giovedì 22 dicembre 2016

Zitto Zuppa Zappare


(Questo post nasce come contributo per CRT “In busta chiusa”: loro mi hanno dato le tre parole del titolo, io ho messo le altre)

 
Zitto
Zuppa
Zappare

Come oggi con questa busta chiusa, negli appelli quasi sempre sono stato l’ultimo (rari i casi diversi: ricordo con sollievo gli anni di liceo in cui dopo di me c’era Lucia Zei) e questo forse mi ha portato fortuna. Difficile essere interrogato, difficile essere notato – se proprio non lo volevo. E da parte mia restavo volentieri zitto.
In effetti mi piace più ascoltare che parlare, e ho anche avuto modo di notare che quando parlo spesso qualcuno ci trova da ridire, e quindi appena posso lo evito. E quando devo, parlo poco. Ultimamente devo di più, perché mi capita di dover “tenere banco”, ma anche quando parlo in pubblico cerco di farlo stando zitto. Ovvero dicendo cose che parlino loro, e la mia parola sia soltanto un riferire e accostare, presentando sintesi di detti altrui, da cui far scaturire opinioni – non mie ma di chi ascolta. Vorrei che insomma quel che dico fosse suggerito, stimolo all'ascolto, ricerca e verifica, confronto. Tanto più ciò avviene da che divento sempre più sordo: spesso non sono in grado di rispondere alle domande. Me ne sto zitto dunque, e, se posso, scrivo. Scrivere ha grandi vantaggi, anche se può parere anacronistico in un’era di neo-oralità difendere la scrittura, che non disturba e non obbliga: per leggere (tanto più oggi) ci vuole un atto di volontà. Anche se la scrittura è debole, e non si difende, se viene usata male –abusata- e a volte ci rovina (penso ai mille contratti firmati ma non letti), usata da malintenzionati. Vere truffe avvengono con la scrittura, quotidianamente, e non parlo di soldi. Di qui la diffidenza del contadino. Ma io invece intendo, e anche in letteratura. Eppure, resto  convinto che la scrittura in sé sia magia pura – ieros gliphos - scultura sacra - il dolo sta nell’attuatore. Carta canta, se ci pensiamo questo conciso ossimoro è stratosferico. Per me è un po’ così: scrivo per cantare, anche se sto zitto, forse perché esco da un’infanzia di stonature (che c’entra, direte? Ho sempre pensato che chi canta deve arrivare a modulare una “voce sola”, nel senso che o ha una voce originaria, spontanea e naturale, che sa dove andare, e allora tanto di cappello, oppure deve educarla e educarsi al punto di riunire e armonizzare la polifonia naturale che tutti abbiamo dentro appunto in una sola voce – io non ci sono ancora, mi aggiro sperso nei meandri delle valli dell’eco, di me e degli altri, della perdita e del ritrovamento di entrambi – sordo, sono ancora per buona parte dentro al labirinto).
La scrittura  permette di isolare le voci, stratigrafarle, di seguirle una per una, senza fare troppi danni.

Zitto e mangia! Adoro la zuppa, da quando sto in Toscana ho preso l’abitudine di ammollare il pane raffermo, addirittura ribollirlo per farne mille zuppe diverse, da quella fredda che si chiama panzanella (estiva, e neanche zuppa, perché il pane viene strizzato e si mangia poi fredda, come un couscous) a quelle calde tipo ribollita o pappe varie; ingrediente principale è il pane secco, ma ci vuole quello scipo senza sale, altrimenti 'un viene uguale. Si tratta di cibi sovversivi (checché ne dica padre Bianchi di Bosa), pastoni per gli animali che siamo, ritorno a capo chino a un mondo contadino di penuria, in cui non si buttava nulla, il pane era troppo prezioso per darlo alle bestie. Oggi i panettieri offrono in regalo ceste di pane del giorno prima e conosco diversi che passano a raccoglierlo, stipato nei sacconi di carta delle farine, per darlo agli animali (dicono, ma volte ci trovano dentro anche schiacciate, pizze e croissant, basta scaldarle un attimo in forno e tornano fragranti - roba del giorno prima, dico).
Ma poi è anche bello pensare che zuppa vuol dire fradicia, intrisa fino alle ossa, come può capitare a una camminatrice sorpresa in montagna da pioggia a dirotto – a me quante volte è successo, la sento l’acqua come una forma particolare di condivisione con l’aria che mi bagna, e con le persone – sono zuppa d’amore potrebbe dire un’innamorata – sono zuppo di questa cosa (noi si diceva anche “zeppo”, che ci somiglia molto, anche se questa parola indica più una misura piena che un intridersi, una pervasione).


