lunedì 17 dicembre 2018

Piccole montagne innevate

Con gli anni mi sono convinto che non c'è bisogno di andare chissà dove per guardarsi attorno e scoprire meraviglie (magari non proprio e sempre meravigliose, che non se ne può più, ma cose che parlino al nostro sentimento). Senz'altro esagero, e la mia mania di fotografare tombini difficilmente mi porterà mostre o premi, anche perché, da snob qual sono, non mi curo di fare foto belle, proprio come non mi curo più di scrivere testi belli. Il bello ormai se esiste dev'essere - almeno per l'estetica che ho personalmente maturato - un regalo casuale, un'epifania colta dalla mente. E quel che viene oggi vantato bello mi pare non essere altro che cosmesi a ricoprire la dilagata lordura. Diciamolo, non se ne può più di belle foto, almeno da quando esistono instagram e simili non-luoghi dove si raccolgono le immagini talmente incredibili da diventare ridicole e kitsch (il contenitore svela il contenuto).
Così il mio sguardo si restringe sempre di più, e presto tornerei a usare la Rollei di mio padre, se non fosse maledettamente difficile, lungo e costoso. Sono pigro, e imparare a cosa servono tutti i pulsanti e selettori della Nikon mi costerebbe troppa fatica (ci ho provato, ma poi dimentico tutto). Una foto mia vale soltanto come promemoria, un post-it, un "Zettel" (se posso usare la lingua dei filosofi).
Per cui mi accontento di scattare delle ipotesi, e le mie foto sono appunti, annotazioni da sviluppare altrimenti (nel pensiero, che è l'altra faccia della memoria, la mia vera camera oscura).
Il pensiero che sta dietro alla foto che propongo qui oggi è elementare: una spruzzata di neve mette in rilievo le trame del bosco, i sentieri e le forme della montagna, rivelando strade, dossi, salti e ripiani di cui non avrei mai immaginato l'esistenza (soprattutto nel bosco spogliato dal vento).
Per concludere voglio tessere ancora lodi a Cezanne, ricordando la sua mania di ritrarre la Sainte Victoire, montagna incantata, nella sua modestia, che merita il pellegrinaggio di chiunque ami le immagini, e ritenga come me le montagne, tra le mille altre cose che sono, immagini primordiali e fortissime). Io mi sono limitato ancora di più: per scattare non esco nemmeno di casa.




Post Scatto - Si tratta della stessa inquadratura di un disegno di Rocco Lombardi, preso da qualche decina di metri più in basso, che era passato di qui anni fa e ora mi è tornato tra le mani (la cosa curiosa è che pur avendolo lui fatto in agosto il disegno si presenta compatibile con la neve: solo le macchie nere del bosco sono più nette, a causa della coltre scura delle foglie).



venerdì 22 giugno 2018

Storia di un letto in legno riciclato



Sono ormai quattro anni e passa che abitiamo nella casa nuova, e con la scusa che la camera da letto è in realtà un soppalco (cioè il pavimento è fatto di assi poggiate su travi e travetti, mentre l'edilizia moderna ci ha abituati a solette di cemento), all'inizio abbiamo appoggiato il materasso nuovo (un memory, che è comodo ma in realtà è una schifezza sintetica e non so se lo ricomprerei, e mi chiedo se forse non erano meglio i vecchi letti a catafalco col materasso di lana) sul pavimento; poi ci abbiamo aggiunto, già prevedendo la costruzione di un letto, una struttura a doghe IKEA (...) sulla quale abbiamo dormito finora.
Premetto che ho sempre adorato dormire con materasso per terra (era scoppiata parallelamente la moda del futon), lo facevo a Berlino i primi anni (prima di comprare il letto di cartone ondulato e componibile che ancora oggi va di gran moda), e poi a Milano, prima che mia madre vincesse ogni mia resistenza e mi costringesse ad accettare un letto "come si deve", di quelli a contenitore col letto che si alza (intelligente, ma con doghe troppo rigide resta arcuato, posso confessarlo ora), ben fatto, foderato in lino, un letto molto "borghese". Era arrivato a Montaonda1, e c'era rimasto fino al giorno, circa 4 anni fa, in cui decidemmo di traslocare a Montaonda2. Lo smontai, come l'avevo già smontato per portarlo in campagna sul trattore (bollettino n.11, data 17 giugno 2008, nella foto d'apertura si vede il materasso e la rete rizzata sulla sinistra), approfittando dell'assenza di Ange, solo che quando tentammo di far salire la rete di ferro, che è in un pezzo unico 160x200, non c'è stato verso, la luce della scala era troppo stretta. Così smadonnando ho dovuto riportarla di là e rimontare il letto in Montaonda1 (ora con lo slittamento dell'arredamento dalla camera rossa, che è diventata lo studio di Ange è passato nel mio studio). 


