sabato 28 settembre 2019

Perché leggere i giornali?


Da quando mi trovo ad avere di nuovo un ruolo pubblico, e come editore e autore vengo invitato a parlare, in qualche misura mi sento in dovere di tenermi almeno un minimo informato (e non ci riesco). Da un paio d’anni così ho iniziato a leggere il supplemento culturale del Corriere, che tra tutti mi sembra il più sopportabile (no news). Di fatto, ogni settimana all’edicola di paese Stefania e Giulia (madre e figlia) infilano per me i numeri nuovi dentro una busta di plastica, e quando mia moglie (più spesso di me) si ricorda di passare, me ne porta uno, due, a volte anche cinque. E così sul letto dello studio, o sulla scrivania, in verità per la casa tutta, si muove una pigna di giornali che ogni tanto sfoglio e un paio di volte l’anno, più o meno in corrispondenza di ferie estive e invernali, cerco di smezzare, senza mai riuscirci. Scende e ricresce, come è nell’ordine di questo tipo di cose. Il punto è che tutto ciò m'inquieta, perché sento su di me incombere il dovere di smaltirla (ma superati i sei mesi posso spostare i numeri intatti nella carta da ardere).

Perché? Perché leggere i giornali e in generale il dibattito culturale mi dà il voltastomaco. Cerco di comprenderne i contenuti da titoli, occhielli e prime colonne di qualche articolo, ma poi il linguaggio, la supponenza, la mole ben costruita dei discorsi di questi esperti che rappresentano (si vorrebbe) una buona e accattivante selezione del panorama più in vista a livello mondiale mi irrita; la modalità della presentazione, dei grafici e delle illustrazioni altrettanto, e devo alzarmi e andarmene. Certo, mi piacerebbe che tutto tornasse essenziale, piccolo e spigoloso, come Die Fackel (per dirne uno, ma potrei citare altra stampa senza illustrazioni e belletti).
Dovrei comunque ritagliare gli articoli che mi interessano, come facevo una volta quando, come mi aveva insegnato il mio maestro di giornalismo Sandro Ottolenghi, quando a Berlino mi diedi a quel mestiere, facevo “archivio”; ma quasi sempre arrivo a chiudere il supplemento senza averne ritagliato nemmeno uno. Meno male, mi dico, meno cartaccia da gestire. Sotto un letto ho ancora tutti gli schedari con i ritagli dal 1990 al 1996, il materiale d'appoggio per scrivere "la mia storia" della caduta del Muro. Ora guardo le classifiche dei libri, scuoto la testa e via.

Il fatto è che viziato dall’età e dall’isolamento non riesco più a credere al “dibattito culturale”, alle belle parole, e vedo soltanto l’ipocrisia del meccanismo che c’è dietro, dei gruppi di potere che si autopromuovono e promuovono le tematiche che stanno loro a cuore; lo stesso vale per massima parte dei recensori, degli autori e dei vari promotori e attivisti. Ci sono stato (e ci sono ancora, anche se dal 2018 ho fatto domanda all'Ordine per essere espulso, come poi è avvenuto), so di cosa parlo, e mi arrogo il diritto di dirlo (non lo dice più nessuno: chi sa sa, chi non sa peggio per lui?). 
Tutto mi suona falso e volto soltanto a promuovere interessi. Non soltanto economici, o politici. I media non sono meglio di facebook, guardiamo in faccia la realtà.
Ebbasta!, mi viene da dire. Un po’ di decenza: siamo alla fine, eddai, molliamo il colpo (si diceva così ai miei tempi). Ieri su youtube ho visto un consesso di astrofisici gongolanti perché possono mostrare la prima foto di un buco nero. Battutine a parte (ormai son toscano) qualcuno gli avrà chiesto quanto è costato in consumo di energia – e conseguente devastazione di Terra e abitanti tutti – arrivare a questa loro "scoperta"? Possibile che guardiamo il buco nero e non la trave ecc.?
In realtà il mio livello è davvero così basso, istintivo e primordiale: perché litigarci le poche briciole che cadono dalla tavola, se non servono a nulla? Per autoingannarci e mandare avanti la commedia? Meglio ritirarsi nell’eremo, in astioso silenzio.

