore folle, che ha cosparso il paese mi dicono di 300 000 bunker grandi come un cassonetto, ne ho viste diverse centinaia, casa sua dicevo, in centro, nel bloko, il quartiere dove ancora oggi ci sono uffici internazionali e amministrativi, è una specie di villino anni ’60, cemento, mattoni, travertino e il mitico alluminio anodizzato, solo molto più grande, grande come, penso, il ranch di qualche riccone texano.
Tirana è un profluvio di contraddizioni, non puoi girare gli occhi senza vederne a manciate, in tabaccheria vendono le vecchie cartine senza colla a mazzetti a 3 lek a pacchetto, circa 0,02 € (e arrotondo per eccesso), di fianco ai migliori sigari cohiba (in vetrinetta umettata, i prezzi li conosciamo, sono praticamente più stabili del dollaro). Tirana è cosparsa di caffè, alcuni elegantissimi, con luci soffuse, il che vuol dire tipo bordello anni ’80, divanetti a zebre e sedie rosso fuoco, anche se ora è arrivato il rattan, tipo bar da aperitivi milanese, con questi divanetti rettangolari bianchi all’aperto, a cui sono seduti migliaia di uomini, molte meno donne, molti ragazzi, ma tutti vestiti alla moda tragicamente albanese di qua, e tutti con le sigarette e un cellulare extrapiatto, ma bevono un caffè, o al massimo una sprite, probabilmente non possono permettersi di più. Dovrei parlarvi anche delle villette, o della campagna, che ho attraversato in macchina, e del mare (15 giorni fa ho fatto dei bagni strepitosi!), ma non c’è spazio per questo: altro che un reportage, ci vorrebbe un libro intero. E davvero, avessi capacità tempo e voglia, e avessi imparato a usare decentemente la macchina fotografica, ci sarebbero da fare foto da urlo.
L’avrete capito insomma, devo dire che in fin dei conti gli albanesi mi piacciono, con quelle facce da contadini, l’aria rustica che resiste anche al volante delle X5 o delle Range Rover superaccessoriate, probabilmente sono appena stati in campagna dai parenti a mangiare cofanate di costolette di capra e patate fritte (anche perché non c’è molto da fare, qui). Mi sembra che non abbiano ancora interiorizzato quella supponenza e falsità, quell’ignavia colpevole – e l’ignavia è sempre colpevole – quel merdume insomma che invece vedo spalmato a piene mani ovunque in Italia. Certo, sono corrotti, ma almeno lo ammettono. Qui si fa così e punto, non credo che nessuno si faccia illusioni, o si premuri si spalmare di vaselina le pagine dei giornali, o i telegionali, come da noi, dove ormai quella classe di leccaculo prezzolati che si sono intrufolati ovunque tiene per le palle anche quei poveretti che vorrebbero reagire ma non sanno come (me incluso, incluso!). Qui le periferie, i centri, tutto il paesaggio umano è un disastro, polveroso, brutto e inelegante, i centro commerciali fanno urlare per lo squallore, eppure sono pieni di gente che ci cerca la propria rivalsa. Tutto, ricco o povero, senza distinzione, in Albania è per metà un cantiere e per metà una discarica, e loro ci si muovono attraverso, con la naturalezza del popolo che è ancora desideroso di qualcosa - anche se l’obiettivo, quello a cui tendono realmente, è meglio non guardarlo nemmeno. E mi dico: e perché mai dovrebbero loro evitare gli errori che noi, di secoli più civili, non abbiamo evitato, perché dovrebbero riuscire dove noi abbiamo fallito. Per ora scalano l’onda dell’economia in crescita, devastano il paese e svendono per pochi euro tutti i piccoli tesori familiari custoditi per generazioni, una culla, un cassettone dipinto, le fasce, i coloratissimi mantelli, i gioielli di argento vecchio. Si vendono la casa e le terre, la speculazione avanza. Per strada ci si imbatte in trovate sproporzionate ed esilaranti, distributori che sembrano templi egizi, power drinks dal nome “Cocaine”. Verrebbe voglia di aiutarli, per scampare alla propria ingenuità, ma come, visto che ci sono già, attivati e operativi, tutti i canali e gli interessi, i traffici e i politici dell’occiriente a darsi da fare a piene mani? Qui se c’è uno spazio è già pieno di visite di sottosegretari, presidenti, imprenditori e funzionari, anche investitori e papponi. Non ci sono i turisti, perché il paese non sa ancora offrire loro nulla di decente, nemmeno le strade. Ma aspettate anche solo l’estate prossima, le cose inizieranno a cambiare. E perché poi non dovrebbero farcela, invece, dimostrandosi magari migliori di noi? Chi siamo noi per dirlo? In fondo il mondo è fatto così, e non solo la Cina: nel bene e nel male, c’è chi scende e c’è chi sale. Oh, vanità!

