sabato 12 novembre 2011

Libertà è stare sopra un albero (di ulivo)



 È giunta l'ora, non posso continuare a fare finta di niente. Devo darmi una mossa e raccogliere le olive. Mi accingo all'operazione con riluttanza, per diversi motivi: so che sono poche, difficili, e soprattutto che ho trascurato le piante. Senso di colpa a mille. Non solo non ho fatto quella semplice operazione a primavera che consiste nello zappettare il terreno (però ero andato dal Mauri a imparare a farlo), ma soprattutto non le ho potate, né ripulite dei polloni. Sono poche operazioni, ma necessarie, e permettono alla pianta di svilupparsi negli anni nella maniera più adatta a far frutto. Gli anni scorsi ho cercato, ricorrendo ad aiuti esterni, di imbastire il discorso, liberando gli olivi da tutta la massa di piante che li aveva sommersi (ornielli, ailanti, rovi, pruni e aceri), facendoli potare da mani diverse ma esperte, per riavviarli a una forma da coltura. Tagli in parte drammatici, ma necessari per fermare l'inselvatichimento della pianta. Poi, dalla primavera scorsa, non ho più avuto modo di pensarci. O meglio, pensarci ci ho pensato, ma ho dedicato le mie poche energie a mille altre attenzioni più urgenti.
L'anno scorso avevo fatto, un po' per ridere, la mia prima raccolta, insieme a Ornella, in una mezza giornata di sole avevamo tirato su 2,6 kg di belle olive (quelle nella ciotola salentina della foto sotto), che poi in parte avevo messo su un vassoio di fianco alla stufa, a spurgare sotto sale l'amaro, in parte dentro a bottiglie da succo a maturare in salamoia, regalandole a Natale ai miei. Entrambe erano venute buone, molto buone e ne sono stato orgoglioso. A maggior ragione quindi oggi mi brucia dover scontare la pena del mio abbandono, che assume un po' il sapore di un tradimento. Tradimento di che? Di tutto quello che vorrei: perché la vita di campagna non ammette eccesso di soggettività, bisogna restare entro i limiti che lei pone, esterni al soggetto. Bisogna assecondare i tempi e i ritmi delle cose, della natura, uniformarsi (per quanto spesso lo dica, questo non vuol dire che lo faccia).
Non come siamo abituati in città, che una cosa si fa quando se ne ha voglia, un po' come figli viziati, scocciatisi di riordinare la stanza o di rifare il letto. Qui, se si vuole raggiungere soddisfazione e decoro, bisogna adattarsi, conviene. Si tratti di pulire i prati, tagliare la legna, raccogliere i frutti. Se si perde l'occasione poi non la si recupera più. Per noi accidiosi, per me che ho scelto il libri come regno d'asilo e rinvio, è un continuo memento. Eppure, lo so altrettanto bene, questa piccola umiltà, che per quanto diversa non è diversa da quella dell'impiegato che ogni mattina deve trasformare in una scelta il dovere di uscire e prendere l'autobus per andare al lavoro, è l'unico modo per diventare padroni di se stessi, per liberarsi e gioire. Abbandonando i propri egotismi ecc. ecc.


Sono sceso nell'uliveta (parola pomposa e fuori luogo, sono due terrazze mezze franate, su cui stanno abbarbicati la mia dozzina di olivi), verso mezzogiorno, con il falcetto, il tronchese, guanti e un sacchetto per il raccolto. Ho iniziato: pulire la base, per un raggio di un metro attorno al tronco, poi togliere i polloni e i rametti bassi. Poi cercare le olive: quando sono poche le olive si nascondono, più dalla parte dove batte il sole (per me a valle, dove sono più alte e irraggiungibili) e allora bisogna alzare le braccia, muovere i rami, scorgerle e cercare di raggiungerle. La raccolta a Montaonda è un'operazione assai difficoltosa, penso che potrei paragonarla, come esercizio fisico, al sassismo che facevo in gioventù, quando si andava sui sassi a cercare e provare passaggi di arrampicata difficili, a un metro da terra, per farsi le mani e le braccia. Distendersi, distendersi, distendersi, guadagnare un centimetro col piede, un guizzo di rene, e acchiapparla - lei, l'ultima più in cima, l'oliva solitaria. Naturalmente meno impegnativo in termini acrobatici - i piedi qui stanno quasi sempre per terra - ma non tanto.

La raccolta delle olive, anche quella dei professionisti, è un'attività non redditizia. L'anno scorso, per imparare, sono andato dalla Cris, che ha un bellissimo uliveto, basso, piano, ben soleggiato; c'erano tantissime olive dappertutto, bastava tendere le reti sotto, e poi allungare le mani, chiacchierando con l'amico sull'albero vicino. Tenendo il rametto tra pollice e indice si munge (qui dicono brucare, e il termine mi piace, a me nordico che lo usavo soltanto per gli animali sull'erba segnala un sereno rapporto di naturalità alimentare), senza trattenere le olive che, cadute a terra, si raccolgono poi tutte insieme, e tirando, quando si è finita la pianta, le reti, in maniera molto simile a come fanno (facevano?) i pescatori da riva, sulla rena. Pescare olive, sarebbe bello anche dire.