Abbiamo continuato così a dormire per terra; scherzando dicevo che in questo modo non c'è rischio di cadere, ma quando abbiamo dovuto tagliare un cipresso vicino a casa ecco che s'è iniziato a fantasticare di farlo col cipresso, come ha fatto Daniele, che ancora ora a distanza di 10 anni ha la camera profumata di legno e senza tarme. Ma poi a chi farlo tagliare, non abbiamo spanconatrice, e quindi cerca il trattore, mandalo in segheria, e poi chissà che non ci sia dentro qualche chiodo nascosto, come capita negli alberi che sono vicino alle case, e allora si deve pure ripagare la lama al falegname... no, abbiamo aspettato. Finché stufi abbiamo deciso di farlo con assi e travetti. Le assi le avevamo in legnaia da un paio d'anni, le aveva portate Ange dal suo vecchio trasloco, ovvero erano immagazzinate nel giardino dei suoi a Firenze, vecchie assi di pino, con un mordente rosso, che aveva ricevuto da Pippo, il suo professore-regista, quando questi aveva cambiato l'arredamento di casa, una ventina di anni fa. E i piedi li abbiamo ricavati da scarti di travetti da tetto che abbiamo trovato in legnaia, di quando s'era rifatto il tetto di Mo2, perché noi "non si butta niente". Un paio di schizzi, diverse discussioni sul progetto, un paio di tagli delle assi chiesti al vicino compiacente, una levigatina con la scartatrice alle gambe, una passata con olio di lino, ed ecco, il letto nuovo. Cosa cambia? Tutto. Non siamo più ragazzi, soprattutto io, e scendere dal letto al mattino e sedercisi sopra la sera per sfilare la calze è molto più agevole, meno faticoso, mi sembra davvero un gran lusso borghese. Lo so, è il primo passo verso il bastone, la carrozzella, ma è anche inutile fingere di essere un trentenne che dorme ovunque. E poi una volta alzati si può rifare senza spaccarsi la schiena, e in pochi secondi. Che comodità! Infine: sotto si spazza che è una meraviglia, e ci staranno anche tutte le nostre scatole (di plastica, di legno di cartone? ancora non si sa) piene delle mille lenzuola che abbiamo ereditato, noi coppia tardiva, e sono gli avanzi delle famiglie scomparse la nostra vera dote.

Mentre lo costruivamo abbiamo avuto più di un battibecco, perché Ange e io abbiamo metodi completamente opposti di procedere: lei si butta sulle cose e capisce come farle facendole, io devo progettare tutto e poi eseguire senza errori (magari!). Alla fine si fa un po' fatica, ci si manda a quel paese, ma le cose vengono. Non perfette, ma funzionano. È un buon compromesso. Perché sono passati i tempi in cui l'uomo costruiva e la donna puliva (anzi se mai martello e sega li usa lei, e non solo perché io continuo ad avere una spalla fuori posto). E poi c'è anche questo riflessione, che costruirsi il letto è un po' costruire la parte più intima della casa, il talamo. Come non ricordare la storia di Ulisse? Quando finalmente riunito a Penelope lei lo mette alla prova chiedendo alle ancelle di spostare il letto lui la interrompe e le dice più o meno, "meschina che sei, ancora temi che non sia io, e mi metti alla prova, per vedere se so che questo letto, che ho costruito con le mie mani, non sia scolpito su un ulivo, ancora radicato per terra, attorno al quale ho poi costruito il palazzo?". La simbologia architettonica, al di là della difficoltà di costruire davvero un letto a due piazze (ma forse il loro era più stretto del mio, che non è passato sulla scala?) tra la chioma di un ulivo. Certo, ci sono ulivi giganti, soprattutto se sono olivastri (il più antico l'ho visto a Luras, in Sardegna, è gigantesco e si calcola che abbia circa 4500 anni, la pianta più vecchia d'Europa, sopravvissuta soltanto, ci hanno spiegato, perché sarebbe troppo faticoso tagliarla, visto il legno durissimo e ricurvo). 
La pianta il cuore della casa. La pianta, il talamo nuziale (come in Avatar), la pianta simbolo dell'inamovibilità e della resistenza attraverso i decenni. Prima che arrivassero le ruspe e le motoseghe (fatevi un giro su internet a vedere come fanno in fretta a tagliare giganti millenari).
Non credo che il nostro letto durerà altrettanto, appena montato si è incrinato (una vite stretta troppo ha spaccato un'asse che si è dovuta incollare, eccetera). In fondo è stato fatto da inesperti con viti e trapano, e legno di risulta. Però è comodo, sembra stabile, ci stiamo bene e - a differenza di Ulisse e Penelope - siamo sicuri di non doverci campare in eterno (ps. il tappeto usato come testiera l'ha fatto la Gabri, amica artista-tappetista).