E veniamo allo zappare – zappe ne conosco un po’, da quando ero ragazzo e manovravo quelle di casa paterna, soprattutto gli zappini nell’orto della prozia, ma anche ora ogni tanto (foto1) da quando sono andato ad abitare vicino alla terra (nel senso che quando esco di casa non c’è l’asfalto, ma proprio un pratino verde di trifoglio, terra sterrata e tutto il resto).
Pare ora che la zappatura, secondo Fukuoka, padre della permacultura, sia una pratica inutile e devastante il suolo, e forse ha ragione. Perché svellere le zolle di terra, perché asportare la pelle dal terreno, e coltivare su una ferita aperta, la terra nuda e essiccante sotto il sole? Non è forse più rispettoso mettere a coltura le piantine sotto il sovescio, senza pretendere di creare l’orto, lasciando alla natura il resto? Ma noi dobbiamo mangiare tanto, e quindi? Quindi si zappa (che tra l’altro, tra tutte le operazioni del contadino resta una delle più faticose, di quelle che proprio spezzano la schiena). Io, per me, preferisco lo zappino, che è un po’ il bisturi del contadino, mi porta più vicino alla terra e alle piante e la mia misura è l’orto non il campo, in cui mi perderei.

Appendice: Altre zappe
La zappa sui piedi”, bello spettacolo di Andrea Pierdicca (si trova su Youtube) sull’introduzione dei pesticidi in agricoltura e la situazione attuale delle api.
La zappa” (foto2) di Rocco Lombardi, un poster che gli avevo commissionato per combattere contro le pale eoliche. La frase era mia e il poster, secondo me, con la sua contrapposizione tra pale e zappa, tra mostro vorace e contadino piegato, è venuto bellissimo. Ma non è diventato un’icona del movimento antieolico: fa paura, mi hanno detto. Amen, due librerie lo hanno accettato e forse l’hanno ancora in vendita, Calusca a Milano, e Black Spring a Firenze.


Zappatori senza terra (e senza padroni)”, (dulcis in fundo, è qui che volevo arrivare) era un movimento di ritorno alla terra degli anni ’70 e ’80, nella valle dell’Acquacheta, qui dietro Montaonda. Profughi della politica, frikkettoni in fuga dalla metropoli-droga, utopisti dell’alternativa verde. Ce ne sono ancora un po’, di quei pionieri di allora, sono rimasti una sparuta minoranza ma hanno mantenuto vivo un movimento interstiziale (così lo chiamo io), che andava a occupare gli spazi abbandonati delle campagne sui monti, dove di case e terreni non gliene fregava più niente a nessuno (oggi c’è chi prova ancora, ma è tutto molto più difficile). Non hanno vinto ma non hanno neanche perso, si sono vissuti una vita cocciuta, come gradiva a loro. Con alcuni di questi “ritornanti” ho rapporti duraturi, sono persone quasi normali (e chissà quante ce ne sono sparse per monti e colline d’Italia). Gli Zappatori senza terra sono nati prima degli Elfi, degli ecovillaggi, del cohousing e di tutti gli altri. Erano “quelli delle comuni”. Nella foto 3, si vedono 4 di loro sono in Piazza San’Annunziata a Firenze, dove è nata la Fierucola, il primo mercatino biologico italiano (tutt’ora esistente). C’è anche un libro che racconta la loro storia (in maniera un po’ univoca mi hanno detto loro), mi piacerebbe ripubblicarlo (integrandolo, o addirittura farne un altro). C’è diverso materiale online, il mio consiglio a chi fosse interessato è sfogliare la rivista underground Lato Selvatico, e tutto quel che si trova sotto “Selvatici” (altro che Scurati Moresco Funetta Ammanniti – l’alternativa al lutto c’è, ed è fiorita). Gli si aprirà un mondo (zitto, zuppo e zappatore: appartato ma presente in tutti i paesi occidentali, a partire dall’America dove si è innestato sui rami buoni del movimento alla conquista del West).