Da me agire così non è possibile, né soprattutto utile, non uso nemmeno la scala: le piante non sono ancora cresciute a sufficienza per poggiarsi, né sfrondate per poterci salire dentro. Quindi le bruco a mano, e senza rete - sono talmente poche le olive, che mi conviene, mentre mungo il rametto, staccandole raccoglierle nel cavo della mano e poi infilarmele in tasca! Sono proprio poche quest'anno: sarà per la stagione magra - un terzo rispetto all'anno scorso, mi dicono - sarà per la mia incuria, sarà per il passaggio sempre penalizzante di caprioli e cervi (mangiano la corteccia e le foglie, fino all'altezza della mia testa).
L'operazione è difficile - con tratti da 2° grado: quando i piedi devono stare sul bordo della terrazza erbosa, già di suo spesso inclinata, sul bordo del muretto sottostante, e nello stesso tempo mi devo sporgere e allungare per raccogliere quelle più belle - i frutti più belli sono sempre i più alti e i più esterni. Tirare delicatamente il ramo, curvarlo senza sciuparlo, sempre mantendo l'equilibrio. Ci vuole sicurezza e precisione, una scivolata, uno sbilanciamento significherebbero cascare di sotto (l'anno prossimo mi ingegnerò d'autoassicurarmi, con la vecchia imbragatura da roccia, se la trovo). Oggi, il secondo giorno che mi dedico a questa attività, per brucare il lato più esterno mi sono aggrappato con tutte e due le mani su due rami aggettanti, mi pareva di essere in parete quando capitava di superare una pancia. Senza  salire sull'albero (lo farò l'anno prossimo, se riesco a sfrondarle al momento giusto), mi sono solo ritrovato a spenzolarmi sospeso sopra la terrazza. E qui devo aprire una parentesi: il legno di ulivo è un legno molto bello cui aggrapparsi, ruvido ma delicato, robusto ma anche fragile, quando ci si issa sembra di stringere il polso, o afferrare il braccio teso di un amico. A differenza degli altri alberi da frutto anche il contatto con le foglie e i rametti è piacevole, non pungono, sono flessuosi e non si spezzano facilmente, basta far piano coi movimenti per non infilarseli negli occhi. Quando poi si raccolgono le olive, che sono dure e sode e non rischiano di spiaccicarsi o rompersi come altri frutti, la pelle delle mani resta leggerissimamente oliata, massaggiata, perché brucare il ramo è quasi una carezza, un contatto che dà piacere. Chiusa parentesi. E allora capita che stai lì, spenzolando a guardare verso il cielo, tra l'azzurro e il verde cinerino e scuro delle foglie, all'aria aperta della campagna, sotto il sole, e ti senti libero. Libero perché quei movimenti di raccolta non sono finalizzati a un incasso (in due ore il primo giorno ho raccolto 600 g), libero di fare la cosa perché ti va di farla, ti sembra opportuno e adeguato al contesto in cui ti trovi, e la fai direttamente per te, in quel momento, e senza secondi fini.
Libertà qualche volta, mio caro Gaber, è proprio stare sopra un albero, sia da ragazzi, come il barone rampante, sia da adulti, ogni volta che ci farebbe bene tornare a levare il naso per aria, e sentirci un po' più elastici e flessuosi (imparare dagli alberi).
In particolare poi, inutile tacerlo, mi sto occupando molto da vicino dell'arrampicata sugli alberi, per ragioni professionali, e perché con Mauri (treeclimber di vocazione e professione) stiamo facendo un video per Toni. Al momento opportuno ne riparlerò, sicuro. Intanto ne parliamo tra noi, e sugli alberi si concentra la mia attenzione. Spesso del resto qui le serate si passano a raccontare tagli di boschi, legna da opera, astuzie di attrezzi e affilature di motosega. Era anche l'anno dell'albero questo (se non sbaglio), ma pare che non ce ne siamo accorti più di tanto... Eppure, eppure... non è vero. Per me è stato un anno molto arboreo. E siamo anche in molti, credo, che vorremmo avere più a che fare con gli alberi. Se non che, loro stanno lì, e noi pensiamo di poter tornare a loro in ogni momento, e continuiamo a comportarci come sempre. Invece, per noi vitabreve, il tempo scorre accelerato, come in un film di Ridolini: siamo trascinati da mille altre cose - e intanto, nei boschi, i frutti cadono, e cadono le foglie, passano gli anni, e noi, noi dove siamo?




P.S.
In Toscana (ma anche in molte altre regioni d'Italia) gran parte della raccolta viene fatta a mano, e quasi sempre a farla sono i pensionati. Passando a novembre per le colline li si vede nei campi, tra l'erba verde e le brume sfilacciate del giorno, la macchina a bordo strada, la scala argentata o arancione, le reti bianche. Si muovono lenti, diritti, silenziosi, come  per tutta la vita non avessero fatto altro che salire e scendere quelle scale, appoggiarle ai rami più solidi, alzare le braccia e brucare le olive, potare i succhioni, portare avanti e indietro le ceste fino alle macchine aperte. Spero che lo facciano anche loro per piacere, guardando verso il cielo e ritrovando su quella scala la propria libertà. Perché di altro, di denaro, di certo non ne cavano molto: chi raccoglie fa a mezzo col padrone, quasi come ai tempi della mezzadria. Quanto rende? Se va bene da 10 kg si fanno 1,2 litri d'olio, al massimo 1,3. Quando un albero è maturo e ben carico produce qualche decina di kg di olive. Ma quanto ci vuole a raccoglierle? Poi, messe nelle cassette di plastica si fanno asciugare e si portano (ma quanto pesano!) al frantoio...