venerdì 18 maggio 2018

Where are all the insects gone? Ovvero: lo sterminio degli impollinatori



Trovo un'oretta per tornare su un tema che mi assilla, ora che mi occupo di api selvatiche.
Settimana scorsa sono stato a Milano, come mi capita periodicamente. Il condominio dove mia madre ancora vive è lo stesso in cui sono cresciuto negli anni'60-70 e, apparentemente resta tale quale. Alcune cose in questi cinquant'anni però sono cambiate: il giardino, per esempio, ha piante bellissime, che se non venissero potate sarebbero ormai mature e possenti.
La cosa particolare però è che da un paio di stagioni - da quando mi occupo della condizione delle api e ora anche degli impollinatori in generale - noto che non ci sono più insetti. Metà maggio, giornata calda, ventisei gradi: il trifoglio è in fiore, rigoglioso. Osservo il prato per cinque minuti e non noto NEMMENO UN INSETTO che ci vola. Nessuno che ne raccoglie il nettare. L'inverno è stato freddo, ma anche a Montaonda: eppure lì è pieno. E non è la prima volta, ripensandoci, che me ne accorgo.

Come si sentirà, mi chiedo, il trifoglio? Come farà a riprodursi, se non riesce a produrre semi? E come lui chissà quante piante (in pratica tutte le fanerogame non anemofile, quelle che hanno bisogno di insetti pronubi, a cominciare dalle orchidee).
Vado a spasso con mia madre nel vicino parco Montestella. Niente, neanche lì: è vero, mi ripeto che è stato un inverno rigido e le gelate primaverili hanno probabilmente ammazzato larve e pupe. E che mangiano gli uccelli? Piccioni e cornacchie: avanzi. Altri uccelli? Boh, chi ne vede; forse anche per questo non ci sono più le rondini. Il fatto che nidificassero vicino alle abitazioni era forse la garanzia che ci fossero tutti gli insetti attratti dallo sterco degli animali. E ora? Vi siete mai chiesti cosa mangia una rondine? (forse è il caso di leggere Primavera silenziosa di Rachel Carson, uscito più di cinquant'anni fa...).



Faccio un giro al nuovo parchetto nell'area ex-Portello (quando ero bambino dalla fabbrica dell'Alfa Romeo uscivano i treni carichi di macchine nuove...). Guardate nella foto qui sopra di CasaMilan (!?) come viene gestito ora il verde nelle città:  già, perché come si riproducono ora le piante, visto che gli impollinatori non ci sono più? Nelle factories, le fabbriche biologiche di piante chiamate vivai, eccole qua, nate e cresciute senza conoscere un insetto (saranno piene zeppe di pesticidi sistemici, così non c'è rischio che prendano funghi, o altri parassiti). Il verde, nonostante tutte le menzogne che ci propinano viene considerato soltanto un "arredo", che si mette e si toglie, come il trucco quando si esce in società. 

