giovedì 31 dicembre 2020

L'ultima luna del 2020


L’abbiamo passata anche questa, stanotte dominava un cielo per lo più sgombro di nubi, dopo lunghe giornate d’acqua (e neve sulle montagne) stamattina è tornato il sole – fumi salgono da prati e boschi, e presto ci siamo ritrovati dentro una fitta nebbia dorata, dentro a quel rado cuore pulsante da cui si levano le nuvole in formazione: al calore del sole si gonfiano, ascendendo dai prati e dagli alberi e poi, quando son mature, come una mongolfiera gonfiata dal fuoco si staccano e vanno, partono, salpano per l’oceano ininterrotto del cielo, navigano per l’aria verso il Mugello, la Sieve, Firenze, e chissà dove andranno a disfarsi.

Stamane dicevo, mentre dalla credenza prendevo la scatola di biscotti ho rivisto la cazza, pendere in un angolo della credenza. Siccome in questi giorni, sulla scorta di René Guenon (Il Regno della quantità, Adelphi) che da tempo studio e m’ispira, sto riflettendo sulla vita e il canto degli oggetti (se sono strumenti musicali fanno musica, se di altro tipo fanno altri canti, come canta il martello sull’incudine o canta la falce nel prato), ecco ricomparire questo oggetto per me massimamente numinoso.

Guardatelo bene,  ingrandite l’immagine, ne vale la pena. È un oggetto che chi lo usa guarda molto da vicino, da vicinissimo. Lo impugna e lo bacia, addirittura, suggendone con cautela e prudenza il contenuto che, per quanto io sappia e in lunghi anni abbia osservato, sempre e soltanto è stato acqua, pura e limpida acqua di fonte e fontana.

 


Per me è un oggetto sacro quanto lo è il calice della messa per un cristiano. Da questa mestola (perché questo vuol dire “cazza” in dialetto banniese) ha bevuto per molti decenni l’intera schiatta dei Volpone Tosetti (da cui anch’io discendo, anche se porto un nome diverso) e amici e conoscenti che venivano in visita a Soi (topografica: "Soi di Fuori"). Per non so quanti anni: perché io, finché c’è stata la casa, l’ho sempre vista lì e sembrava già allora identica a oggi. Avrà più di cent’anni (mia madre, appositamente interpellata ora al telefono dice che “l’ha sempre vista, fin da bambina”, e siccome sta per compiere 89 anni…).  “Conoscendo i miei vecchi” so quanto fossero restii a sostituire gli oggetti d’uso quand’anche fossero rotti: ogni cosa finché possibile si riparava, prima di sostituirla con altro che certamente non sarebbe stato all’altezza (e già ecco nelle mie parole risuona un secondo libro, W. Schmidbauer, Die Kunst der Riparatur, Ekon Verlag, 2020). Insomma, una versione “applicata agli oggetti” del mito dell’età dell’oro: il primo, forgiato da un dio in epoca primordiale, è sempre il migliore.
Si beveva sporti in avanti (vedi foto sotto) accostando cautamente le labbra tirate (troppo impeto portava a bagnarsi il petto), ruotandola leggermente mano a mano che si beveva, vuotandola (è parecchio capiente, ho misurato ora per la prima volta la sua capacità in 400 ml), oppure scagliando con un gesto deciso e semicircolare l'acqua avanzata fuori dalla porta di casa, verso i gradini di pietra e il viottolo di terra, erba e sassi che scendeva nel pratone. Poi si riappendeva al chiodo senza sciacquarla, qualche goccia ancora s'infrangeva sul pavimento antico di legno. Solo acqua, mai sapone o altro. Altri gesti, altri tempi, altri riti e canti.

La mestola stava appesa dietro la porta d’ingresso della casa – una porta bassa e massiccia, di larice, come gli stipiti stessi della porta, da cui si entrava nella cucina della baita costruita con pietra e legno in cui mio nonno si rifugiava – e insieme a lui costringeva noi a rifugiarci – ogni voltache gli era possibile (ora mentre scrivo riconosco in lui quell’istinto del montanaro, che colpisce così tante persone, di trovare una casupola sperduta in qualche luogo e trasformarla in eremitaggio - anche su questo ragiono da tempo) in un alpeggio a mezz’ora di cammino dal paese. Una frazione dove allora non arrivava strada, luce, acqua e tutto quello che non si poteva someggiare a spalla o a dorso di mulo. Le cose più moderne nella baita di Soi erano il fornelletto d'alluminio a META (combustibile solido ancora oggi in uso tra gli alpinisti – il nonno aveva fatto la Prima Guerra Mondiale, e il suo armamentario tecnologico era più o meno quello), la lampada e il fornelletto con bomboletta della Camping Gaz, che venerate come modernità stridevano in quel contesto ombroso e levigato dagli anni. Il resto era davvero antico (quando la casa fu venduta, e poi bruciata, ne sottrassi e conservai alcuni reperti, oltre alla cazza piatti, qualche posata di legno, e simili).