martedì 18 ottobre 2011

Bollettino di Montaonda n. 32: Colture diverse per diversi terreni



Alla fine l'autunno è arrivato, anche se è rimasto asciutto - per ora. Si è acceso prima il camino e poi la stufa, dopo averla nettata in qualche modo dopo la pigrizia estiva. Messi via pantanloncini e sandali, indossati zoccoli e pile,  pronti guanti e berretto per la sera. Niente piogge (stelle e lune luminose), niente funghi, la ricrescita autunnale dell'erba è dovuta prevalentemente alla caduta dell'umidità notturna (guazza, la chiamano i toscani), che ha abbattuto la polvere secca dell'estate e arrestato l'inaridimento delle foglie degli alberi. Primi tra tutti i faggi, che già ad agosto avevano perso quasi del tutto la chioma - e si teme anche la vita: in che misura lo scopriremo a primavera. Poi si sono spogliati i sambuchi, e la foglia di quercia ha preso il suo colore invernale di cuoio. I cornioli, che promettevano un raccolto abbondante come l'anno scorso si sono raggrinziti sull'albero, inutilizzabili. Anche i fichi, sono passati dall'acerbo al secco, senza dare grandi soddisfazioni (niente marmellate). Cadono le prime foglie, ma nel bosco, sulle montagne, domina ancora il verde. Ora stanno raccogliendo i marroni, ed è annata misera mi dicono, circa un terzo del raccolto. Anche l'annata delle olive è magra, ma gli orti, purché si siano potuti innaffiare, vanno ancora bene, ancora ricchi di pomodori, peperoni e melanzane - ma ora temono le gelate: al mattino la temperatura si avvicina ormai allo zero... Un tempo non avrei immaginato che sarei arrivato a interessarmi di queste cose. E in realtà, me ne interesso relativamente, in fondo non più di quanto un cittadino in possesso di titoli si interessa dell'andamento della borsa. No, non è la stessa cosa, lo so bene - ieri sono stato a visitare la serra e i campi di Saverio, uno dei produttori super-bio (nel senso che non hanno il bollino) del Mugello, che rifornisce gas e Fierucola. Che bellezza, i suoi filari di ortaggi. Ma io che faccio?, com'è che parlo degli altri e non produco nulla?
Produco, produco, ma non ortaggi. E nemmeno blog, perché di fatto questa nuova attività di editore mi distrae da quel raccoglimento campagnolo da piccolo Thoreau del Mugello in cui negli ultimi anni, da che sto qui, immerso nel mondo di Mondaonda, mi ero sprofondato (e chissà quanti siamo a fare gli eremiti). Rincantucciato, e per di più (quindi altro che Thoreau) senza diventare zappatore (il riferimento al movimento "Zappatori senza padrone", anni '70, è voluto). No: perché io non ho mai inteso - né preteso - di trasformarmi in zappatore (suonatore forse) della terra - mentre zappatore di altri terreni, sicuramente meno terreni, invece, direi di sì. Rivoltare, estirpare, arieggiare, seminare, innaffiare e raccogliere, si può farlo in altri ambiti. Ecco che però, di fatto, la mia zappa metaforica l'ho mollata, perché per dar vita a una casa editrice, per quanto minima e alternativa, bisogna gettarsi di nuovo nel mondo. E quindi, anche se a tempo determinato, altro che campicello, mi sto dedicando a fare l'imprenditore (come mi ha fatto notare Elisa). Orrore, mi dico, che sei venuto qui a fare il milanese? Ma no, tutto ha una sua misura, e quella che sto trovando qui, la casa sul cucuzzolo che diventa casa editrice (sede ma non magazzino, come si vedrà) mi garba (come dicono i toscani). Se non che mi sono accorto che i libri non basta stamparli (raccoglierli), bisogna promuoverli, farli conoscere, se si vuole venderli. E io, insomma, vorrei ricavarne anche qualche soldino, non dico tanti, ma quanto mi basta per il mio piccolo menage. Invece di vendere fagioli, come quelli della Greta, vendere libri. E perché no?
E dunque? È già il momento di un bilancio? Proviamo. Un libro, Padre Adam, Apicoltura all'abbazia di Buckfast, è sul mercato dal primo marzo, è stato salutato dal settore con entusiasmo e sta vendendo ogni settimana un paio di copie, più ogni tanto una fornitura all'ingrosso, a qualche libreria specializzata, o la partecipazione a fiere ed eventi. Grazie a Pietro ho scoperto il mondo degli apicoltori, e devo dire che mi piacciono molto, anche le api. Dal simbolo all'insetto, si potrebbe dire parafrasando un antico corso di Sini (la mia università). È un bell'ambiente, tutti sono abituati ad affrontare in proprio le difficoltà e a risolverle concretamente, un mondo che richiede dedizione e attenzione, e ha i suoi bei rischi (come la vergognosa vicenda dei neonicotinoidi). Una bella palestra, fisica e metafisica: e infatti i diversi apicoltori sono gente in gamba - magari un po' maniacali, un po' strani, ma gente che ti si piazza davanti e ti studia, ti considera, e poi interagisce con te. Il libro è stato lodato, e ancora alla fiera del miele di Lazise, due settimane fa, ho incontrato lettori che mi hanno confermato l'eccellenza e utilità del volume. Questa è una grande soddisfazione, non saprei come altro dirlo. Lo adottano, lo consigliano nei corsi ecc.ecc.
Quindi si va avanti, sulle api è in preparazione un secondo libro e forse un terzo. Ma in realtà, la realtà va ben al di là di questo: e gli amici che mi hanno incontrato in questi mesi lo sanno, è tutto uno sbocciare (e naufragare) di progetti, più o meno attuabili. Resto convinto che si possa fare un libro su tutto - anche sui lacci da scarpe. L'importante è trovare la nicchia di appassionati che se lo strapperanno di mano, il tuo libro, dicendo era anni che aspettavamo questo splendido volume sui lacci da scarpe (nel mondo, nella storia, in Italia, nell'industria, che importanza ha? In fondo i lacci da scarpe sono solo un esempio preso a caso tra milioni - eppure pensate che meraviglia: un libro - illustrato - sui lacci da scarpe!).