In Busta Chiusa, un progetto di Cartaresistente
Lettera Z di Luca Vitali
Illustrazione di testa: Davide Lorenzon

martedì 11 ottobre 2016

La preghiera della mantide




L’altroieri
Che cosa fa la mantide tutto il giorno? Non dico una mantide qualunque, dico questa qui. Che mi gira le spalle a un metro e mezzo da me, mentre io sistemo la traduzione e le note di T.D. Seeley, La democrazia delle api (vorrei riuscire a pubblicarlo per Natale ma so già che non ci riuscirò), brigo e forco al telefono, al computer, passano le ore e lei non si muove. Ma nemmeno di un millimetro, la tengo d’occhio.
È il secondo giorno che sta lì, appesa a testa in giù al tessuto della sdraietta poggiata contro il finestrone dello studio. Ieri sera, sono andato a vedere, non c’era più, stamattina eccola di nuovo. Sta lì, immobile. Cosa pensa? (la domanda sembra oziosa, ma si riallaccia a un famoso libro di un entomologo americano, Jeffrey A. Lockwood, Grasshopper’s Dreaming, che prima o poi spero di tradurre e  pubblicare - dove lui cerca di fare i conti con la propria professione di disinfestatore e il diritto naturale delle cavallette di vivere la loro vita, basata sulla distruzione di altre forme di vita, in particolare i campi di cereali delle pianure nordamericane).
Probabilmente la cavalletta (dice Lockwood) non pensa nulla. Probabilmente (dico io) sta aspettando che le sue uova, nel suo ventre enorme, maturino,  e resta immobile per risparmiare energie, in un posto dove nessuno va a darle noia (non per esempio i famelici gatti del vicino, o i tanti animali selvatici che si aggirano per i dintorni). Ma che ne sappiamo noi di quel che avviene nella sua mente, e se quel che avviene ha davvero una dignità inferiore rispetto a quel che avviene nella nostra (la questione andrebbe una buona volta affrontata, viste le ignobili derive che siamo riusciti a causare, in pensiero e in opere).


Noi, i soliti allegri stupidotti, diciamo che la mantide prega, perché tiene le zampe anteriori raccolte e come giunte. Ed è luogo comune che “la religiosa”, dopo essersi accoppiata stacchi la testa al marito “…e se lo mangia” (cito da una sconosciuta ma simpatica canzone di Valentino Receputi, potete ascoltarla su youtube, "lo scarafaggetto"…). Dopo l'accoppiamento ormai non serve più, e in fondo perché sprecare tutta quella sostanza nutriente? La selezione naturale ha trovato un buon sistema di riciclo. Meglio delle api, che i fuchi li tollerano in maniera esagerata (ma le api si sa, sono ricche e generose, producono miele in eccesso e se lo lasciano prelevare senza troppe difficoltà).

La mantide è lì. Prega per le sue uova? Sogna il prosieguo della sua specie – come noi, manovali, scienziati, artisti, scrittori, mamme e papà, sogniamo il prosieguo della nostra?
Io credo che non pensi, non nei termini del mio almanaccare. Probabilmente medita, a un livello superiore, sulla vita. Ascolta il respiro, il cuore che batte, sente il sole che sorge e tramonta, l’autunno che si avvicina. Se sentono le api, sentiranno pure le mantidi, no? E dal sentire viene il sentimento. Non è in fondo questa, ora che non possiamo non sapere che non esiste nessun dio (notate le 4 negazioni in fila, sì?) l’unica religione possibile, quella fisica, naturale, della terra, del cosmo, dell’alternarsi, dell’estinguersi e rinnovarsi della vita? 