Appena arrivati si apriva la porta (a me pareva la porta laterale d’un castello di pietra), con la grossa chiave di ferro lavorato e levigato,  con la “mappa” (lo dice il Devoto Oli, ho scoperto ora che si chiama così) ritorta a forma di S come quelle che compaiono nel simbolo del Vaticano. Chissà quanti anni aveva quella chiave, con la sua serratura (le serrature erano preziosissime, a casa Michina mio nonno ne conservava una grande scatola piena).

Aperta la porta il nonno subito ci mandava a prendere l’acqua, mentre lui apriva gli scuri della finestra e la porta sulla lobbia. Per andare, dovevamo prendere sulla destra dell’ingresso, da uno scaffale di legno un secchio e un secchiello di ferro zincato, riposti rovesciati, con cui si andava quindi alla fontana (o poi allo scolmatore dell’acquedotto) a prendere l’acqua. Riempirli per noi piccoletti (per rendere visivamente l'idea mi vengono in mente quelle foto di bimbi al lavoro - ancora anche per noi non c'era l'idea che i bimbi non devono fare sforzi, e anzi era un continuo metterci e mettersi alla prova per vedere se "ce la si fa" o no) era già un impegno, e la vera scommessa era riportarli a casa colmi il più possibile senza infradiciarsi i piedi e le scarpe. Si faceva una tirata sola, oppure una o due "posse" (pause).  Sistemato il secchio grande (pesante, con due mani!) su uno sgabello basso e quello piccolino sul ripiano più alto – credo della capacità di circa tre/cinque litri, finalmente allora s’impugnava la cazza, che era rimasta lì, per mesi nella penombra, appesa al chiodo, la s’immergeva e s’attingeva l’acqua necessaria per bere, per placare la sete o per la bisogna. Non esisteva polvere a Soi, e ragnatele poche, e solo alle finestre.

Quanta di quell’acqua ho bevuto, e com’era sempre fresca, e come dissetava. Immergevo il volto dentro la sua pancia capiente e mi specchiavo, e bevevo. Quell’acqua sapeva leggermente di ferro, forse era più l’odore, ma era comunque gradevolissimo, come certe acque ferrose delle montagne… In molti luoghi, nelle Alpi ma penso anche altrove visto che tutto il mondo è paese, presso fonti e fontane abitualmente il viandante trovava un bicchiere, capovolto, di vetro (di plastica chissà perché non ne ho mai visti), una tazza di ferro smaltato, a volte legato con un cordino, se doveva stare appeso. Si sciacquava sommariamente, si beveva, si risciacquava, libando l'acqua a terra (le libagioni, ovvero le offerte liquide, vengono versate "alla Terra"). La cazza aveva l’uncino alla fine del suo lungo manico, per appenderla al chiodo, e ci otrvo grandi affinità con la “broca” dei contadini toscani, appesa dietro la porta, di cui parla Schimdbauer in La casa in Toscana (Montaonda, 2020). Quei chiodi! Quei legni, quei metalli! Pura poesia giapponese (vi sembro esagerare? Volete capire l’estetica giapponese? Terzo viene allora Tanizaki, Libro d’ombra, di cui Amazon offre in anteprima la bella presentazione dell’82 di Giovanni Mariotti, un libro fondamentale per chi s’interroga sulla civiltà e il consumo).

Come si vede è ricavata da un pezzo di ferro, non so come. Ha davvero un aspetto antico, pieno d’irregolarità, nel manico e nella tazza. Battuta a martello? Allora ho chiesto all’amico Sven, che tra i suoi mille mestieri ha fatto per tanti anni il fabbro, e ha una preziosa conoscenza dei metalli (è stato anche a Bannio). Gli ho mandato la foto su whatsapp: “Mi sai dire di che materiale è fatta questa mestola per bere?” Sembra ferro, ha risposto (lo interrogherò meglio quando verrà a trovarmi l'anno nuovo).

 