A me piace particolarmente - è per ora il mio compenso e guadagno - scoprire il mondo della costruzione materiale del libro, ovvero non più solo il testo ma l'impaginazione, la grafica, la tipografia. Come raccontare l'emozione di vedere le lastre dei colori, le prove di stampa della mia prima copertina? E poi, una volta che il libro è stampato, tutto il resto: organizzare la rete di vendita, il magazzino, le spedizioni (per fortuna per gestire tutto questo ho trovato un amico che mi solleva di tantissimi grattacapi, stavo per andare in tilt), nonché il lavoro di comunicazione. Insomma, un grande gioco. E anche se ho fatto un libro solo, la casa editrice deve avere tutto, iscrizione in camera di commercio, commercialista, contabilità, e ora anche un avvocato consulente (ma gli amici, sono un tesoro, no?, lo diceva già Padre Tobia...). Ora il secondo libro sta passando al vaglio delle lettrici editoriali (eheh, altre amiche, da ricompensare con gratitudine imperitura!), poi si impagina e si affronta la tipografia. Spero entro un mese di averlo pronto. Questo è un libro pazzo, non fatto per il denaro ma per il mio gusto. E poi il terzo è già lì, in lavorazione, e ce n'è tutta una folla di altri possibili, i libri sono milioni, non ultimo quello sui lacci delle scarpe. Mi sono dato un anno - devo cominciare a guadagnare qualcosa, perché i miei capitali si assottigliano paurosamente.


Ma non avviene solo questo, naturalmente la vita a Montaonda, anche se inframmezzata da quest'avventura, continua: l'appartamento dietro avanza (lentamente, ma avanza) e ieri è venuto il falegname a prendere le misure per le finestre. Oggi poi, ho tagliato la legna, dopo lunga esitazione, finalmente una stalletta è sgombra per ospitarla. E tagliare la legna, la prima legna veramente mia, che Paolo ha tagliato per me nel mio bosco, che Spino ha portato fuori dal bosco fino a casa con i suoi muli, che io ho impilato sotto la tettoia - tagliarla per ridurla dal metro ai 33 cm per la stufa, e poi spaccarla, è uno dei migliori esercizi per affrontare l'inverno. Un po' di mal di schiena il primo giorno (occhio all'aria fredda nella schiena sudata), qualche callo sulle mani, ma tornare in casa, fare la doccia per togliersi i trucioli di dosso e sapere che ora può anche venire il freddo e il gelo, è una delle migliori preparazioni - direi quasi meditazioni - dinamiche all'inverno. A colpi di scure - concentrati e attenti per non farsi male - si scaccia il timore del buio, delle ombre fredde che si allungano sui cipressi, mentre per la valle nel rosa vetrato del tramonto si sparge l'odore di legna che brucia nei camini. In cantina diffondono il loro profumo due cassette di mele e di pere (me le ha regalate ieri la Cris), c'è anche la scorta di patate e cipolle. Presto arriveranno le castagne, e poi le streghe, e l'inverno...

Ps.
Le foto ai bellissimi muli di Spino gliele dovevo...

domenica 14 agosto 2011

Bollettino di Montaonda n. 31: Risalendo la via dell'acqua


L'altro giorno, 9 di agosto, siamo andati a fare il giro dell'acqua, scendendo al fiume sotto il ponte e sopra la cascata, e risalendolo poi fino alla strada di Ciliegioli. È dai tempi in cui ne avevo parlato nel blog (sono andato a controllare, Bollettino n. 3, archeologia!) che non ci ero più tornato. Perché raggiungerlo di solito non è agevole: nell'ansa sotto a Montaonda il fiume scorre basso, incassato tra le rocce e coperto dalle fronde degli alberi. Soltanto in pieno inverno, cadute le foglie, se ne intuisce qualche brillio d'acqua. Ma in questi giorni di metà agosto la portata è ai minimi stagionali - da casa non si sente nemmeno - e quindi, scendendo dal sentierino che porta alla pozza sotto il ponte, si può andare fino a sporgersi sulla cascata (foto d'apertura - già che ci sono vi ricordo che cliccando le foto si allargano un po', ma la risoluzione è cmq ridotta). È piuttosto alta, saranno una ventina di metri, e curiosamente non è segnata sulle carte, almeno non quella del Parco, che pure ne riporta altre di minore importanza. Forse perché non è accessibile, nemmeno da sotto, se non a rischio di pericolosissimi scivoloni (io stesso ho evitato, e ne ho solo una foto scattata in inverno, in piena, e da lontano).
Quando l'acqua è poca si può, fiancheggiando la pozza, risalire la piccola gola e accedere alla valle dal basso. Sotto il ponte, abbarbicate alle pareti rocciose, abbiamo trovato le capre del vicino Paolo, due femmine, un capretto e un maschio ancora giovane, curiose e giocherellone (di base sono di razza camosciata, coi piedi e il muso bianchi e il resto del pelo nero, dai riflessi corvini, quasi blu). Una, mi raccontava, gli è morta questa primavera, caduta e sfracellata. Due ci hanno seguito costeggiando con noi la pozza a canyon, dove i più arditi tra i sangodenzini amano immergersi per brevi bagni tonificanti - forse dieci bracciate, stando attenti a non sbattere mani e piedi sulla roccia. Noi abbiamo evitato, in fondo quel rivolo d'acqua estiva, per quanto limpida, raccoglie gli scarichi di Castagno in piena stagione turistica...