martedì 9 settembre 2008

Bollettino Montaonda 12


Cari tutti,
vi sarete chiesti che fine ho fatto? Nessuna! Eppure mi succede di tutto.
Anche stamattina a MO, niente di speciale, eppure è tutto incantato. Faccio colazione in cucina, mentre il sole sorge dietro il Falterona e filtra fino a me, poi salgo in studio, e dalla finestra aperta mi arriva un venticello fresco e leggero di montagna. Finalmente ascolto Easy to Love di Massimo Urbani, che non avevo ancora mai decompresso, e tra i rami radi del cipresso di fronte guardo brillare in controluce i fili d’argento delle ragnatele che tremolano nell’aria limpida del mattino. Una giornata normale, cinguettii, pace assoluta, jazz coltraniano di sottofondo dal powerbook. Posso e devo finalmente cercare di scrivere il bollettino. Sono indietro di due mesi, ci sono state le ferie in mezzo, e anche un bel po’ di altre cose. Per esempio, il 3 di agosto si è compiuto il primo anno di Montaonda. Oppure, il 24 agosto, Michele è venuto ad abbattere l’ultimo ailanto adulto - ora sotto l’aia a occidente c’è pieno di frasche, con calma pulirò, e si avvieranno anche le sistemazioni di questo lato. Dall’altra parte, a oriente, gli ulivi ormai liberi si sono goduti l’estate, hanno slanciato un sacco di rami verso il cielo e preso vigore, sono uno spettacolo. Quest’inverno li dovremo potare per mandarli a frutto. In cambio, prima gradita sorpresa, in questi giorni ho raccolto i primi fichi della mia vita, neri e dolci, un regalo inatteso e assai gradito. Difficili da raggiungere, anche per la pendenza della scarpata, e ho pensato a Ulisse, che si aggrappa al fico sopra Scilla (la fragola prima del precipizio: com’era dolce!)
Sono passati di qui alcuni amici - amiche in realtà – e quindi è iniziata anche l’ospitalità, mentre ero al nord, pare con grande soddisfazione di chi è stato qui. Ho finalmente montato il giradischi e lo stereo, sto facendo ordine tra i dischi, vecchi e nuovi (costano così poco i vinili, per 1 euro si compra un deutsche Grammophon in condizioni eccellenti, quindi non è vero che tutto costa più caro). Oggi vado dalla Cris per buttare le basi di uno scambio commerciale di prodotti toscani – olio, conserve e cose così, d’eccellenza, senza l’intenzione di speculare ma soltanto per aiutare chi sta qui a vendere i prodotti della sua terra e chi sta in città a gustare cose buone. Un passo per volta, se è cosa si farà.
Non vi dico nulla delle ultime serate calde, dell’arietta che accarezza l’amaca mentre dondola sotto il vostro peso, avvolti in morbidi cuscini sotto il cielo stellato. A Berlino ho trovato due minuscole lucerne, per i lumini del te, un euro ciascuna. Verrete, vedrete.
Insomma, se il programma era sedimentare, ora che viene l’autunno mi pare che qualcosa stia germinando e mettendo le radici (ah, grazie a mia sorella ho anche scoperto il germogliatore!). Sto per montare la vecchia cucina Ikea di Milano (devo solo aspettare che asciughi la pezza di cemento sul pavimento), e presto avrò ben 4 fornelli e il forno elettrico. Potrò riprendere a cucinare e riporre le stoviglie negli armadi, anche se, una pentola di qua, un coperchio di là, dagli scatoloni sono già usciti alla chetichella parecchi pezzi che si sono sparsi per la casa. Non sono ancora stati fatti i lavori al tetto del retro (la copertura, una trave e la guaina impermeabilizzante), ma lo faremo in autunno, tempo permettendo, così come Beppe si è impegnato a portarmi via tutte le macerie della precedente conduzione. Ma io sono tranquillo, conosco ormai l’inverno, la scorta di legna c’è, chi m’ammazza? Certo, quasi tutto anche nella casa resta provvisorio, almeno per la disposizione dell’arredamento, ma dormo nel mio letto, scrivo sul mio tavolo, leggo nella mia poltrona con una luce giusta. Anche le varie compravendite immobiliari si sono concluse, le transazioni sono terminate, aspetto ora il vigile che mi dia l’ok per la residenza. La posta arriva regolarmente e le bollette pure. Ho anche internet, non velocissimo ma ce l’ho. Certo, la lotta contro gli ailanti continua, proprio ieri è venuto Patrick e ha fatto 6 ore di decespugliatore per stroncare i polloni degli ultimi due mesi. Ma non c’è più nessun adulto in grado di fare frutti, questo è un grande risultato. Ho capito poi, come mi suggerivano diversi amici, cosa è stato l’ailanto per me, il mio karma, l’insieme dei vizi che mi sono portato dietro dalla città: non li ho stroncati tutti, ma mi pare che ci siamo guardati in faccia e ora sia tutto più semplice. E soprattutto, non impediscono più la vista e la luce del
sole, dalla camera da letto vedo dei tramonti spettacolari. Venite a vedere. Montaonda vive, viva Montaonda.
ciao ciao
l.