Visto che l’ho conservata (la custodisco, non la posseggo) ancora vi posso bere, lo faccio, e la sensazione che ne ho è rivitalizzante (cogliete pure l’ironia e il bisticcio dei cognomi "Vitalizza il Volpone che è in me"), mi rianima come un elisir (e se l’elisir di lunga vita non fosse nel liquido ma nel boccale, non in ciò che si ingerisce ma nell’atto magico di compierlo? Jodorowski, Psicomagia, credo approverebbe); meglio che da qualsiasi calice o boccale. Perché cos’è il Sacro Graal? La tazza in cui venne raccolto il sangue vivo di Cristo, se non ricordo male quello colato dal costato, dove lo ferì il centurione (o chi era?). Lo stesso sangue che i credenti bevono nell’eucarestia. Vino, rosso, come nell’ultima cena, che per merito della transustanziazione (una delle parole più assurde e belle della teologia cattolica) si trasforma in sangue vivo (viva San Gennaro!), vino che trasmette la charis, la grazia, quel che a tutti noi manca; un liquor insomma che altro non è se non “l’acqua della vita”. E un po’ per tutti i popoli, e per le tradizioni, davvero esiste un’acqua della vita (ricordo l’omonima fiaba dei Grimm (Das Wasser des Lebens, cfr. wiki, che mi fece conoscere il compianto amico Horst Kirchmaier, teologo). Lo stesso (sangue di un animale sacrificato) che bevono le anime dei morti nella nekyia omerica (Od., XI), quando Ulisse scende nel regno dei morti e per conoscere il suo destino sacrifica un animale (una capra?): ed ecco che le anime s’affollano per berne il sangue e recuperare così, per breve tratto, la memoria.

E cos’è appunto la cazza, se non il mio Graal? Bevendovi acqua limpida (a Montaonda la porta l’ecquedotto, ma oggi è davvero buona!) ecco che ricordo, e con le mie parole faccio ricordare. A mia madre, a cui con la telefonata riaccendo il ricordo di quell’oggetto magico, a mia sorella e fratello, cui posto la foto, a me, che scrivendo ripercorro e rivivo ora sensazioni da tempo dimenticate (dopo tanti anni ho bevuto dalla cazza) e a tutti quelli che leggeranno avendovi bevuto (un paio di persone?) oppure “con animo puro”, che sicuramente sentiranno se non il ricordo dell'acqua di Soi (altro che Lourdes) il brivido dei secoli, o almeno dei loro/miei decenni…

Ecco allora un’altra promessa, a chi verrà a Montaonda, se ne farà richiesta, prometto, offrirò di bere dalla cazza, ben più di un sorso d'acqua, ma l’acqua della vita (quella di ciascuno che beve e che mentre beve sente scorrere dentro di sé). Ma per berne bisogna essere assetati, bisogna chiedere da bere.E la cazza è molto capiente, suggerne una misura piena ristora una gran sete...

Bene, bravo, bel pippone, direte. Ma che c’entra la luna?

È qui che arriva il bello della storia, la luna nella cazza. Già ho detto della festosità del gesto di prenderla per bere, Immergendosi sopra la sua scorza misteriosa, butterata e splendente. Come non paragonarla oggi alla superficie della luna? E girandola poi, da un verso all’altro, è giocare a pensare alla cazza vuota e alla cazza piena, che è una e all’interno concava e all’esterno convessa. Appare come un profondo cratere, o la pancia enorme della luna stessa… e continuando il gioco la giro, e gioco con l’ombra a ricercarne le fasi. Vado sul sito astrale www.spaceweatherlive.com/it/calendario-delle-fasi-lunari.html, e scopro che la luna dopo il primo quarto si chiama anche gibbosa, per cui due giorni fa, 29 dicembre, era al 95% (gibbosa), mentre il 24, la sera di Natale, era al primo quarto (che è il 60%!), e oggi, che inizia la discesa verso il nuovo anno, sarà al 99% e poi via via sempre di meno. Che sparisca questa luna cupa, che sparisca quest’anno di lutti e miserie!



(Non ch’io voglia attribuire agli astri le nostre calamità, so bene come siano tutte originate dal comportamento empio dell’uomo, che da tempo ha ormai perso l’uso di rispettare  le leggi naturali. Ci siamo messi a costruire torri più alte del cielo, a deviare fiumi, a  prosciugare i mari, a imbrigliare le forze immani che ora si ribellano e ci danno il ben servito. E invece di vergognarci per tutte le miserie (scorie, scarti, ecatombi, malanni) che continuamente introduciamo nel cosmo. Un tempo, “quando c’era rispetto”, si sarebbe parlato di maledizione, di vendetta e punizione divina (anche il dio cristiano non era misericordioso, mandava diluvi, piaghe, e simili, come da narrazioni bibliche e postbibliche, perché senza andare troppo lontano ricordiamo la posizione di Woytila sull’AIDS…).

  


Insomma sono i due lati della luna, la luna misteriosa e amica dei poeti, e la luna malefica delle maledizioni… ma tutto passa e tutto se ne va, tranne la vita che resterà.

Ora la cazza è qui, appesa alla credenza, e continuerà a ristorare “gli assetati”. Più di così non può certo fare, e nemmeno io. Non finirà in nessun museo e, dopo questa apparizione per pochi, tornerà a fare il suo mestiere, perché prendere l’acqua dal secchio per bere è il suo modo di cantare (foss'io uno strumento, scrivere è il mio canto). Ora devo trovare un secchio degno di lei, chissà che non ritrovi quello di Soi, sperduto in qualche cantone, a Bannio…(la cazza è stata fotografata con il cellulare, senza flash nella luce del mattino del 31.12.2020).