L'acqua prima o poi scolma, anche quando è poca: scorre e scende a livellarsi su una linea perfettamente orizzontale. Quando è immobile pare una finestra sul sottosuolo. Per quanto tenue, il flusso si fa rivolo e si raccoglie in pozze, anche profonde, come questa, dove si purifica depositando un sottile fango grigioverde. Sembra immobile ma sempre e ovunque trova un varco, e riprende a scendere scivola, accellera, cade, e questa sua caduta non è propriamente a peso morto, perchè c'è anche una spinta continua, c'è altra acqua dietro che preme, quella che nei fiumi imetuosi vuole portarci via, come Marinella, smuoverci quando vi siamo immersi dentro. Dentro di lei, la Corrente - e cos'è mai la Corrente, questa dynamis, continuo flusso eracliteo, che ci solletica i piedi, incalza le gambe... La discesa, il movimento la ossigena, le dà vita, la fa cantare sonora. La pozza sembra immobile, solida come ghiaccio, vetro per gli occhi, appena increspato dal movimento di un insetto pattinatore, equilibrista, da una foglia in navigazione. E invece basta toccarla, ogni volta, come Narciso la riscopriamo inconsistente e cedevole, perfettamente liquida, avvolgente quanto le consente la cavità che l'accoglie. L'acqua tra tutti i misteri è grandissimo, avrebbe anche potuto cantare Pindaro, quarta Olimpica, primo verso.
Oltrepassata la pozza le pareti della valle si aprono in una piana larga nei punti più ampi forse 20 o 30 metri, che affianca il fiume su diversi livelli, vecchi letti abbandonati, scolmi di piena; irta di sassi tondi e di rovi, di alberi altissimi, a chiudere la volta del cielo, pilastri ricoperti di edera di una silenziosa e raccolta cattedrale verde, tarkowskiana - ontani e pioppi, sottobosco di corniolo, felci, rovi, sambuchi e biancospini, al posto di panche tronchi crollati, ravvolti di rovi. Ci si siede, si contemplano le finestre alte e luminose, le vetrate di foglie, dal giallo canarino del sole al verde bottiglia, lo scuro dei rami.
Qui Ueli mi ha raccontato di avere tentato, una ventina di anni fa, di allestire un orto - troviamo ancora il recinto di filo spinato - ma poi, forse era troppo lontano, non ricordo più, lo ha abbandonato. E qui vicino c'era pure una casetta, l'avevo vista l'altra volta, un capanno di pietra, ora ridotto a mucchio di sassi ricoperti di vegetazione, crollato di alberi incrociati sopra, proprio dove, finito di risalire l'ampia curva del fiume, un sentierino sale su verso le querce, gli ulivi e il sole, le terrazze la casa e il cielo. Di certo, di tutta la proprietà di Montaonda, sono queste le uniche parti in piano, e ben irrigate. Ascendenti, sul nostro fianco del monte, riconosciamo un paio di antiche terrazze, sostenute da muri di grossi pietroni. Fin qui, quaggiù, si veniva a coltivare la terra.

L'acqua scende noi risaliamo, ma quasi in piano, quindi entrambi senza fretta: ci incontriamo e intrecciamo i nostri passi, saltellando tra sassi incerti, da una sponda all'altra, del fiume, della valle stretta tra le rocce. Esploriamo una terra incognita quasi cercassimo le sorgenti di un fiume ignoto, esploratori dell'Africa Nera. Un parco avventura casalingo, come dev'essere, senza attrezzature o strutture, appena fuori la soglia di casa. Quegli altri, attrezzati di acciaio e materiali plastici, dove genitori paganti portano i figlioli, pensando senza pensare di fare cosa a loro grata, a ben vedere sono solo parchi giochi attrezzati, di avventura non c'è proprio traccia. Brivido forse, ma con meno rischio di un'altalena. L'avventura, anche quella minima, nel mio lessico richiede invece imprevisto, mistero, incertezza e anche una qualche dose di pericolo. Abbandonare i riferimenti del mondo, entrare nella selva selvaggia, quella aspra e forte.
Qui, oggi, l'inquietudine è poca o nulla; dovrei riprovare in inverno, col fiume ruggente di piena, il freddo bagnato, i muschi e la costa scivolosi... se proprio volessi cimentarmi. Ma oggi cerchiamo il fresco, ci contentiamo di una comoda esplorazione domestica: in linea d'aria siamo a cento metri da casa, ma questa è una linea impossibile da seguire - neppure con lo sguardo si riesce tracciarla.
Katabasis, Unterwelt, Urwald - il mondo parallelo, analogo, abaton, quello che nel mondo civile scrutiamo scorrere dall'alto dei parapetti dei ponti, ammaliati.



Quaggiù ci apriamo la strada tra rovi e ragnatele, seguiamo le tracce degli animali. Dell'uomo, poche: ogni tanto una bottiglia, una suola di scarpa. Su un tronco ricoperto d'edera noto dei vecchi colpi di pennato, a spezzarla; credo siano miei, di tre anni fa. Di edera gli alberi sono talmente pieni che solo tranciarla diventerebbe un lavoro serio, di tutta una giornata e più, e molto sudore.
A un tratto un fruscio e un'ombra colorata in fuga, non riusciamo a capire se di capriolo o di cervo. Sul terreno sabbioso le orme unghiate sono moltissime, i sentieri stessi sono tracciati dagli animali, qui di casa ben più dei loro cacciatori. Da un lato o dall'altro, ad ogni tratto, tra muschi e rocce, accenni di tracce s'inerpicano per la ripa del monte, impraticabili per gli umani, almeno se dotati di buone intenzioni.
C'è un grande silenzio, sono le quattro di pomeriggio e l'aria è fresca, protetta dall'alta volta verde degli alberi, l'umidità rallegra. Il cielo dove può si specchia nell'acqua tranquilla, il fiume scorre senza salti, gira attorno ai sassi producendo gorgoglii leggeri, e ad ogni manciata di metri si può attraversare. Ogni tanto si accosta a una ripa e lambisce la roccia, ogni tanto si apre in una pozza; dove c'è più luce - di recente qualche albero è crollato - aumentano le erbe che incorniciano le sponde. In una di queste pozze più chiare osserviamo pesci e, dopo un po', quando l'occhio s'abitua a oltrepassare lo schermo riflettente dell'acqua, un'abbondante famiglia di gamberi indaffarati, tra cui saettano rapide sagome di pesci piccoli, poco più che avannotti - nella fotografia prendono forma di tenui ombre trasparenti.