Che la città moderna sia la demenza istituzionalizzata, la nullificazione dell'uomo, l'avevano già capito tanti - voglio ricordare solo Tatì - ma almeno si può ridere: guardate dove vengono messe oggi le panchine, dai nostri urbanisti progettisti paesaggisti, per ammirare il traffico che gira attorno alla rotonda di sbocco del nuovo tunnel autostradale dietro CasaMilan, e CasaLG, sempre al Portello. 
(Ed ecco ribadito perché Milano, nonostante i molti affetti, la mia città, oggi mi fa schifo).   


Per me la sensazione è piuttosto agghiacciante. 
Torno a Montaonda, e da oggi la considero e la nomino «Santuario e Rifugio degli Impollinatori» (intanto spero che Elisa Monterastelli riesca a terminare il libro su di essi che sta scrivendo per noi, vorremmo vederlo in commercio prima dell'estate). Qui a ogni colpo d'occhio trovo bestie ovunque: voli di farfalle, calabroni, maggiolini, grilli e pulci e zecche, per non parlare degli uccelli - zampettii, salti e strisci di bruchi, scorpioni, stercolari, moschini e ragni ovunque, anche quelli volanti (mi hanno spiegato biologi che alcuni ragni lanciano queste bave lunghissime nell'aria e si fanno trasportare come da liane nel vento, per colonizzare territori anche a chilometri di distanza - arrivassero mai a ripopolare Milano!) e tutto l'armamentario della natura dispiegato.
Guardatelo qui sotto, com'è fatto il verde selvatico (per voi testimoniato in fotografia, per me Gaia Vivente). I soliti cinque metri da porta di casa Montaonda: questo è l'anno dei lampascioni, quei fiori blu che sembrano marziani, le cipollotte amare tanto amate al sud Italia).

Sorprendente per me resta che in città del degrado biologico pare non accorgersene nessuno (ma forse qualcosa sta cambiando, vedi la campagna contro la plastica), e mi sento un po' Marcovaldo. Ho provato a chiedere a un paio di persone. Lì è normale che nelle case non ci siano formiche e mosche, pare che ormai anche le zanzare siano (con grande sollievo) sterminate.
Quindi non si tratta più soltanto delle api (che per inciso in città capita di vedere più di altri insetti perché protette e ospitate dagli apicoltori urbani), si tratta del funzionamento dei meccanismi naturali. Che si stessero brevettando dei droni impollinatori qualche anno fa sembrava una barzelletta, ora è una realtà, la notizia è vecchia di qualche mese.

Ah, il titolo viene da una vecchia canzone di Pete Seeger, antimilitarista, e parla di fiori (in breve: finiscono nei cimiteri dove sono i soldati caduti) - non siamo tanto lontano, quello che lui non aveva previsto era però lo sterminio chimico-sistemico ultranazista attuale. Erano gli anni della Carson, era l'America dei "diritti umani". Ora i "diritti della natura", dopo una buona partenza, sembrano tornati dietro le quinte.
E noi siamo qui, proprio sulla soglia dell' «inarrestabile declino biologico» (vi ha mai parlato qualcuno di questo concetto? Può darsi, allora è segno che non l'ho coniato io ora, evviva).



venerdì 23 marzo 2018

La porta di casa (dove tra gli altri si parla anche di Musil, Dante e Gide)



La porta di casa, intesa come soglia che mette in contatto due mondi, quello intimo e protetto con quello universale e avventuroso dell'esterno, mi ha sempre affascinato, come mi affascinano in genere tutte le porte. Non so per quale motivo adoro mettermici di traverso, con la schiena contro lo stipite, a guardare di qua e di là, nei due locali, nelle due porzioni di spazio che lì s'incontrano e separano, cercando sempre, dove si dà, di cogliere con l'occhio l'infilata degli altri locali.

