lunedì 2 novembre 2020

Il mio giorno dei morti

 

Il mio giorno dei morti

(un’elegia escatologica in opposizione ad Halloween)

Il mio giorno dei morti, 2 di novembre, è un giorno piccolo che non vale niente, umido e freddo, lento e sonnolento. Non solo a Montaonda, in tutt’Europa spesso piove o c’è nebbia e comunque dappertutto dominano umidità fredda e aria di decomposizione, foglie gialle che volano ovunque, campagna o città. A bordo strada o sui prati, si rialzano alle folate di vento, cadono negli stagni (al ponte delle Sirenette!), a ogni macchina che passa s’agitano di qua e là con un guizzo di vita, finché non s’impiastrano di fango. Il terreno al contrario è molle e pesante, s’apre verso il basso, il passo sprofonda nella mota. Anche i colori sono penitenziali: il verde mesto e cupo, ancorché vivo, solo a tratti si fa fastidiosamente fulgente a promessa di una primavera remota, mentre gialli e marroni la fanno da padrone, s’incendiano in un’ultima vampata di rosso (le foglie del cachi, e anche i ciliegi, ho scoperto) prima di ridursi in un bruno che trapasserà nel cuoio e poi nel nero del terriccio.

Quando ero bambino coi miei si andava un anno a Bannio e un anno a Fondra, alternativamente, a trovare i morti in cimitero (cimiteri di montagna, il primo secco di granito, il secondo nero di bronzo e giallo di tigli). Niente di originale, direte. Però scusate no, proprio originale invece, se intendiamo il senso di questa parola, perché i nonni, quel quartetto di persone da cui tutti discendiamo sono l'origine biologica. Da loro vengono i nostri geni, l’ordine e le istruzioni di tutte le nostre cellule, e da loro soltanto (finora). I miei si chiamavano Angela e Mario, Cesarina e Giuseppe. Tra loro ho conosciuto soltanto i maschi, le nonne erano già morte prima che io potessi ricordarle. Orbene questi miei morti, questi nonni, non sono spiriti selvaggi che danzano attorno a una zucca gialla (manco si fosse dentro a Beetle Juice), non turbano i miei sonni ma sonnecchiano ancora nella mia memoria, se ne stanno tranquilli e compunti nelle loro cornici argentate. E di fatto il giorno dei morti sarebbe il giorno in cui almeno una volta l’anno potrei celebrarli e festeggiarli, non ci fosse tutto questo chiasso. Nel silenzio dei cimiteri, spesso luoghi bellissimi ed evocativi, ma anche camminando in un bosco luminoso. Se li penso loro mi vengono incontro, le mie origini, i padri e le madri, la carne viva che ha generato la carne viva che mi ha fatto carne viva. E questo io sono, punto. Questo il peso e il fardello – la discendenza - che porto sulle spalle, voglia rendermene conto o meno. Non sono che l'esito di un organismo che si è riprodotto, un frutto, che però poi per sua scelta non si è riprodotto. Perché? Per scherzare sul darwinismo, potrei rispondere “perché sono sempre i migliori che se ne vanno”. Almeno qualche volta scelgono di farlo – è la mia piccola insinuazione, un'ambizione di rivalsa.

Quand’ero bambino di morti non ne conoscevo. Ho una vaghissima memoria solo della nonna materna, poco più di un’ombra, uno dei primi ricordi, se ne è andata quando avevo quattro anni. Avanzando in età i morti sono diventati di più, i nonni e i prozii, seguendo l’ordine naturale, alcuni meglio conosciuti, meglio capiti, finché è toccato al padre, poi ad altri zii (ne resta ora un numero davvero esiguo); purtroppo ai parenti da un triste giorno in poi s’è aggiunta una schiera più caotica, destinata a crescere e a prendere il sopravvento. Sono le persone che, con mia grande mestizia, colte anzitempo nella mia vita erano entrate come amici e conoscenti. Sicuramente un giorno anche per me (e campare fino a quel punto è speranza legittima) i morti diventeranno più dei vivi: lo vedo da tempo in mia madre, che a quasi 89 anni si dichiara più che pronta al grande salto, e guarda attratta e impaziente più al numero crescente di quelli là che ai pochi e sempre più mal messi che indugiano di qua.

E' quel che ci aspetta, varcare un giorno la soglia ed entrare nel passato. I morti, quelli veri, non vanno in tv o suoi giornali, tra gli altri spauracchi che ci fanno vedere tutti i giorni. Simulacri agitati davanti agli occhi a spaventarci. I morti veri sono tranquilli. E sono soltanto le persone che abbiamo conosciuto, personalmente, quelli di cui abbiamo memoria, in situazioni, risate, litigi, perché sono stati vivi di fianco a noi: quegli altri, e chi li conosce? Famiglia, vicini, amici e colleghi, uno stuolo di anime vive sono i morti, persone scomparse dalla nostra vita e che non potremo più incontrare, diversamente dai fantocci che ritornano continuamente in effige, nei titoli, nei filmati, figurine senza carne.

Sono questi i nostri morti, di cui – all’inizio ferocemente – sentiamo la mancanza, ed è a questo che ci dovrebbe riportare il giorno dei morti. Il loro non-esserci-più. Questa è la nostalgia che non è triste, è semplicemente pensare e rivisitare nella memoria i volti, i fatti, e come il nostro passato, la nostra vita e la vita che ci ha dato vita, che racchiude il bello e il brutto. Un chiaro esempio di quel che toccherà anche a noi, per quanto ci si voglia impuntare inesorabilmente. Ciò che è stato, ore giornate e anni, e così le anime, in una schiera che ogni giorno aumenta e si perde, nei milioni di anni delle vite dei nostri innumerevoli progenitori...

