sabato 15 agosto 2020

La pianta del piede come punto di radicamento bioenergetico (e altri appunti)

(pubblico questo testo - adattandolo a post - un anno dopo averlo scritto. Il libro a cui si riferisce sta per andare in stampa)

Finalmente sto arrivando alla fine della traduzione di Schmidbauer (La casa in Toscana) – non perché sia noioso, tutt'altro, ma perché è un'impresa condotta con calma, per passione, e di un certo impegno – che coincide anche con la fine dell'estate, quella vera. Oggi traduco la sua pagina datata 1.9.1985, ed è il 27 agosto 2019. Se allora io ero uno studentello in ferie alla scoperta della Sicilia, Schmidbauer era già a Vicchio, già da tempo immerso nella ricrescita della selva oscura della sua Privatwildnis, il suo "bosco selvatico privato".

Quel che volevo affrontare ora è un curioso aspetto che a volte accompagna il lavoro del traduttore, che deve sempre interrogarsi sulle parole che usa. Per esempio, ho appena incontrato la parola "agguato" (Schmidbauer dice: "le spine che stanno in agguato tra le morbide foglie della robinia"), e mi chiedo quanto e come noi questa parola la si usi ancora, distanti come siamo dalla vita naturale e dal contesto di caccia in cui è nata. Ad-guatum, potrebbe essere l'etimo, guatare verso (già guatare è una glossa, ovvero un termine introdotto a bella posta in maniera erudita, scomparso dall’uso dell'italiano corrente), "far la posta" - certo non più ad animali, piuttosto penseremmo a delinquenti o a poliziotti contro i delinquenti, possibilmente in un film che stiamo guardando in streaming (forse ancora un giornale, un tiggì?). Questa, diciamolo, è la realtà linguistica di oggi. Quindi: per leggere Schmidbauer bisogna (almeno con le parole, entrare con lui nel bosco. Facile per me, mi basta alzare gli occhi dal computer. Poi trovo: "suola dei piedi" (Fußsohle), che traduco col termine italiano corrispondente, pianta dei piedi. Mi chiedo: forse un tempo si credeva che stessimo davvero "piantati a terra", attraverso i piedi? Che i piedi fossero le nostre radici? Ora la pianta del piede mi sembra più la mappa della riflessologia, dello shiatsu, che ci dice dove soffriamo e dove va applicato il massaggio. E' l'altro senso della parola: piantina, schema, diagramma, che sicuramente deriva dall'immagine dell'albero (non mi do nemmeno la pena di verificare), con le biforcazioni. Che derivi della scolastica o dall'albero genealogico non cambia, si tratta sicuramente di quell'altra pianta che indica l'origine delle cose. 
Certo anche questa ipotesi è suggestiva (non sarò certo il primo a osservarla), ma la precedente, quella della radice, oggi mi sembra esserlo molto di più. Il senso non è proprio chiarissimo (come per esempio è l’analoga metafora morta “gamba del tavolo”, che il linguista chiama morta proprio perché nessuno la vede più). Forse ci dice che, se da un lato siamo nomadi, animali mobili, quando siamo fermi e vogliamo legarci a un posto ci piantiamo, e diventiamo coltivatori che piantano se stessi come fanno con gli alberi? Essere "ben piantati a terra" vuol dire stare ben saldi (saldati, metafora metallurgica?), radicati al suolo. E vale per tutto ciò che è difficile smuovere. Di più: non diciamo anche che "mettiamo radici"? Non è psicolinguistica questa? 
E la bioenergetica di cui Schmidbauer parlava poche pagine prima, riferendo della pratica dell'Erden (Erde è la terra, quindi significa qualcosa tipo "interrarsi") che nel frattempo sono andato a cercare sul Lowen, e nella traduzione italiana viene detta radicamento, non è proprio questo? Di fatto, nel 1975 Lowen diceva: "Allo stato attuale delle conoscenza non siamo in grado di comprendere fino in fondo la connessione energetica fra piedi e terreno. Ma sono certo che questa connessione esiste e so con sicurezza che, quanto più un individuo sente il contatto con il suolo, tanto più può mantenere la propria posizione, tollerare un livello maggiore di carica e affrontare più sensazioni. Per questo il radicamento è un obiettivo primario del lavoro bioenergetico. Ciò significa che la spinta principale del lavoro è verso il basso – è volta dunque a riportare il soggetto nelle gambe e nei piedi» (A. Lowen, Bioenergetica, Economica Feltrinelli, p. 171, corsivo mio). Chiunque abbia fatto una meditazione dinamica ricorderà molto bene le sensazioni e la pratica di cui Lowen sta parlando.