Ma perché scrivo, allora? Bravi (l'ho detto che son diventato toscano): perché so che c’è chi cerca una verità diversa (molti più di quanti sono disposti a dichiararlo), propria e segreta, e che questa ricerca anela ad alimentarsi di cibi nutrienti, che ormai per necessità devono essere rari e gratuiti (non parlo di denaro ma di costi d'accesso). Il paradosso infatti è proprio questo, che mai come oggi abbiamo avuto a disposizione strumenti immensi e raffinati, raccolte e archivi consultabili con un nulla. Se penso alla fatica che si faceva a trovare un testo, quando studiavo! Per leggere un articolo bisognava andare nella biblioteca specializzata, e per avere un libro, si doveva viaggiare fino a Parigi! Ora abbiamo tutti tutto - se lo volessimo cercare. Ebbene? Il punto è che pochi sospettano o sanno riconoscere e apprezzare le sorprendenti armoniche dei suoni più semplici (è una metafora). Me ne accorsi quando mi dedicai alla musica acustica (che è solo quella NON amplificata E suonata dal vivo). L’armonia delle sfere è un terreno abbandonato ai tecnici, agli strumenti, e non agli esteti, che dovrebbero essere gli unici veri maestri della percezione, quando essa è tutt'uno con la sensazione. Siamo assordati dai mille rumori e disturbi, dalle frequenze che ci impediscono di sentire e ritrovare la nota, dentro di noi, e non tra le mille sovrapposte e disponibili (si chiamava: muzak). La voce, quella vera che ciascuno ha, e non quella che scimmiotta, magari corretta, o impostata a perfezione secondo l’ultima moda (sperando di vendere, o di ottenere compiaciuto consenso). Quella voce interna/esterna che esprime noi stessi. Che risuonando nello spazio lo misura e chiede: dove siamo? Dov’è la nostra anima (per molti ormai rimbecilliti ormai suona bene solo in in inglese, where is our soul? Questo è il punto, e sembra che pochi lo capiscano. Che senza avere “un posto dove incontrarci nell’essere”, non siamo, non facciamo, non leggiamo, non scriviamo. Andiamo alla deriva, senza un terreno sotto i piedi, dispersi come naufraghi abbandonati e lamentosi. Non è metafisica, tutt'altro, è un ritorno alla concretezza. Terra.

lunedì 17 giugno 2019

Il caso della casa del sé e la figura di Poseidon, lo Squotiterra


Nella vita di tutti noi, come in un fiume, scorrono acque che provengono da tante sorgenti, da valli e declivi diversi; a volte, a seconda di piogge e temporali locali, di queste acque alcune prendono il sopravvento, portando diversi colori, materiali, sostanze disciolte. Ma il fiume, che non è solo acqua, è anche la sponda e la terra in cui scorre, resta lo stesso, imbrigliato tra le rive. Porta l'acqua dove deve, a un altro fiume più grosso, un lago, un mare, a volte anche al deserto.
In questo periodo nella mia vita scorrono diverse acque che parlano di case, un tema che ho sempre amato - fin da quando ragazzo frequentavo la casa del nonno, nelle valli alpine, quando cercavo vie d'evasione dalla casa dei miei a Milano (per lo più d'inverno erano le case dove vivevano fidanzate e amici con le loro famiglie d'origine), fino alla prima casa mia, condivisa con la compagna M. a Berlino. Arrivato a Montaonda (stralcio un po' di roba), ho scoperto valori e valenze diverse della casa, in particolare come luogo dove oltre a lavorare ed espandere la mente (questo è sempre stato anche in città, in patria o all'estero) ricercare un migliore rapporto con mondo,  ovvero la Wilderness, o una "private Wildnis" (per usare un temine di Schmidbauer che ormai ho adottato).
In questi giorni ho deciso e preso accordi per una nuova casa, che prenderò in affitto in paese, dove trasferire la Casa (altro "caso"?) Editrice.
E soprattutto sono appena stato a Milano, dove ho incontrato l'amico Nicolò Doveri, psicanalista analitico (cioè junghiano) e abbiamo chiacchierato un po' di queste cose. Perché lui qualche tempo fa mi aveva regalato un libretto "Metafore del sé", in cui interveniva con uno scritto in cui ho trovato confermate dall'osservazione clinica molte mie intuizioni (chi avesse dimestichezza con questo blog ne troverà in abbondanza, dal primo post (titolo: "ho homprato hasa in toshana", che è un modo diverso per dire "ho investito le mie risorse animiche in questa terra", immagine: la mappa catastale della casa) all'ultimo (aprile 2019, Schmidbauer - e prima tanti altri: giugno 2018, storia di un letto; marzo 2018, La porta di casa).
In pratica, lavorando al libro di Schmidbauer ("Una casa in toscana" uscirà spero all'inizio dell'autunno), leggendo Nicolò e preparandomi al trasloco della casa editrice, proseguo quel cammino che Jung chiamava percorso di individuazione, di ricerca e dialogo col sé, che è poi appunto il lungo fiume della nostra vita, fino alla sua fine, quale che sia.
Per riportare tutto a un contesto naturale (sto leggendo anche un paio di libri di Marco Vannini,  sulla filogenesi delle specie e il significato biologico che oggi possiamo vedere nell'evoluzione darwiniana - visto poi che in parallelo devo tradurre Le vite delle api di Seeley, inventore dell'apicoltura darwiniana, che sarà la grande pubblicazione Montaonda del 2020): in fondo siamo tutti chioccioline, ci portiamo una casa in testa (per tornare a un'immagine che ho molto amato di Canetti, in Auto da fé), e viceversa la testa è la nostra casa.
Può capitare (è un po' la mia sensazione di questi giorni) che questa casa sulle spalle diventi pesante (emicrania? Speriamo di no, non posso permettermelo nella mia lotta contro Kronos). Che vi si sia accumulata troppa roba (troppi libri!, come per gli amici Gesa e Charles, che devono smontare la casa di Vicchio e una casa a Bruxelles), oppure che sia umida, che abbia infiltrazioni, problemi di tanti generi diversi, dai gocciolamenti, all'insufficiente riscaldamento al - terribile - terremoto.
E qui si apre un altro campo di coincidenze. Enosigaios. lo Squotiterra, era il secondo nome di Poseidon, noto come il dio greco del mare (ma non soltanto). Oggi sulla fronte delle case, ovvero sotto il tetto, si mette (l'ho dovuto fare anch'io perché Montaonda è in "zona 1") una corona di ferro, un cordolo antisismico in cemento armato. Chissà se servirà davvero. Gli scettici dicono che gli dèi non si possono imprigionare, che la contenzione serve solo ad aumentarne forza e potenza. Già Jung, ricordava Hillman, diceva che gli dèi sono le nostre malattie. Che malattia è lo Squotiterra?
Lo chiederò a Schmidbauer (che tra l'altro ha una figlia architetto), a Doveri, esperti di case psicologiche.
Arrivo a concludere che così è la terra su cui camminiamo. Fiorita, quando splende il sole, ma sempre in movimento, come il fiume. Le stagioni passano rapide, e le case, quando non sono abitate (qui sull'Appennino si vede benissimo) dopo una ventina d'anni crollano (e lo vedo tanto spesso nelle persone attorno a me), vien giù prima il tetto e poi tutto il resto. Da ciò l'esortazione a tenerle pulite, le case che abitiamo, in ordine, arieggiate e ordinate. Parlo al plurale perché sono sempre almeno due, s'intende...