martedì 17 giugno 2008

Bollettino Montaonda 11


Carissimi tutti, lo so, anche questa volta sono in ritardo. Sono successe un sacco di cose, tra cui il trasloco, concluso dopo quasi un anno con due viaggi con un furgone noleggiato, aiutato da amici milanesi e toscani, poi ora ho il telefono fisso – 0550125005, un vodafone cellulare che fa finta di essere un fisso, ovvero costa come un fisso per me e per voi ma ogni tanto la voce vacilla – ho la connessione internet – la pennina vodafone, alla strabiliante velocità media di 3Kb/s, gli ailanti sono spariti, interamente sul versante est, ne sono rimasti due su quello ovest, il soggiorno sospeso ha una bellissima ringhiera – panca opera di Ueli, il vicino falegname, che mi ha fatto anche una finestra esagonale e una pedana pianerottolo in castagno, insomma la casa è molto meglio, manca ancora soltanto da sistemare la cucina e smaltire scatoloni e mobili, la stanza degli ospiti ha ora il tavolo di vetro e un letto da una piazza e mezza, diciamo
che si può soggiornare, e che in totale i posti letto sono 7, contando il divano psichedelico e la branda pieghevole. Anche fuori, gli alberi molesti sono spariti e ora ci sono le gradinate a prato, qua e là un frassino e un olivo, grazie al lavoro di diversi giardinieri… quello che manca è ancora far sparire le masserizie lasciate indietro dal padrone precedente, che ora se le dovrebbe venire a portare via, e poi prossimamente si inizierà a lavorare al tetto del rustico da sistemare, che altrimenti viene giù.
Tutto questo è avvenuto in un mese e poco più, con la mia partecipazione orchestrante, più assente preso a correre di qua e di là, su e giù, ho anche comprato la macchinetta nuova, una 4x4 minisuv, insomma è bruttina forte ma almeno non è un’auto da sparone. Certo, ho dovuto dire addio alla vecchia Escort, ma così va la vita, non la rimpiango, come la casa di Milano, ora non c'è più, ora sono tutto proteso in avanti, prima o poi riuscirò anche a tirare il fiato, invece negli ultimi giorni ho fatto bucati a raffica – tra una pioggia e uno sprazzo di sole – per smaltire i bucati accumulati, e poi è chiaro che i vestiti non sono affatto in ordine, la parte armadi vestiario chissà quando si risolverà, se si risolverà, temo di portarmi dietro roba inutile per i prossimi anni ancora.
Uff, oggi è finalmente la prima giornata di caldo, ieri avevo ancora acceso la stufa, speriamo che la stagione si sistemi. Gli istrici mi mangiano i gigli bianchi, e li vedo tornando a casa la sera tardi, se davvero è tardi, e poi almeno uno scoiattolo ama sgranocchiare pigne di cipresso sulla cisterna, e ogni mattina sembra una tavola su cui ha mangiato una manica di zozzoni.
Insomma, spero ora di calmarmi un attimo e trovare il tempo di sistemare le cose con calma, che gli amici mi vengano a trovare (ora il frigo c’è) e si godano un po’ anche loro l’aria fresca il torrente e gli uccellini. Per le lucciole credo sarà tardi, a meno che qualcuno già arrivi il prossimo weekend.
Insomma, scusate la fretta e se spedisco senza rileggere…
l.