Più di vent'anni fa Renata Colorni, da poco ex-adelphiana e direttore dei Meridiani Mondadori, sicuramente sopravvalutando la mia esperienza di traduttore/editor mi affidò la revisione della traduzione che Ada Vigliani stava facendo de L'uomo senza qualità di Musil. Il libro, che avevo già letto appassionatamente a diciott'anni nella splendida traduzione di Anita Rho, mi catturò ancora, e ben più a fondo. Forse dalle prime pagine, dove Ulrich compare alla finestra, osserva un incidente stradale (mi sembra fosse un uomo messo sotto da una carrozza, o una macchina, che a ripensarci oggi mi pare un incipit grandioso e premonitore come quello di un classico greco, mettiamo Plutarco). Nel libro mi colpì la forte presenza di particolari architettonici (era la Vienna di Loos in fondo) e cominciai ad annotare su un quaderno tutte le ricorrenze nel testo di parole e situazioni indicanti porte e finestre. Si trattava spesso di descrizioni rapide, ma a volte incorniciavano momenti affatto importanti. Avrei voluto farne un saggio, in stile inconsciamente benjaminano-magrisiano, dal quale - ero ancora impregnato di strutturalismo - risaltassero aspetti rivelatori della narrativa musiliana. Mi arenai. Alla revisione, messo di fronte mia inadeguatezza, fui costretto a rinunciare, ed entrai in una delle fasi di depressione più profonde della mia vita (non solo per quello, ci mancherebbe).  
Da allora non ho perso l'abitudine di osservare  porte e  finestre, fotografarle, raccontarle in annotazioni sparse, finite in diversi cassetti, veri ed elettronici (proprio come il secondo volume de L'uomo senza qualità, disseminato in ventimila foglietti ingovernabili; pur non essendo il mio, con le mie poche righe, minimamente paragonabile al grande e malinconico, geniale fallimento di Musil).

Ora vedo che in quell'attitudine alla contemplazione di porte e finestre si celava forse una ritrosia che semplificando posso chiamare indecisione a varcarle ed entrare in un mondo che fosse solo mio (e uscire da un altro in cui mi ero trovato fino a quel momento). Cosa che fu poi costretto a fare l'anno dopo, dopo la morte di mio padre quando, a 36 anni, steso su un lettino, fui spinto attraverso la porta di una sala operatoria, per un intervento a cuore aperto. Varcare quella soglia fu un'esperienza iniziatica (io ne vedevo soprattutto il rischio esiziale), certo uno dei maggiori tremori della mia vita. Lì mi si riparò questo difetto di flusso circolatorio e carica vitale. Uscitone risanato, il sangue riprese a scorrere con il giusto vigore e io imparai ad afferrare la mia vita, meritandomi finalmente il mio cognome, senza più restarne sulla soglia (o facendomi timorosamente accompagnare per mano da altr*). Forse anche Dante, m'accorgo ora, pativa della mia stessa sindrome, viste le molte soglie presenti nella Comedia, viste le guida cui spesso ricorre, e in particolare la donna, schermo di una vita vagheggiata e non vissuta. Fatto sta che dopo essermi fatto squarciare il petto e riassettare il cuore (più prosaicamente potrei dire: dopo aver capito che la vita è una e conviene viverla), nel giro di qualche mese presi decisioni drastiche che mi aiutarono a inaugurare una condotta che, pur tra persistenti difficoltà ed errori, decisi di riconoscere per esclusivamente mia.
Come? Separandomi da una compagna, carissima ma con cui non riuscivo a stare al passo, e comprando un appartamento in città (con l'eredità paterna e un bel mutuo), tornando nel ventre di Milano, in un appartamento vuoto di mobili ma di cui ricordo con estrema precisione le diverse porte, stipiti e  finestre.

Tutto questo sproloquio forse perché ora mi sono accorto che a breve corrono i vent'anni di quell'intervento (22 di aprile), e per introdurre la consueta riflessione su Montaonda, nella fattispecie, come anticipato nel titolo, sulla porta di casa.
Nei condomini moderni ci sono nato, e ho abitato anche quelli di cemento prefabbricato, le Betonplatten di Berlino e poi, di nuovo a Milano, una casa vecchia d'un secolo e quasi di ringhiera. Lì la porta non dà sull'esterno: prima c'è un corridoio d'uscita, di lunghezza variabile, sorta di antro imbuto intestino e utero del palazzo (alla Fritz Kahn, alla Franz Kafka, alla Louis Kahn), che dalla porta dell'appartamento, dietro la quale possiamo starcene "in mutande", sbocca in uno spazio intermedio, ombroso, che risalta così bene (oppostamente abitato) nei film anglosassoni o napoletani, dove succedono cose (o non succedono), e rappresenta una società di convivenza assimilabile in qualche modo alla famiglia allargata, al borgo, al piccolo paese, tutte strutture sociali che nelle metropoli - per esempio Milano o Berlino - non esistono. Nella metropoli la gente non si conosce, e tutt'al più, ma non sempre, scambia un saluto sul pianerottolo o in ascensore (e poi silenzio a guardare le porte, la plafoniera o pulsantiera in alluminio satinato). Il singolo è gettato contro la massa (come in Autodafé di Canetti, non sarà certo un caso).