Qualcuno mi ha detto che sono i rossastri gamberi della Louisiana, introdotti anni fa con gesto scellerato, dato che divorano ogni cosa, soprattutto uova e pesciolini. Ma chissà, forse invece sono i vecchi gamberi di fiume nostrali, come si dice qui, che prosperano di nascosto dalle ingordigie umane. La gente del posto lo sa, eccome. Ho sentito racconti di cacce notturne con secchielli colmi, nei decenni passati. Prima di trasferirmi a Montaonda non ne avevo mai visti, ma ricordo gli scarni racconti di mio padre, le sue incursioni da ragazzo per le rogge dell'Oltrepò, a Rovescala, a caccia di gamberi e rane. Divorarli in famiglia, immagino, era una delle feste e leccornie che segnavano la stagione. Forse ora davvero non li mangiano più, forse è subentrata una forma di rispetto per la nuova biodiversità (ma il nome uccide, dico io, e lo pensavano gli antichi), protezione e affetto per gli animali rari e preziosi? Mi illudo, mentre invece il gambero americano sta uccidendo un altro fiume già agonizzante?
La riva di sinistra scompare in un roccione a strapiombo, cerchiamo quindi di proseguire sulla destra, ma ci troviamo in un roveto sempre più fitto, e anche se abbiamo i guanti e la forbice da giardino per fare cinquanta metri si rischia di metterci mezz'ora. Un attimo di sconforto, forse fa anche più caldo, e a che punto siamo della camminata? Non ne ho idea, fin qui non sono mai arrivato. So che più avanti si deve incrociare la strada che guada il fiume, ma non ho proprio idea di quanto ci voglia ancora, e cosa ci aspetta. Una pausa, una sigaretta. Torniamo sul fiume, si salta un po' sui sassi e, superato un punto un poco più impegnativo, prima di quanto si immaginava, arriviamo alla strada. Sollievo, soddisfazione, siamo al traguardo. Ora basta risalire e tornare, lungo il sentiero di mezzacosta, ben noto e segnato. Anche se arranchiamo sotto il sole forte ormai sono le sei passate, non è nemmeno tanto sgradevole.

A Ciliegioli i pascoli sono da tempo maturi, ma nessuno li ha falciati. Colorati dei fiori di agosto, sulle coste e un po' dappertutto avanzano stendendo la loro mano minacciosa le foglie scure dei rovi, solo questo. Giriamo dietro la casa, ci imbattiamo in un trattore che sembrerebbe lasciato lì il giorno prima, pronto a partire per riprendere il lavoro. L'attrezzo agganciato a rimorchio è di un bel rosso fiammeggiante, sembra nuovo. Eppure tutto è sommerso dalle piante, equiseti, galiga, mentuccia, immobile da mesi, forse addirittura dall'anno precedente. Pare ormai caduto in potere dalla vegetazione, inerme - un trattore! - pare sul punto di essere digerito, assimilato. E mi accorgo solo ora, preparando l'immagine da caricare sul blog, che c'è stato e ancora vibra in me un fremito di compiacimento misto a terrore: l'immagine potrebbe essere una significativa profezia, premonizione di crisi esiziale, di quella vera, che potrebbe arrivare tra poco e divorarci tutti, il grande blackout energetico. E forse, contrariamente alle nostre illusioni, creerà amare difficoltà anche a tutti quelli che, come me, si consideravano rifugiati, al sicuro sull'Appennino, capaci e pronti a rendersi autosufficienti. Un altro sogno. Almeno, se le cose le intendiamo così, immaginiamo pure l'autosufficienza ma, per favore, senza trattori... torniamo al bue, al mulo e alla capra, torniamo al Nepal, la frugalità, i piedi scalzi e le rughe sul volto... (e ne vedo, ne vedo molti tra gli abitanti d'Appennino, riabitanti, per essere precisi, che sempre più spesso mi capita di incontrare), questo se mai uno ci attende, è il medioevo venturo, non quello delle sagre fragorose e magnaccione...


Anche a Ciliegioli il silenzio è rotto solo dall'acqua, ma questa volta è una cascatella scherzosa, che proviene da un rubinetto al capo di un tubo d'acquedotto, o di presa a monte, non so. Sta fissato al tronco di un cipresso e il filo d'acqua, una luminosa collana di perle di vetro, cade in un mastello di ferro zincato sempre pieno, sempre aperto a beneficio degli animali (capita spesso che i proprietari dei poderi sul limite della selva lascino un abbeveratoio per i selvatici). Questo in particolare lo conosco bene: l'ho visto in ogni stagione, l'ho in foto costellato di barbe di ghiaccio; ma ora mi attrae la mucillagine vegetale che ribolle al suo interno. Pare polenta appena gettata in un calderone (il pastone che la prozia metteva sul fuoco, erbe e cicorie insieme a granturco, il mangiare dei polli). A quanto pare il cuoco ci ha appoggiato sopra di traverso il bastone per sparire e dedicarsi un attimo ad altra faccenda. Non c'è fuoco qui, ma questa è senz'altro una cucina all'aperto, qui madre natura allestisce i suoi intrugli, minestroni per sfamare vegetali e animali; guardo la traccia di muschio che ricopre l'orlo sulla destra, seguo l'umido dell'acqua che scende ai piedi del cipresso, che digrada verso il pendio e il bosco pascendo erbe diverse, di macereto.


Cogliamo un po' di achillea da mettere nella grappa e poi si va, ormai il sole è basso e c'è ancora una ventina di minuti per raggiungere casa. Rapidamente, quando si esce dalla valletta - qui un tempo si dice fu avvistata un'orsa col cucciolo - arriviamo alla spianata del galestro. Ora si scorge la silouhette di Montaonda - le case, i cipressi in fila si stagliano contro il sole vicino al tramonto. Era tempo che aspettavo di tornare, è un posto particolare, per la vista e per le pietre affioranti, sottili e quasi orizzontali, simili, anche nel colore, a brandelli di legno, a piastrelle grezze smozzicate o fogli di cartone buttati per terra. Tra i radi ciuffi di elicriso e di rosa canina abbiamo eretto un'erma, come i greci chiamavano le colonnine di sassi, ometti, come dicono i camminatori dei sentieri alpini. Il perché e il percome nella prossima puntata (ho già scritto anche troppo) nei prossimi giorni, spero, a recuperare gli arretrati scoperti.
Poi a casa, in una manciata di minuti.