venerdì 9 maggio 2008

bollettino Montaonda 10 pic


Cari tutti ecco qua...

...mi fa fatica, mettermi al computer e scrivere.
Eppure, da un po’ di giorni in qua, mentre lavoro
penso devo scrivere il bollettino, cribbio sono in
ritardo, e intanto che sudo e fatico penso a frasi per
raccontare quello che faccio, come sono andato a
scegliere una scala di ben 6,8 m in tre segmenti, e
poi ci sono salito per pulire le gronde anche nel
punto più alto, dove da terra vedevo sporgere verdi
erbette in fiore. Certo mi è di conforto pensare di
portarvi con me quassù, mentre mi libro sul 15° piolo
di questa scala d’alluminio e lavoro di cazzuola
affannosamente, rovesciandomi metà del contenuto
fradicio della gronda (fiori di cipresso caduti) nella
scollatura della maglietta. Mi sento in bilico, e mi
aggrappo con una mano alla gronda, perché questo nuove
scale di sicurezza hanno una base maledettamente
larga, un trespolo di circa un metro, e quindi se non
è in asse non poggia diritta e anzi va su parecchio
storta, per cui è veramente difficile collocarle, ho
dovuto impilare due pietre, perché a MO a parte la
gronda e il tetto nulla è in piano. Maledizione, mi
dicevo come era più comoda la scala alta di mio nonno,
quella fatta credo in frassino, un tronco snello
tagliato per il lungo con pioli tondi e bombati, una
specie di dirigibile da trasportare, peggio di
Ridolini, che quando si andava a prenderla nell’orto,
appesa sotto la tettoia, bisognava stare bene attenti
a non tagliare le teste alle rose, tagliando le curve,
anche se si era in due. Era un pezzo unico, era
stretta, era vecchia, e noi ragazzi incitati dal nonno
che diceva vai vai indicando dove c’erano ancora delle
ciliegie si saliva strisciando su come marines nel
Vietnam temendo una sventagliata del nemico. Era forse
da allora che non salivo così in alto su una scala, a
parte quelle delle ferrate nella parentesi
alpinistica, e subito ho riconosciuto lo stessi timore
che dopo i primi gradini ti incolla alla scala, che ti
obbliga a girare il ginocchio all’esterno, invece che
stando diritti e a braccia tese.
E poi dovrei raccontare altro, faccio e accadono un
sacco di cose, che non riuscirei nemmeno a elencare.
Ora fa caldo e l’aria è profumata, sono fioriti i
frassini e tra poco lo saranno anche i sambuchi. Ho
finito di tagliare gli ultmi ailanti sul versante
uliveto, ma restano ancora un sacco di ramaglie per
terra, i miei validi aiutanti mi hanno piantato in
asso. Sto imparando a usare il decespugliatore, ma
ancora ne manca. Il mio taglio è irregolare, e solo il
rastrello mi dà qualche soddisfazione. In cambio ho
imparato ad affilare la motosega, e ora taglia la
legna come fosse burro. Oggi ho ripulito dagli sterpi
l’aioletta davanti all’ingresso, homosso un po’ la
terra. È curioso vedere che sono tutte cose che
conosco e ho già fatto, questi gesti mi ricollegano
all’infanzia in montagna (con la parentesi campagnola
di Aizurro, ma quella era una villetta in Brianza, qui
invece è di nuovo lavoro sul paesaggio, sulla pietra).
Poi ieri ho pulito la stanza aperta, e anche lì in
cima alla scala, e oggi ho stuccato. Domani darò la
prima mano di bianco, e poi vedremo. Verso il 15
tornerò a milano per fare il resto del trasloco, le
cose grosse, e chiudere definitivamente la casa.
Ah, naturalmente, la stagione estiva è aperta. Ospiti
plurimi sono benvenuti, anche se le condizioni della
cucina sono ancora provvisorie (spero per poco), ma
dignitose, e le stanze un poco ingombre di masserizie,
ma pulite. Fuori si sta da dio, uccellini eccetera. Il
telefono: la banda larga non me la danno, la telekom
mi ha rinviato due appuntamenti. Il 13 mi hanno
promesso che mi daranno il telefono. Vedremo.