Ieri
Si è mossa un paio di volte, di pochi centimetri, lungo la sdraietta. L’ho fotografata (eternata).
Certo, mi viene da confessare, da quando ho iniziato a seguire le api il mio interesse per gli insetti è aumentato. Nell’ultimo anno poi, prima col libro di Faccioli, poi  Lockwood e ora Seeley, è diventato addirittura significativo. Gli insetti, chi l’avrebbe mai detto, un mondo perlopiù schifoso e fastidioso, che potessero diventare un’avventura letteraria, un campo d'indagine esistenziale. Anche perché Ernst Jünger a me non è mai stato simpatico. Eppure, a pensarci un attimo, non ci sarebbe voluto molto a immaginarlo. Se si va a rovistare, cinema e letteratura, di roba se ne trova, e parecchia (per dire: Nabokov).

Oggi
Domani parto: lei è ancora lì, stamattina sulla stecca, l’ho fotografata ancora una volta, ora s’è spostata in un angolo. Resta immobile tutto il tempo – giorni e notti. Come finirà? Non lo saprò, perché al mio ritorno non ci sarà più - solo il ricordo di questi giorni (i gatti invece prosperano e si moltiplicano). Gli insetti sono anche questo, tenaci, fragili, invasivi, talvolta estremamente effimeri.
22 settembre (11 ottobre)

 p.s. Le foto sono scattate attreverso il vetro, per quello si vede dello sporco in sospensione (dentro l'acquario, a Montaonda, ci vivo io)






giovedì 29 settembre 2016

Le mele di Cezanne (quater pomm): il confine visibile


Ho un amico, qui vicino, si chiama Paolo (io lo farei santo), abita un podere sulla strada di Pian di Soia, nell’Appennino di là dal colle, verso la Romagna. Ieri è venuto per guardare le api, e mi ha portato una canestra di prodotti tardivi dell’orto, pomodori, melanzane, susine, mele. Uno strano miscuglio dovuto all’altezza - sta credo tra i 700 e gli 800 metri - e alla strana stagione di quest’anno, per cui certi prodotti estivi si mescolano ai primi dell’autunno (noi agricoli lo ricorderemo come l’anno dei pomodori). Lui mescola, fa un po’ permacultura, un po’ biodinamico, un po’ tradizionale – dove la tradizione è buona. Vende i suoi prodotti nei mercatini e stenta a campare, come tutti coloro che campano del lavoro delle proprie mani (metafora: ha anche un trattore e attrezzi vari). Anche lui profugo (=uomo in fuga) sradicatosi dalla pianura e ripiantatosi in una valle abbandonata.
Le mele che mi ha portato sono quelle che non può vendere, perché bacate, segnate dalla grandine, ammaccate e mangiucchiate dagli uccelli. Le mangia lui, le mangio io. Sono mele toste, si vede a colpo d’occhio. Hanno la buccia dura e coriacea come pelle, e la polpa tenace anche quando è matura, fatta per resistere sulla pianta. Pesano un sacco. Hanno passato tutta l’estate all’aperto, sotto l’acqua, il vento, aggredite dal sole. Non mi dispiace che abbiano quest’aspetto vissuto, mi sembrano più vere.


La prima che ho assaggiato mi ha strappato un grido “una Boskop!”, che è la varietà che compravo vent’anni fa Berlino, nel Kaiser’s sotto casa, a Kotti, una scoperta tedesca, in Italia non c’erano (forse nell’ex-Tirolo?) Mele che quattro fanno un chilo, aspre e dolci, dure come sassi. Da quanto non le mangiavo. Le altre sono di altre varietà, ma tutte affini e speciali, raccolte negli anni da cultivar antiche del luogo e più in là, portate da Annette, la sua donna, dalla Germania, trovate e piaciute, come si dice. Paolo è molto contento, anche quest’anno gli alberi hanno fruttato bene: una pianta sessanta chili – e quando le vado a vendere spariscono subito, le vogliono tutti, dice. Anche se il prezzo è maggiore di quelle dell’ortolano, certo. Non c’è possibilità d'errore, non c'è concorrenza.