Questo sono i miei morti. A quelli che ho detto poi, nel lavoro che è vivere, ne ho aggiunti molti altri, diversamente conosciuti e amati, attraverso le loro opere, gesta o pensieri, per l’eredità (il fardello) che mi hanno lasciato: Gogol, Baudelaire, Tarkowski, Mozart, Bob Marley, Cezanne... sono i primi che mi vengono in mente tra le migliaia che potrei elencare, e non perché siano tutti dei grandi ma perché ciascuno di loro mi ha lasciato un frammento, un sassolino che mi ha indicato dove volgere un passo del mio cammino. Tra loro c’è una quantità di persone comuni, anche senza nome, anche senza volto, come tante formichine… Tutte, per quel sassolino che mi hanno dato, mi sono state care, e non le potrò più incontrare. La vita è questo, fare incontri che muoiono perché mai si ripetono. La sua unicità è nel prendere e lasciare.

Non c’è tra i miei morti uno stuolo di spiritelli che mi tirano le coperte, né demoni, o zombie, come nel film di Romero, lugubri fantasmi, proiezioni della paura dei vivi, di essere divorati (consumati, distrutti, annientati, era quello il fascino sorprendente del film, il rifiuto delle vittime di... non-morire, ovvero morire davvero - ci sarebbe da riflettere a lungo). No, sono davvero una schiera di persone dai visi comuni, com’è in tante tradizioni e credenze dei popoli del mondo. Sono per me semplicemente le persone che abbiamo incontrato, e che io immagino benevole, spiriti protettori - posto che ci siano... 

I morti immagino che godano di una diversa comprensione delle cose e di quella vasta tolleranza che spesso gli anziani mostrano per le febbri della vita – ben più vicini a quei santi che la religione cattolica celebra il giorno prima. Questi ultimi non sono che un’eletta schiera di morti promossi a eroi pubblici per meriti speciali. Ognuno di noi, atei o credenti, ha i suoi santi: nonni, genitori, amici e tutti quelli a cui riuscirà a pensare, attivando nella propria memoria il ricordo di loro, e quindi (lo diceva Walter Otto parlando dei greci) facendoli tramite sé rivivere. Da loro riceverà in cambio ispirazione e consigli, conforto e aiuto. Sicché i morti vivono sicuramente grazie al nostro pensiero, come i loro geni vivono nelle nostre cellule: e il giorno dei morti a questo serviva, a farli rivivere, a riportarceli e rianimarli (Odissea, canto XI) almeno un poco. Ecco il senso di questa festa un po’ mesta ma che sempre una festa è, in cui si riabbracciano e riallacciano i legami con l’oltretomba, e si ringrazia chi ha dato e lasciato. Ricordo il cimitero di Bannio, nella notte scura dell’inverno incipiente. Mi portavano a vederlo, pieno di una quantità esagerata di lumini, come stelle ma fitti e per terra, tra noi, ci si poteva camminare in mezzo – unica notte dell’anno in cui il cimitero restava aperto. Piccole fiammelle tremolanti nel buio stellato, presagio del ghiaccio in arrivo (sui monti, si sa). Era un invito a pensare che siamo qui, esili come queste fiammelle, ma siamo luce, e siamo; dicevano ti aiuteremo a traversare l’inverno. E anche: non avere paura, la morte è silenzio, non fa male.

Non è tanto il fatto che non credo in Dio. Non sono agnostico per presa di posizione o per ideologia, piuttosto per semplice disanima dei fatti: guardando la vita e il mondo che mi vedo attorno quel Gran Signore non l’ho mai incontrato (quindi se c’è si nasconde proprio bene). Non l’ho mai visto agire (non gli rinfaccio tutto il male, e quel po’ di bene che vedo). Questione di fede, appunto, quel che a me manca. Perché farmene una colpa, buttarmi all’inferno? Così si minacciava, ma ora, dacché si è scoperto che l’inferno è vuoto… Non mi fa proprio nessuna paura: non si può temere ciò in cui non si crede. E se sbaglio, e se quell’essere supremo esiste, sarà sicuramente misericordioso, e invece di giudicarmi (come voleva Platone agitando per fini politici lo spauracchio di Minosse), confido che mi riaccoglierà tra i suoi figli. Perché come tutti avrò vissuto stringendo i denti, e non per merito di un’appartenenza tribale, sancita da riti praticati ormai soltanto da fanatici e superstiziosi, come vorrebbero i tanti loschi che s'affannano a erigere Chiese.

Non sono i morti che mi fanno paura, sono i vivi. Questi mi spaventano ogni giorno di più, e li guardo con disgusto. Quelli che uccidendo (“con le onde…” scriveva CT sui marciapiedi attorno al Castello) e opprimendo credono di poter sfuggire la propria morte. Storia vecchia quanto l’uomo, i tiranni sono pericolosi idioti e malati. Tra i saggi invece: c’è stato chi nella morte vedeva la massima forma di conoscenza. Un pensiero terrificante ma folgorante, proprio come un fulmine che squarciando la notte mette a nudo ogni menzogna: solo chi l’affronta può sperare di vivere in tranquillità. A Montaonda, al mare, in campagna o in città. La morte prima di morire, e poi quel che sarà sarà: i morti con i vivi, quando anche il mio tempo si degnerà di finire.

 

Foto: inizio, tammorra di Raffaele Inserr,a sul davanzale al tramonto (il tamburo è lo strumento dello sciamano, il veicolo che lo guida nel mondo dei morti); qui sopra, lo stesso davanzale.