venerdì 28 marzo 2008

Bolletino 09


19 marzo: Addio a Campicozzoli
È stata la mia ultima notte. Mi sveglio alle nove
passate, esco a prendere il primo calore del sole, poi
metto su il caffè e chiamo Angelica per fare colazione
insieme. Siamo rimasti solo noi due, gli altri sono
già al lavoro, nell’aia soltanto la vecchia Escort -
ha un cerotto di scotch per tenere il parafango che
altrimenti crollerebbe – e la sua Panda amaranto.
Primavera ma anche clima di abbandono, di
germinazione, di prima della ripresa, perché ancora è
bagnato, le zolle sono fangose e intirizzite. Dopo
colazione usciamo e guardiamo un po’ il risultato della
fusione in argento di Pierino Porcospino, un progetto
che è in cantiere da due anni ma che pare stia per
diventare realtà, scatto qualche foto, ci raccontiamo
i nuovi fatti della casa, il pollaio nuovo, chi va e
chi andrà, chi resta e come. Io sono quello che oggi
se ne va, Angelica e io siamo rimasti i più anziani di
Cmpczzl, quindi è una mattinata in cui si sente un
po’ di storia locale nell’aria. In un rigurgito di
nostalgia dico che si dovrebbe fare una festa, una
volta all’anno, tipo le rimpatriate scolastiche, e
chiamare tutti quelli cui è capitato di abitare qui.
Insomma, è un po’ come lasciare la scuola dopo la
maturità. Va be’, ci alziamo, lei si mette al lavoro
io sistemo il parafango con del fil di ferro, cerco
gli attrezzi nell’attrezzaio, mentre poi si avvicina
mezzogiorno monto il portapacchi, intanto Ange lava il
lavandino di graniglia della cucina; dopo salgo in
camera e smonto il letto che era di Fedor e che mi ha
lasciato andandosene prima di me, circa un anno fa.
Poi lei mi aiuta a trasportarlo, lungo il lungo
corridoio poi giù dalle scale, prima la rete e poi il
materasso, ciabattando con le birki ai piedi,
traversiamo l’aia e riusciamo a montarlo sul
portapacchi. È una partenza, da oggi non ho più la mia
stanza, anche se c’è rimasta ancora un po’ di roba,
anche se tornerò a dormire ogni tanto. È proprio una
bellissima mattina fredda di sole e primavera, i gatti
ogni tanto attraversano l’aia, ci sono un nuovo gallo
e una gallina. Ho guardato l’orto, bello grande, non
c’è che dire, si vedono già le file dei germogli.
Cresceranno.
Poi un abbraccio lungo e parto, la strada è piena di
pozzanghere, sono accaldato e il sole è alto così ho
aperto i finestrini, e passando sull’acqua alzo
schizzi alti fino al tetto, ci passo attraverso, come
in un camel trophy, vedo goccie color fango di fianco
a me, su e giù nel bosco, all’altezza della mia testa.
Arrivato al termine della “lunga” fermo la macchina e
la fotografo. Certo non sono un emigrante americano
del ’29, ma forse, anche se per arrivare a MO sono
solo 35 km, lo spirito è un po’ quello, di una
migrazione, sento che il momento è come un perno cui
gira attorno un’altra piccola svolta della mia vita.
Da una casa all’altra viaggio tranquillo, pieno di
pensieri ed emozioni, piano in curva e senza dare
strappi, perché come al solito non sono stato a
perdere tanto tempo per fissare bene il letto, due
cinghe gettate sul portapacchi e via. Scendo dalle
pendici di Montegiovi – Monterifrassine, Vetrice,
Montebonello, Rufina, Contea, Dicomano, San Bavello,
San Godenzo, ormai è tutta strada di casa. Arrivo a MO
un’oretta dopo. Lo sterrato è asciutto, il guado
basso, riesco a salirlo tutta con la Escort senza
slittare, fino alla fine. Buon segno, ormai lo so
che in queste piccole cose mi piace tentare la
fortuna. Smonto da solo, isso sopra le scale, e passo
la giornata a sistemare il letto, sempre provvisorio,
una piazza e mezzo invece di una, in attesa del
catafalco di Milano, quando finalmente avrò svuotato
tutto l’appartamento.
Ecco, questo il tributo a Cmpczzl, ora sono passati 10
gg, una Pasqua con pioggia e neve e tutto come
bloccato ancora nell’attesa della primavera, che prima
o poi esploderà. Brucio un po’ di sterpi, faccio un
po’ di legna e piccoli lavori dentro e fuori, ma
fondamentalmente riposo.
Continua –