Ogni giorno ne mangio un paio. Per mondarle devo tagliarle a spicchi, poi col coltello a punta ritaglio i buchi, elimino il marcio – ma la polpa è intatta, sembra inossidabile (ma lo è). Il sapore fresco e frizzante. Rafforzano le gengive, queste mele. E risintonizzano anche l’animo (all’anima non sono proprio sicuro di crederci) con la stagione, la terra, gli alberi. Gli scarti si buttano nel prato, senza curarsi di differenziare. Ci penseranno altri abitanti di questa terra.
Naturalmente simili mele mi rimettono pure in contatto con le mele della mia infanzia, e passo a volo sui dettagli della storia famigliare, degli ultimi alberi da frutta nel paesino dei nonni, delle mele grinzose conservate fino a Natale nelle lettiere chiuse nelle stanze fredde. Il mio occhio corre ancora più in là, invece, e arriva a Cezanne. Non sono parecchio simili a queste, le sue mele? Ed ecco che vi rigiro una bella domanda: come possiamo pretendere di capire le mele di Cezanne se non le abbiamo nemmeno mai mangiate? Come possiamo capire cos’è qualunque cosa - una pipa - se l’abbiamo vista solo in effigie? Non riduciamo proprio tutto a esercizio di stile, non mi sembra il caso. Per miopia nostra faremmo un torto all'artista (Cezanne si dannava per le sue mele, come per la sua montagna, la Sainte Victoire - ci sono dovuto passare sotto per capire perché). Chiediamoci la vita dove sta, allora. Secondo me infatti per Cezanne, come per Caravaggio e tutti gli altri pittori che non avevano altra raffigurazione che le loro (no photos, no film, per farla breve neanche i frigoriferi solo esperienza) quelle mele erano ben altro, come tutta la natura ritratta un tempo, rimandava direttamente alla parte viva (morta solo sulla tela, pensiamo a come puzzavano le città del Seicento – e nei quadri non ce n’è traccia) della disposizione della cucina (le mele non uscivano dal bancofrigo del super, ma riposavano maturando o marcendo, cosa altrettanto naturale, visto che tutto faceva il suo corso), in cantina, e poi su una fruttiera. Proprio come le mie. Un altro mondo di colori, sapori, odori. Per non parlare della luce (bella questa delle mie, col ritocco potrebbe diventare anche rembrandtiana), senza altro artificio che sole, candele e fiaccole. Lo so, sono uno snob, un dandy privilegiato (ci sono delle luci qui fuori, nel cielo, che il cittadino non se le immagina nemmeno impasticcandosi, o peggio se le rincorre sui salvaschermi di flickr-tumblr-pinterest-ecc: qualche giorno fa mi sono fatto un giro, che palle questi fotografi della natura spettacolo, che colgono ogni palpito spettacolare degli antipodi) ("purché sia lontano da te, dal mondo dove sei!", sembra essere l'unico requisito sempre richiesto). Perché, mi chiedo, si ritrae la natura quanto più ci si ritrae da essa? Bene, chi ora dipinge (o fotografa) le mele, che intenzione ha? Che intenzioni aveva un tempo? E io? Nel mio piccolo, quella di mostrarvi una delle meraviglie di questo mondo qui, ma proprio quiqui, quello dimenticato di tutti i giorni, la frutta  (che senza argomentare oso chiamare) vera. Prima di mangiarmela e buonanotte ai suonatori, lasciarvi segno e memoria di ciò che è stato, che è passato senza tanto clamore (ma chi mi ispira, chi è il mio demone, direbbe Socrate?) Potrei sprecare pagine e pagine per cercare di precisare, non ci tengo (rovinerei tutto). È la stessa differenza che passa tra un bicchiere di vino bevuto in un locale di città e lo stesso vino bevuto su una terrazza al sole, quiqui, per esempio. Le sue molecole si mescolano con quelle di un’aria diversa, l’ossigenazione del vino e dei miei polmoni è diversa, i miei neuroni subiscono stimoli totalmente diversi (più inclini alla felicità). Basta, il vino è più buono, e le mele tornano a essere mele, chi lo capisce buon per lui, chi no amen.