Ecco: qui a Montaonda, la porta di casa, senza corridoio ma anzi con una bella lastra di vetro trasparente (prodigi della tecnica inimmaginabili ai tempi di Musil) la porta-finestra dà su un prato: per terra due lastre di pietra appena oltre la soglia, su cui battere i piedi infangati, da spazzare preferibilmente la mattina, e poi il prato, i muretti, l'essiccatoio, gli alberi. Vi rendete conto? Il prato! Senza soluzione di continuità. Il singolo è gettato, ma direttamente alla natura! Niente società! Proprio come la capanna di Thoreau, libero! (Certo, di sgrondarsi bene i piedi dalla mota!) 
Per questo nei miei post ci sono sempre tutti questi animali, grandi e piccoli, striscianti camminanti o volanti, c'è questa prossimità biodiversamente sorprendente. Non con altre famiglie di umani ma con esseri che davanti a casa - un metro! - passano e vivono (e cagano), immersi nel loro mondo, wow-wow-wow, la wilderness! Accidenti. Non devo andarla a cercare: ci sto nel mezzo, è il mio palazzo, la mia famiglia, la casa di tutti. (Già, ma io ho la porta, e almeno quella posso chiuderla o aprirla, e la tengo sempre chiusa, con l'aria che tira quassù, sul crinalino!).


p.s.
Ogni porta è un varco, indubbiamente, e come non ricordare quella Porta stretta di Gide? 
E poi: in fondo anche la valvola mitrale è una porticina del sangue, che si apre e si chiude a ogni battito del cuore: la mia si era allentata sui cardini e non chiudeva più bene, il sangue indugiava, avanzava e ritornava indietro. L'hanno riparata, e funziona come un orologio, perché sempre avanti bisogna andare. (Un pensiero, solo un pensiero, rileggendo, corre per fratellanza e simpatia a Gesualdo Bufalino).


martedì 13 marzo 2018

Cincia e la scoparsa degli animali dalle città

Buongiorno, buon anno e buona primavera, anch'io mi rifaccio vivo: la voglia è di riprendere a dire parole mie. Non sarà facile, dopo un anno passato a confezionare parole altrui. Lasciamo parlare per primi gli animali, allora, che sempre più spesso esprimono parte dell'animale che tutti noi siamo. Cominciamo con Danko, che è passato a conoscermi, mentre i suoi cugini lupi nei giorni di gelo si facevano ammirare alle Calle, nella valletta di fianco, proprio sotto il passo del Muraglione (pare che gli appassionati dalla terrazza del Cavallino li osservassero a proprio agio con il binocolo). Danko sembra a proprio agio con i libri Montaonda, sembra avergli trovato un buon impiego.


La mattina qui a Montaonda, quando dopo colazione vado in bagno a lavare i denti, vedo di fianco a me alla finestra una cincia che cerca di entrare. Non so se negli anni sia sempre la stessa o siano altre, ma sembra proprio bella decisa, a cercare un varco nella parete trasparente. Sembra una cinciarella, se wiki non mi inganna. Il tempo di andare di là a prendere il cellulare per fotografarla, e non c'è più. Tornerà domani. Anche quando stavo ad Aizurro, la casina nei boschi della Brianza dove abitavo negli anni '90, c'erano regolarmente degli uccelletti del bosco che cercavano di entrare dalle finestre, ma lì la casa era ricoperta d'edera, per cui le finestre davano proprio l'impressione di antri grotteschi. Dopo averne trovati un paio stecchiti sul davanzale, per avere cozzato con troppa violenza con la testa, ci eravamo procurati delle sagome nere di predatori, quelle che si vedono sui vetri delle autostrade, per tenere lontano gli uccellini.
Qui accosto ci sono un paio di cipressi, e la casa è di pietre, quindi forse ciò basta a fargli credere di poterci fare il nido. Comunque non cozzano, cercano di entrare frullando le ali. --->