Tornando a me (il traduttore filtra sempre il testo con il proprio vissuto e la propria sensibilità): da ragazzi in montagna si faceva un gioco a due, ci si metteva in posizione da spadaccino, a gambe aperte e con l'esterno del piede avanzato contro l'esterno del piede avanzato, ci si prendeva a vicenda la mano destra e si cercava di far perdere l'equilibrio all'altro. Era un bel gioco, emozionante, di sicuro per la prova d’equilibrio (che qui voglio considerare sinonimo di radicamento), ma anche, me ne accorgo ripensandoci ora, per il flusso energetico che scorreva tra le mani delle due persone: chi giocava era comunque sostenuto e spinto dalla mano che lo avrebbe poi costretto a spostare il piede. L’energia dell’altro diventava sostegno o squilibrio, a seconda di come si riusciva a girarla a proprio vantaggio. 
Non erano davvero male questi giochi da ragazzi, si entrava in contatto fisico con l'avversario, con il proprio corpo, anche col mondo. Come l’altalena, la cavallina, gli sberloni, schiacciadito e tanti altri, anche dolorosi (si può arrivare tranquillamente al pallone). Non c’erano gli aggeggi elettronici (i technological devices) e non se ne sentiva nessuna mancanza, si era interamente lì, le emozioni si scambiavano irradiandosi dal corpo, e non venivano proiettate in un altrove fittizio.

Per concludere ho un altro aspetto da considerare, quello più spinoso. Schmidbauer parla spesso delle punture che, per il solo fatto di esser lì, ci si infligge quando si abita una casa in Toscana, terra di spine, come ben sa chi la frequenta. La terra ci punge, forse per tenerci vivi?, sotto forma di cardi, forasacco, legnetti, ortiche, pruni, rovi e quant'altro, soprattutto verso la fine dell'estate, quando tutto diventa duro e legnoso (forse i frutti,  per dovuta compensazione, qui sono più dolci e succosi?).
Per parte mia dunque accetto il gioco, e terrò un occhio aperto sulle piante dei piedi, questo delicato  punto di legame mobile e fragile con la Terra, un legame che senza accorgercene da civilizzati cerchiamo di nascondere, proteggere e alterare con suole spesse, a molle, anche corazzate, mettendovi in mezzo un altro diaframma (forse il primo?) che ci allontana da Madre Terra in tutti i modi.
Tutti tranne Marcello, riabitante di Rufina, che incontro spesso negli eventi della valle, che da anni cammina a piedi nudi, estate e inverno. Fa parte di quel movimento silenzioso di piedi-nudisti, che praticano e sostengono questa particolare modalità, compiendo a volte imprese epiche (non ricordo dove e come, ma su internet chi cerca con fervore può trovare tutto, la parola chiave su wiki è gimnopedismo).

ps. Scopro ora rileggendo che i piedi nudi, in questo mondo mediatico di rimozione, vengono subito accostati al feticismo, come particolare inclinazione sessuale. Perché come tutte le cose che sembrano strane, eccoli ascritti a quel "fuori norma" che dà i brividi ai benpensanti, a quella che un tempo si bollava come pornografia (con efficace meccanismo di rimozione sociale, per cui ci viene da considerare l’anomalo qualcosa di perverso e disdicevole), un termine decisamente scomparso (da che  ha conquistato il mondo). C'è poi quella canzone popolare, riproposta a suo tempo da Caterina Bueno, La Violina chi la vuole se la trovi, in rete c'è tutto... 

In questa foto infine, di fianco a un piede superpiatto (più radicato? chissà...) si vede una delle buche che quasi quotidianamente troviamo scavate attorno a casa, probabilmente opera del Tasso (o dell'istrice?). Questa smania di scavare presumo risponda all'esigenza di avere più tane disponibili, o in vista della crescita della famiglia o in vista di accidenti di vita (se avete visto Mr. Fox di Wes Anderson capite di cosa sto parlando, e scopro un'interessante chiave di lettura psicanalitica del film). In fondo introdursi nel sottosuolo è un altro modo, molto più "radicale", di legarsi alla Terra. Ne parla la psicologia junghiana, e Hillman ci ha dedicato uno studio ricchissimo e approfondito, che un bel giorno spero di riuscire a finir di leggere. Allora rileggerò anche il classico librettino di Dostoevski.