venerdì 29 febbraio 2008

Bollettino Montaonda 08


Scusate la lunghezza, ma è venuto così… giuro non lo
faccio più...

Sono tornato da Milano il 25 pomeriggio, insieme alla
carissima Federica di Roma. Porto con me la scala, la
valigia rossa e la solita macchinata di libri. Passano
due giorni senza che faccia nulla di concreto per la
casa: ieri siamo stati a Visarno per le prove dei
terraterra, oggi andiamo a Campicozzoli e venerdì o
sabato ritornerò a Milano. Così non farò in tempo a
combinare quasi nulla, anche perché devo chiudere una
traduzione, il secondo libro di Pollack, con
Boringhieri ho fissato la consegna al 15 marzo. Ieri
però siamo andati dietro la casa, a guardare il
mandorlo in fiore, oggi sto a tradurre e ora guardo
dalla finestra e scrivo. Federica è proprio la persona
– ma penso anche a me stesso, sia chiaro - cui
Montaonda si rivolge: convalescenti in cerca di
equilibrio. Mi parla delle sue sventure di salute e
del Qui Gong, o come si chiama. È incredibile come in
questa fase della mia vita si assommino e intreccino
stimoli e testimonianze verso il pensiero orientale –
che finora ho sempre accuratamente respinto.
Oggi piovicchia, e mentre scrivo guardo le volute del
fumo che esce dal camino del vicino. Il fumo fugge
portato dal vento, piegato sopra il tetto. Si arriccia
appena superato il colmo, si avvolge su se stesso in
spirali e danza, portato via e quindi sparpagliato da
una folata contraria, come si diceva un tempo: ai
quattro venti. In queste evoluzioni aeree, nelle
ascensioni del fumo, verrebbe da cercare significati,
vaticini, intepretazioni sottili e luminose. Già, a
questo non ci avevo mai pensato: il fumo, come anche
le nuvole del resto, spesso porta la luce, una luce
morbida e diffusa, una traccia di luce bianca nel
quadro della mia finestra…
Ora ho appena filmato circa 5’ di fumo e nuvole, con
un sottofondo – casuale, perché era la musica che
avevo scelto per lavorare alla traduzione prima di
interrompermi – di viola da gamba di Sainte Colombe,
nell’esecuzione di Jordi Savall. Stare qui, davanti
alla mia doppia finestra (ho deciso ormai che seconda
finestra è il nome dello schermo del computer, e gioco
ad alludere alla sua innegabile realtà-funzione da
“second life”, al suo ruolo di “terzo occhio” e alle
mie spezzettate e mai compiute rimuginazioni sulle
finestre), mi sembra un po’ come essere nella cabina
di pilotaggio di un’astronave che viaggia per le
nuvole e l’aria, per il vento e i boschi, lanciato
nell’immobilità del tempo che trascorre, che fluisce.
Di esso il fumo mi appare la visibile schiuma, schiuma
di flutti aerei che si infrangono sui fianchi del
tetto davanti a me, la propra sghemba di una nave
dalla tolda di terracotta, l’arca di Ueli (il vicino),
carpentiere nostromo di questo viaggio quasi
d’argonauti – chissà, se le schiere s’infittiranno di
cinquanta e più eroi ed eroine (questa la novità
rispetto al mito antico, molte, in maggioranza le
donne nell’equipaggio), oltre le simplegadi, i
dardanelli del colle di fronte, alla ricerca del
vello, del sampo, tanto cari al mio caro e vecchio
Meuli...
Così scorrono lungo le fiancate della mia nave fluide
correnti d’aria, onde di monte, monti di onde,
provenendo da chissà dove lambiscono i coni delle
montagne ricoperte di selve tra cui sta incastrata la
mia nave di pietra, incagliata come un’arca in attesa del