martedì 2 aprile 2019

«Non soltanto le persone sono mortali, lo è anche il mondo in cui hanno vissuto» W. Schmidbauer




«Ma non soltanto le persone sono mortali, lo è anche il mondo in cui hanno vissuto. Talvolta questo mondo muore più velocemente di loro, e allora queste, quando vi ritornano, non si ritrovano più nel proprio posto. Da bambino avevo spesso creduto, in mezzo ai profughi di guerra e ai rimpatriati, di essere uno di loro. Ora ero ritornato a quello stato d'animo: quella che avevo creduto esser la mia Heimat era perduta».

Chi ha concluso con queste parole (che trovo estremamente attuali) il suo libro Eine Kindheit in Niederbayern, nel 1987, è Wolfgang Schmidbauer, scrittore e psicanalista tedesco, di cui sto preparando la traduzione di un altro libro, uno stupendo documento, raro e prezioso per chi come lui e me ha scelto di abitare una casa nei boschi del Mugello, Ein Haus in der Toscana, del 1989. 

Oggi che chiudo questa lettura (me l'ha consigliata lui, per meglio comprendere quanto sto traducendo), sulla sua infanzia in Bassa Baviera nel primo dopoguerra, è il 2 aprile: a Montaonda è primavera, e nel bosco vedo ovunque in bella evidenza, prima della comparsa delle foglie, i fiori della vegetazione a terra, la pelle viva e splendente del bosco ancora nudo, mentre qua e là si aprono le prime evanescenti nuvole dei ciliegi in fiore.


E questo - il pensiero scaturisce dal confronto tra il testo che ho riportato e il paesaggio che vedo fuori dalla finestra del mio studio - forse è una risposta alle parole di Schmidbauer, in fondo un altro possibile senso, mai immaginato, dei fiori che mettiamo nei cimiteri: non l'omaggio reciso, il sacrificio di Adone, ma al contrario l'offerta della bellezza che, proprio come una corolla, non è soltanto passione effimera ma nello stesso tempo è apertura e affermazione del ciclo della vita. (Mica tanto originale, lo so, ma non di meno: potente!)

Foto: Dama d'aprile – scattata il 13 marzo 2019 
(il senso della Dama in questo contesto: a voi scoprirlo - voglio solo suggerire che di solito nella boccia di vetro la neve è dentro, sopra il modellino in miniatura, mentre qui è fuori, e anche l'immagine della casa, riconoscibile dal comignolo è fuori - dentro la dama, lo zen impedirebbe di spiegarlo, invece c'è il vuoto).