mercoledì 29 giugno 2011

Bollettino di Montaonda n.30: Camminare verso



Ieri sono sceso in città a fare scorta di libri, e mentre studiavo gli scaffali, arrivato a quello del turismo, guide e affini, ho visto che razza di incredibile offerta c'è sul Camino de Santiago. Siccome mi era da poco capitato di recensirne uno non mi sono stupito: evidentemente questo "camminare verso" ora è molto sentito, se non di moda. Naturalmente, come diceva l'autore del libro poco più che mediocre che ho letto, si parla (e straparla) di cammino interiore. Cosa ciò sia però non mi è ben chiaro, se non come vaga e condivisa aspirazione spirituale - mi sembra di aver capito che ognuno se lo vive come vuole (in tempi di psichedelia si diceva "ognuno si vive il suo trip", e anche quello era in fondo un riconoscimento del comune bisogno di trascendenza - se non di illuminazione). L'importante, riducendo la questione ai minimi termini, mi pare sia il puro comune "aspirare verso": perché in fondo camminando si sta per lo più zitti e si rimugina, e se uno del gruppo non è simpatico si trova il modo di scansarlo e procedere da soli o accompagnarsi ad altri. Una grande partita a dama, da soli o in compagnia: secondo preferenze o attitudini ognuno un senso se lo crea da sè.
Ben altro ho trovato invece nel libretto pubblicato dall'amico Julian, che mi ha donato qualche tempo fa quando ci siamo incontrati a Padova, per confrontare le nostre esperienze di neo-editori (lui: Overview editore). Si tratta di una storia, breve perché proprio senza fronzoli e ben scritta, in cui il camminare parte senza una motivazione e diretta "verso il nulla", in mezzo al deserto. In perfetta solitudine. Ma lì, però, dove tutto si dissolve - e questa è la differenza rispetto a quello che ho letto su Santiago - il camminatore trova qualcosa, che è anche il punto in cui il protagonista decide di fare ritorno, che diventa poi un ritornare. Quel minuscolo qualcosa infatti viene rivisitato, per tutta la vita, istituendo una sorta di pellegrinaggio (senza santuario, mi pare di ricordare). Ciclicità, ritorno, rivisitazione, crescita, ecc. ecc.
Il fatto che il cammino nel deserto culmini in un'epifania, e che questa sia un fiore non è melensaggine, ma la necessità di vedere certe cose senza veli, Buddha era tutto tranne che melenso, no? Ebbene, se il cammino di Santiago (per come lo vedo da lettore di resoconti altrui) è un tendere a una meta, a uno sbocco verso l'oceano, un immenso e dolente camminare di sofferenza che sfocia naturalmente nella distesa sterile e salata dell'infinito, un limite esterno in cui l'individuo si perde o con cui quanto meno si deve confrontare (sto parlando di coordinate geografiche e mentali, non di quelle interiori, non di esperienza individuale ma di simbologie del camminare), di dissoluzione e unione cosmica, ecco che invece nel racconto di Neil del Strother il cammino nel deserto diventa incontro e soprattutto frutto (la bellezza guarda un po'), e quindi senso; l'individualità si apre e sboccia, e gentilmente, silenziosamente, diventa forza d'esempio e fattore di promozione sociale. Il cammino poi viene ripercorso anche all'indietro (mentre da Santiago ho l'impressione che siano pochi a tornare come son venuti...). Naturalmente tutte queste mie chiacchiere valgono come scusa perché, a un anno e mezzo di distanza, non ho ancora finito di raccontare il mio cammino verso l'Annapurna - naturalmente.

Il fiore nel deserto, Overview edizioni, è un bel racconto, forse un po' costoso visto che lo si legge in un'oretta, ma 9 euro per 90 paginette, se sono ben scritte, è uno scambio che si può fare, in fondo è il prezzo di un biglietto del cinema. E poi, nulla ci impedisce di rileggerlo, no?
Infine: rileggendo queste righe, per controllare i dati del libro lo apro, e cosa leggo sul risvolto? "...scritto lungo gli 800 chilometri del Cammino di Santiago" Oh, sì!

Nella foto: flora spontanea di Formentera

venerdì 20 maggio 2011

Bollettino di Montaonda n.29: Si ricomincia? - Una palinodia


Da dove? Da qui, grazie alle insistenze di lettrici e lettori affezionati al punto di diventare quasi molesti... ricomincio da un frammento, che ho sulla scrivania del computer da mesi:

Leggendo Padre padrone di Gavino Ledda mi ricordo come, quando era uscito il film ed io ero ragazzetto e poi adolescente politicizzato, non mi interessassi né per il libro né per il film. Erano cose che mi annoiavano, sì, capivo, ma non mi riguardavano, ero figlio della città e volevo ambienti metropolitani, freakkettoni e psichedelici.
Ora invece che finalmente lo leggo, un po' a fatica perché adesso non mi "serve" più, essendo un libro da coniugare al passato, e che quindi ha perso credo gran parte della forza che aveva nella sua contemporaneità, una forza che portò l'autore a divenire attore interpretante se stesso nel film dei Taviani, mi accorgo di quanti tesori contenesse, e subito penso quanti tesori probabilmente possedessero ugualmente i miei coetanei cresciuti in montagna. Ma allora, io come loro, quei tesori non li vedevo e non li cercavo - forse anche li disprezzavo. Come sarebbe stata diversa la mia vita e la mia conoscenza se avessi fatto amicizia con i "bocia" del paese, se diventato uno di loro avessi imparato a condividerne saperi e segreti. Forse era stata colpa del nostro capo, il Borrini, che ci aveva addestrati a non dare confidenza ai paesani, che a loro volta in noi villeggianti vedevano dei rivali sul loro territorio (non era forse un territorio la piazza del paese, non lo erano i vicoli antichi e misteriosi, a quel tempo ancora tutti densamente abitati, vocianti e puzzolenti, quanto oggi sono vuoti e silenziosi, puliti?).
Ne deduco che non avevo l'amore per quelle cose, che non avevo l'ardore, la febbre di conoscere il mondo, ma mi contentavo di essere il più piccolino arruolato nella banda dei villeggianti per parentela e per far numero, il più conquistato dei conquistatori cittadini. Eppure, da adolescente e poi studente, quando ormai nessun gruppo esisteva più, ma la frattura con "quelli del posto" era ormai ovvia e insanabile, me ne andavo a spasso da solo, in giro per sentieri e boschi alla ricerca di un contatto che sentivo insufficiente, un po' alla Lenz, alla ricerca di qualcosa che non sapevo. Eppure, pochi anni dopo, grazie al Piccinini che a Roma studiava con la Corti, e al mio studio del mondo greco antico, mi aprivo all'interesse per l'etnico, ma se non era morto da millenni era sempre filtrato dalla storia familiare, inserita ma anche distaccata da quella del paese, per quello che era stato prima che arrivassi io, generato in città e ormai forestiero, e di cui proprio io, poco convinto cronista, sarei stato in cerca nei decenni successivi - se nell'etnico la mia generazione ha sublimato il bisogno del gruppo, quando non di una famiglia, cercando nelle più diverse latitudini (in particolare io in Crucchia, nella capitale ex metropoli del '900, e dopo il '45 simbolo, ancor più della nostra etnicità scomparsa, evidentissimamente nel territorio della mia Berlino, squartata e deterritorializzata fino a perdere, all'apparenza almeno, ogni tratto di comunità, continuità, dissezionata e tenuta in vita artificialmente, raggiunta in qualche maniera una forma di essenza nuda e ossea, pura metafisica nichilista. Ma proprio lì (prima della rinascita dell'etnicità cruenta dei conflitti balcanici), fu lì, negli interstizi tra muro e muro, nel corridoio inagibile dove correva il mio sguardo, in quella fascia d'erba e di macerie popolata di conigli e flora spontanea che doveva sparire al più presto una volta stretto il patto di riunificazione, prima vittima ignorata, lì ho trovato il primo "fiore raro" come si potrebbe pateticamente dire, cresciuto nel cemento, nel cuore del massacro, sopra il bunker di Hitler, l'ho visto passandoci mille volte a passeggio, il germe della vita, conigli selvatici, insetti, erbe, riconoscendo il non visto, dall'aria e dall'atmosfera, nel mattone annerito delle case rimaste in piedi e riabitate da vedove e giovani, nella sabbia del suolo scoperto e nella polvere che si respirava su una Potsdamerplatz tornata capace di cambiare colore con le stagioni, tornata brughiera, popolata di piccoli esseri e cani, città laboratorio postnazista, dove trovavi parcheggiati pacifici carrozzoni di punk, bancarelle di souvenir e torrette di legno nero, quasi balneari, che ti innalzavano quanto bastava per tuffare lo sguardo di là, e trovare a pochi metri da te in braghette nientepopodimeno che sua altezza l'Unione Sovietica e il vento siberiano). Una fantascienza da guerra fredda, che ora si trova a stento ravanando nei vecchi film e libri berlinesi degli anni '70-'80, quasi definitavemente spiazzati dalla nuova prosopopea della Nuova Germania (ahah), nel bene e nel male, come che sia.
Poi, ritornato a casa, quel germe interstiziale l'ho ricercato invano nella mia città, nel cui ritmo non ho neanche cercato davvero di inserirmi, e comunque inutilmente, visto che infine sono scappato in Toscana, come tanti, arrivando qui affascinato da una natura aspra e possente, dai suoni acustici di chi suonava polche e mazurche, dappertutto, alle feste ma anche nella cucina di Campicozzoli, violino clarino e fisa, chitarra e voci, un gran casino e vino, vino a dame e che costava niente... una Toscana ancora poco ambita, ultimo rifugio e luogo d'incontro con i pochi ingenui aperti all'incontro, i nati-lì, quasi portatori ancora di una cultura popolare che non era mai stata assimilata - vive le dure nonne toscane - fino al momento in cui proprio loro, gli amici più giovani, presa consapevolezza della sua autenticità, ne hanno celebrato il funerale. Stanze colorate, orti sbilenchi, strade dissestate e feste notturne, fuochi, bagni nel lago e tutta una fantasmagoria rurale che io, vecchio di una vita già ingiallita, ammiravo un po' distante ma assorbivo, eccome, rivitalizzandomi, ringiovanendo e riacquistando pratiche e speranze, assimilandomi alla spinosa flora locale, galiga e ginestra, sambuco e pruni, scoprendo una terra polverosa e ricca, dura e riarsa, inverni umidi e freddi di mota viscida e dura da vincere anche in pochi metri - e tutto alle spalle di Firenze, a pochi soldi, alla portata di chiunque! Che ricchezza!
M'è venuto facile assimilarmi prima ai vegetali che agli umani, senz'altro; ex-dott. e straniero, per innumerevoli motivi, ora trascurabili senz'altro, fino al punto in cui, imbarazzato della mia sotterranea estraneità ho maturato la scelta di restare, ovvero di andarmene per essere lì interamente, niente sottosuolo, abbandonare la città e cercare uno spazio autosufficiente e mio dove germinare e confrontarmi con la vita complessa che si consuma e riproduce qui, in questa terra mala e benedetta...

Troppe cose, dette troppo in fretta o male? Lo so. Ma questo frammento un po' troppo autobiografico valga come palinodia, è un estratto dei tanti bollettini che in questi mesi non ho mai terminato e mai postato, perché come tutte le cose vive e recise una settimana di tempo li avvizzisce, me li cava di mente, entrano nel passato, e questo blog, vuole essere il frutto di qualcosa di vivo, fresco e palpitante... dunque provo a ricominciare, a postare, vediamo come andrà. La città mi riassorbe, ma questa volta voglio fare un nuovo tentativo, sempre portare lì la mia campagna, in città, offrirla a chi non ce l'ha.