diluvio. Se i flutti provengono da babordo, e il
fumaiolo piega il suo pennacchio sciamante verso
destra, vuol dire tramontana, e le onde bianche calano
dai gioghi del nord, filtrano fin qui d’oltre
Appennino, da vastità pannoniche, ampie quanto un
emisfero, dalle terre degli sciti e dei ghiacci in
disgelo, dalla notte splendente degli iperborei,
l’aria di ghiaccio che avevo incontrato nelle pianure
e nelle selve del nord – la stessa riconosciuta e
sentita sul volto e nelle ossa sabato scorso, quando
camminando nel mezzogiorno gelido verso la vetta del
Falterona il vento sollevava aghi di ghiaccio
scintillanti, talmente freddi da non saldarsi tra
loro, così che questa neve sabbia e farina scivolava
impapabile dagli alberi, fine come fumo, senza reggere
quasi gli scarponi nella nostra salita, mentre il
respiro si raggelava in piccoli ghiaccioli sui baffi…
se i flutti invece battono da bordo, e il fumo piega a
sinistra, è lo scirocco che risale la valle, e allora
mi portano aria umida e grassa, avanzano dal basso
gocciolando i caparbi monsoni, oppure, quando c’è il
sole, le dolcezze invernali, fichi e uve, flutti
languidi di arie mediterrranee, egizie e tunisine.
Ecco, sul colmo del tetto s’incontrano le arie del
mondo, e io ne respiro lo sciamare gonfiandone i
polmoni, con la stessa attenzione che ha l’orecchio
notturno, teso, quando ascolta la voce di radio
lontane, mentre la mano poggiata alla manopola della
sintonia si muove con precisione micrometrica,
navigando in mondi d’etere – dove un millimetro è un
salto di mille e mille chilometri, attraverso
l’affollamento denso di innumerevoli frequenze - balza
e cattura le voci più lontane, le sonore e le piatte,
cupe o gracchianti, avanti e indietro, a zigzag per il
mondo, senza ordine, per tutto l’incredibile spettro e
la sorpredente varietà delle voci umane, babeliche e
sovrapposte, intervallate e interrotte, spezzate o
schiacciate da fischi schioccanti, colpi e rovesci di
scariche elettriche, onde notturne e invisibili, tra
fischi modulati, come animali nascosti e appostati nel
bosco, scovati da un movimento minimo della
mano, uguale e corrispondente, sulla lente del
cannocchiale acustico, elettromeccanico, davanti
all’occhio, all’orecchio, al polmone spalancato.
Poco fa ho ricevuto una chiamata al cellulare, mi
hanno appena confermato – la voce andava e veniva,
mentre guardavo giù dall’altra finestra, verso bordo,
verso le rocce sopra la cascata - che entro un mese i
tecnici multilink verranno a installarmi il ricevitore
wi-fi per aprire la trasmissione internet a banda
larga, via radio. Ecco, m’immagino allora la scrivania
come una navicella, una cabina di pilotaggio, da cui
navigherò immobile nel mondo, da questo
retroposto/avamposto di terra sporgente, proteso verso
boschi, anfratti, e acque, animali fruscianti, lune e
nuvole. Senza illusioni, spero: proprio come ora per
esempio, dopo che ho scritto provo a fotografare il
fumo, e ogni volta che scatto subito guardo la
foto ma la spirale, il fiocco sinuoso, non c’è più, la
sua forma mutevole nell’immobilità scompare. Blow up.
Sono sorpreso, ma per quanto scatti proprio non riesco
a bloccare un’immagine che sia figura, che corrisponda
all’inafferrabilità, all’evanescente danza del fumo.
Guardare, filmare, fotografare il fumo. Toccarlo,
ascoltarlo, sentirlo…