Ieri ho visto anche il merlo, ritorna dopo l'inverno; quando fa freddo qui intorno di volatili si vedono quasi solo il pettirosso, le ghiandaie (belle le loro planate autunnali) e le cornacchie. In primavera ed estate si vedono anche l'upupa, col suo bel pennacchio arancione e bianco da clown, e il picchio verde. Ogni tanto passa qualche gazza, e in alto, nel cielo, gli aironi che abitano al laghetto e le poiane, dirette su rotte aeree al Falterona.
Piano piano, col passare degli anni, sto cominciando a riconoscerne qualcuno degli uccelli. Le cincie sono facili, col capino nero e la livrea verdina. Ci sono anche dei micropasseri, che non so cosa siano. Li vedo dall'altro lato, a mattino.
La riflessione è che un tempo gli uccelli erano parte importante del mondo delle relazioni animali dell'uomo, era anche diffusa l'abitudine di tenerli in casa, spesso li si addomesticava.
La straordinaria storia del passero Filippo (www.youtube.com/watch?v=UfM2Iy9X-z0) me l'ha raccontata Sasha, nel 2011 (credo) ho avuto la fortuna di sedere di fianco a lui a un pranzo di un convegno di animalisti dove presentavo il mio libro sul roadkill, Danni collaterali. La sua, di un uccellino che da cinque anni condivideva ogni momento della giornata con i suoi due amici umani, mangiando e dormendo appiccicato a loro, ci sembra una storia incredibile perché non siamo più abituati a pensare gli animali come individui con un cervello, una rete relazionale e sociale, ma principalmente come figurine e personaggi di cartoni, o come cibo o specie da tutelare. Siamo diventati proprio scemi. 


Invece tutto questo si riconnette a una tradizione minoritaria ma ancora viva, quella di persone che condividono la propria vita affettiva con animali liberi, che ora esiste soltanto in maniera sporadica, nei cosiddetti rifugi o presso gli amanti degli animali, mentre una volta era diffusissima. Molti bimbi della campagna avevano un animaletto di compagnia, tipo un coniglio (salvo ritrovarselo nel piatto, come è capitato ad Ange), mio padre mi raccontava che da ragazzo aveva addomesticato (si diceva così) un merlo.
Dove volevo arrivare? Al fatto che in città gli unici animali che si vedono liberi sono: piccioni, cornacchie, zanzare, topi. Quando invece ero ragazzo al QT8, periferia appena strappata alla campagna, c'era una quantità di vita pullulante che faceva impressione. Nel prato del condominio (foto sotto) era pieno d'insetti, e quando pioveva anche sul campo giochi e sulle strade d'asfalto bisognava fare lo slalom tra i lombrichi  grossi lucidi e rosei che comparivano dappertutto. Oggi è il deserto. Non si vede una formichina, non una farfalla non una mosca. Non so se siano le irrorazioni contro le zanzare, fatto sta che la biodiversità in città è un sogno dell'uomo, la primavera è del tutto silenziosa. Tolti gli insetti, restano solo gli animali che si cibano di rifiuti. Quando ero ragazzo ogni volta che scuotevo la tovaglia dalla finestra (della cucina, da cui ho scattato la foto qui sotto) arrivava subito una frotta di passeri, come se avessi sventolato la bandiera "pranzo servito". Ora di passeri non se ne vede più da anni.


L'amico Paolo Faccioli, insieme a diverse entità tra cui l'Università di Bolzano, sta dando vita a una iniziativa assai articolata sulla vita selvaggia in città (nome: Selvaggio Urbano). Lui, mi piace immaginare, ha iniziato diversi anni fa liberando una trota viva che aveva comprato dal pescivendolo (un episodio che  racconta in Dall'altra parte dell'affumicatore).  Io dalla città, non silenziosa ma rumorosa ormai solo di mille motori, sono scappato - non per stare in mezzo agli animali ma per essere animale io (recuperare anima, in questo senso). Qui gli uccellini continuano a bussare alla finestra, e gli scorpioni mi fanno la posta sui muri. Tante ragnatele, formiche, mosche, ma anche tanta vita, senza dover far nulla per andarla a cercare, tutto avviene con naturalezza, anche sui miei jeans, mentre leggo all'aperto.
(A seguire)