Ma: se le mangio torno vero anch’io? Già il fatto di chiedermelo mi fa sperare - o m'illude? Sarà una magia di contatto? Il frutto è un dono offerto dalla pianta, non è ucciosione, né prelievo e saccheggio, ce lo siamo dimenticati tutti? È la mela, allora, che mi dà consapevolezza di dove sia il Paradiso? Questo è il succo (scusate la metafora) di una delle illuminazioni del buddha, e forse questa è anche l’illuminazione dei fruttariani. E questi ultimi, forse non sono soltanto quelli che “non mangiano altro che frutta”, forse alcuni di loro sono anche quelli che “amano mangiare la frutta” (distinguo perché oggi la frutta, si sa, la mangiano quasi soltanto i salutisti – e se la fanno piacere come all’intossicato piace la tossina, al medicato la medicina); forse alcuni ne restano illuminati.
Illuminati dalla frutta, perché no? Non risplende in queste foto come un pianeta? Che malus c'è? (questa è una citazione di Menegh...). Dio frutta, dio Mela! (esistesse, non si offenderebbe, l'ha fatta lui, e gli è senza dubbio venuta meglio di noi). Non potrebbe annidarsi qui un riflesso residuo del divino, scomparso e radiato dal mondo di cui ci siamo impossessati? Il dio ama nascondersi, diceva Eracl... Insomma, qualcuno oserebbe ancora negare che siamo stati noi, a scacciare Dio dal Paradiso? (Perdonate, sto elaborando La scuola cattolica di Albinati).
Oppure, più semplicemente guardiamo (visto che non riusciamo più a esserlo, noi scissi per sempre) gli animali: adorano mangiare la frutta, e non fanno gli schifiltosi se è ammaccata. È una provocazione tutto questo? Può darsi, ma nessuno vorrà dare per scontato che tutti i vegani siano come lo chef di Crozza, no? (devo per forza aggiungere che non sono vegano?).
Ah, devo un grazie anche a un altro Paolo, Faccioli, "fare" con lui il suo libro (Dall'altra parte dell'affumicatore) mi ha portato un piccolo passo più in là - di dove o verso dove, chi lo sa. Intanto, per ritornare all'inizio, voi godetevi lo splendore di queste mele, io mele mangio, e ciao.
Montaonda, 21 settembre (ritoccato il 4ottobre)

venerdì 16 settembre 2016

Brumania: qui si generano le nuvole (Intervallo)


Ieri e stamattina ha piovuto, per la prima volta in maniera consistente, a terminare l'estate. C'erano ancora 30 gradi, oggi di meno (ma non so bene, sono inchiodato dal lavoro al computer e le foto le ho scattate dalla finestra).
Tutto procede, come sempre troppo impegnato rispetto al mio progetto originario (vivere in contemplazione?) - la messa online del nuovo sito e il lancio del nuovo libro (link qui), dell'amico apicoltore Paolo Faccioli, che mi sta particolarmente a cuore perché coniuga due aspetti (tra i tanti) non facilmente conciliabili della mia vita, il rispetto per gli altri esseri viventi e l'apicoltura, che si basa comunque sul prelievo del lavoro altrui (ma di questo parla appunto il libro).
Brumei, potrebbe anche essere il nuovo nome orientalizzante di Montaonda. Dall'arsura di un'estate arida e bollente ecco che si precipita verso gli umidori dell'inverno. Hainoi, è come cercare di cavalcare i cavalloni marini... Ho ancora nella pelle la sensazione degli ultimi bagni nel mio lago preferito, tra le Alpi, e qui bisogna ancora finire di pulire le gronde, decespugliare, tagliare la legna (la motosega è in clinica). Ieri ho acceso il caminetto, e ogni giorno mangiamo gli ultimi spettacolari pomodori degli amici, gli abbondanti e spericolati fichi Settembrini (mauiscola in onore a Thomas Mann e Lukacs, naturalmente).