lunedì 4 febbraio 2008

Bollettino Montaonda n.7


Eccomi qui, con il solito ritardo. È stato un inizio
d’anno pieno di lavoro, anche qui a Montaonda,
nonostante l’acqua e le nebbie, con rari sprazzi di
sole. Le novità: Patrick ha abbattuto il muro della
stanza verde, ovvero: ha disintonacato lo sgabuzzino
sopra la scala, ha dato la ricciola (cemento?) sulle
pietre nude, poi l’intonaco e infine il velo, quindi
ha demolito la parete e scavato le scatole e tracce
elettriche nei muri. Ha tolto il cantiere mercoledì,
sabato è venuto Papero, vecchio amico della casa che
fa anche l’elettricista, e ha tirato i fili, abbiamo
discusso dove e come, non è stato facile. Io
materialmente di tutti questi lavori non ho fatto
proprio nulla, nei giorni cruciali ero a Milano, e poi
quella polvere fine mi dà un fastidio! Domani (scrivo
domenica sera) verrà Papero a chiudere le cassette e
tirare gli ultimi fili rimasti, poi chiuderemo tutto e
potrò iniziare a pulire il nuovo spazio (ecco, a me
tocca fare le pulizie). La casa è stata piena di
calcina e polvere (dappertutto!). Ora c’è odore di
cemento fresco, fa un po’ umido, se ci fosse il sole
sarebbe certamente più gradevole, ma vabbe’. Pulendo
comincerò a pensare come arredare e dipingere le
pareti. Ma con calma, come sempre. Dovrò grattare le
tracce di cemento sulle travi del soffitto. Le
meditazioni questa volta ve le risparmio, ci sono,
naturalmente, ma ho troppe altre cose per la testa,
perdonate, aspettate. Nel frattempo ho ormai portato
qui quasi tutti i dischi e i cd, lo stereo, una metà
scarsa dei libri. Anche fuori casa i lavori procedono:
Paolo e Francesco, due campicozzolini-giardinieri sono
venuti a pulire un po’ di rovi e pruni, dal pendio
informe e impenetrabile sono venute fuori tre
terrazze, anche se i muretti sono in parte crollati e
bisognerebbe rifarli. Andranno avanti appena il tempo
lo permetterà, l’obbiettivo è pulire tutto il lato
sotto casa e tirare fuori gli ulivi. Anche qui faccio
poco, ci vogliono dei professionisti se voglio dare
una svolta. Oggi ho anche svuotato un paio di cassetti
di carte, roba della fine degli anni ’90, progetti di
siti, portali, corsi interattivi, un po’ ho buttato un
po’ ho tenuto, così, per affetto. Anche tra i libri,
che nel trasporto si sono mischiati come un mazzo di
carte, cerco di ritrovare un ordine, una suddivisione
per temi, filoni, ambienti… oggi mi sono anche
concesso il lusso di suonare un po’ il sax nello
spazio vuoto, una specie di consacrazione acustica, e
devo dire che la casa risuonava in maniera
impressionante. È bello quando ci sono spazi più ampi
di una stanza, il suono prende riverberi lunghi e
suggestivi… Ah, ricordate salamah, il mostriciattolo?
Ho scoperto che si chiama salamandrina terdigitata…