Siamo qui, nel mezzo, alla finestra, tra cipresso verde (ieri era marrone, d'ora in poi lo chiamerò ramaleonte) e nuvole, un metaxù molto amato ma piombato un po' tra capo e collo, a inventare questo intermezzo tra un post e l'altro, tra un libro e l'altro (una giornata, un mese, un anno e tutti gli altri).


lunedì 20 giugno 2016

Sintonie cromatiche (prima parte)



Da un po’ di tempo, più o meno da che mi capita, per una ragione o per l’altra, di guardare i libri con particolare attenzione per il loro aspetto materiale, sporgendomi cioè più in là del margine della copertina e della carta che essa racchiude, considerandoli anche nel contesto e nel luogo in cui si trovano (qualche esempio di queste osservazioni le ha pubblicate negli anni il blog Cartaresistente), noto accostamenti fortuiti in cui leggo significati che mi fanno pensare a impreviste corrispondenze. Al punto che mi viene ormai da considerarli veri e propri eventi di sincronicità, tra ambiente e libro, tra libro e libro, tra me e loro, e addirittura tra questi e i miei vestiti (involucro meets involucro?).
Sarà un caso? Certamente. Non di meno, non posso non rivelarle queste sfumature, che fanno sicuramente parte della “nuova (r)esistenza” del libro cartaceo, oggetto che, da quando è stato liberato dal peso del suo contenuto immateriale, è come sempre - inalteratamente - presente nella matericità della sua esistenza fisica, che entra in molteplici relazioni in questo mondo (e anche in quell’altro, ovviamente).

Oppure: non è evidente che le "affinità" si mostrano anche tra libri e libri, o con altri oggetti, senza di noi (to autòmaton lo chiamavano i greci)? A partire dalle varie corrispondenze con altri libri vicini ordinati in scaffale, siano di contenuto o di forma e colore, alle cose poggiate a caso su un tavolino, in attesa di una mano che le e li prelevi? Quante volte abbiamo ritrovato un libro proprio lì, nel posto dove ci aspettava paziente, per offrirsi a noi nel momento giusto?
Non è questa significativa casualità in fondo lo stesso principio che anima l’I-Ging, il principio della casualità che si fa espressione e ordine delle energie cosmiche?
Cerco di spiegarmi con un esempio, la foto qui sopra del libro di Funetta, su cui ho appoggiato il mio attuale segnalibro, formato da un doppio vecchio filo di cotone (reliquia di un fazzoletto ormai disfatto dal tempo). La mia memoria (raccolta nel segnalibro, poiché il segnalibro non è che un simbolo del procedere della nostra vita e della nostra memoria, “arrivata fin lì”) che s’incontra con la grafica della copertina, per dirmi qualcosa. Vaneggio? Ma se siamo disposti a credere alla memoria delle molecole d’acqua, perché non dovremmo pensare altri livelli di affini sintonie cromatiche, di forma, a “simmorfie”, senza farne necessariamente presagi magici da interpretare come i fondi del caffé, accontentandoci invece di leggerle come  epifanie e manifestazioni casuali di un ordine che ci comprende e trascende? Perché dobbiamo stupire di fronte alle manifestazioni dell’infinito rapporto tra materia e forma quando sorprendiamo le regole dell’accrescimento indicate da Mandelbrot in una gemma, nel bocciolo di un fiore, nel germoglio di una felce - e non in un filo di cotone poggiato casualmente su un libro – che traccia il disegno di una sacca, sorta di pancia gravida che racchiude lo scheletro di un serpente, simbolo ctonio e dell'uovo cosmico per eccellenza? Certo tutto è tutto e nello stesso tempo nulla – lo sappiamo: e allora vivaddio, riconosciamolo anche, quando ci appare, nel volo di una farfalla come nella copertina di un libro.
(qui sotto invece: quattro "cose" prese a caso da leggere sulla sdraio dopopranzo. Cosa mi dicono questi colori - cosa racchiudono queste pagine per me? Non c'è forse un senso - come hanno indagato tanti artisti del '900 - in ogni composizione?) 


venerdì 15 gennaio 2016

Inverno? Ma dove?










E chi l'ha visto? Qui a Montaonda ci sono i fiori: quelli estivi, come questa bella margherita, che crede di essere ancora in settembre, ma anche le primule, che già si sentono in primavera. Per non parlare del trifoglio rosso, che si chiede come mai il sole è così basso e non va più su, nel cielo.
Dicono che  verrà ora il gelo: e sia, lo aspettiamo coi ramponi, come voi aspettate i bollettini nuovi -
chivivràvedrà