sabato 15 dicembre 2012

Weihnachtserscheinung - Presepe vivente sulla statale 67

 


Ieri sera sono sceso a fondovalle per andare alle prove del gruppo di musica a ballo che stiamo mettendo insieme, ormai da un anno, con alcuni suonatori dei maggiaioli. Dopo la grande nevicata e il freddo intenso oggi durante il giorno la temperatura è finalmente risalita sopra lo zero, anche se la parte alta della strada di casa, con la curva ripida esposta a nord, è rimasta impraticabile per ghiaccio e neve. Ho lasciato la macchina dopo il guado ma prima del ponte.
Quando sono sceso con zaino e custodia dello strumento in spalla (mandolino e bottiglia di vino, con qualcosa da sgranocchiare durante la cena in compagnia) era buio pesto - sono arrivato all'auto che erano le sei passate, e la strada asfaltata risultava ormai perfettamente sgombra. Soltanto sul bordo gli ultimi rimasugli della neve scostata dallo spazzaneve. Piovigginava, e l'aria era densa di umidità. Andavo piano, scendevo seguendo le curve senza fretta, ma subito dopo il rettilineo alla fine del paese mi sono ritrovato dietro a un vecchio camion scoperto, che emetteva una nuvola di fumo azzurrino e puzzolente. Non un nuvolone insopportabile, ma abbastanza da farmi sentire in un mondo passato, che oramai si incontra sempre di meno. La campagna era nera, perché nera appare la terra dopo che sparisce la neve, nera era la strada, e così l'asfalto luccicante, e la notte. Anche la luce arancione dei  lampioni sparsi qua e là a segnare le abitazioni della valle, non faceva che aumentare questo effetto (il giorno dopo Santa Lucia, pensavo). Il camion era vecchio, e sembrava senza targa. Come capita in questi casi mi sono fissato a guardare l'asse delle ruote posteriori, con al centro quella specie di rigonfiamento imbullonato che potrebbe essere il differenziale o la trasmissione. Chissà quante migliaia e migliaia di chilometri aveva fatto. Si sa, i camion sono quasi indistruttibili. Era un'immagine, tutto quello che vedevo, che poteva benissimo essere di un inverno di vent'anni fa, e per me, che da parecchi giorni non lasciavo casa, era come non ritrovare le coordinate del presente, ritrovarmi in un tempo diverso. 



Non smaniavo per superare il camion, come invece l'attualissima macchina alle mie spalle, che mi mordicchiava aggressiva il didietro, e che appena possibile ho lasciato passare. Seguivo il camion, godendomi quell'attimo che sembrava uscito da chissà quale fumetto torvo di china. Anche perché sapevo che in breve sarei arrivato alla botteguccia di San Bavello, dove  volevo comprare un pane (loro hanno quello buono, cotto a legna, e un pezzo da un chilo costa 2 euro e poco più).  Ma prima che iniziassi a congedarmi dai fanali posteriori (ormai sbiaditi e gialli) del mio camion, prima che avessi il tempo di iniziare a rallentare all'iingresso del rettilineo con la bottega, ecco che anche lui frena. Ci fermiamo insieme, io subito dietro, penso anche lui viene qui. Forse per un bicchiere di vino, è una vecchia locanda. Cerco il denaro, e intanto guardo davanti a me il cassone di alluminio da trasporto. La targa tutta inzaccherata, si rivela di Firenze. MI verrebbe voglia di dirgli di far dare un'occhiata alla carburazione, che la sua carretta ci avvelena come una centrale a carbone - ma mi trattengo, un po' per rispetto dell'anzianità del mezzo, un po' perché in fondo convinto che l'autista lo sappia benissimo. Scendo, e vedo che il cassone umido, come umido è tutto nella notte qui fuori, è vuoto e sporco di legna. Scopro che nel frattempo qualcuno è sceso dal lato del passeggero. Mentre ci passo accanto vedo una donna involtolata in un cappottone nero e un ragazzino di dieci anni. La portiera è aperta, lei è di profilo, rivolta verso l'interno dell'abitacolo. Intravedo una figura in ombra al posto di guida. L'uomo e la donna si parlano, il bimbo si agita e si guarda attorno, io spingo la porta ed entro. In bottega c'è luce e caldo, la signora sta servendo qualcuno ma c'è libera la figlia, che non ricordo di avere mai visto ma che le assomiglia come una goccia d'acqua - come doveva essere anche lei vent'anni fa. Saluto, schivo come  sempre con chi non conosco, prendo il mio pane (ma con la signora, o anche col marito, quando ho tempo mi fermo volentieri a scambiare due chiacchiere), pago ed esco. Li ho appena intravisti uscendo, erano dietro di me: il bambino ha un piumino azzurro, la donna è una donna bella, giovane e pallida, alta e con tratti gentili, la testa avvoltolata in una sciarpa come si usava negli anni cinquanta. Fuori guardo di nuovo nella cabina del camion (è un Lupetto della OM, o Fiat che fosse già diventata, rosso, e comunque un camion dei miei anni verdi), e nell'ombra vedo un uomo con il braccio appoggiato al volante, mezzo di traverso. Ha un beretto schiacciato in testa, la barba nera e lunga di qualche giorno, sembra anche lui uscito da un film di cinquant'anni fa. Ma è giovane, non ha più di quarant'anni. Che impressione mi fa. Una famiglia che viaggia in discesa dal passo del Muraglione, su un vecchio camion, in questa serata prenatalizia buia e gialla di luci. Come se fossimo nel dopoguerra: un tempo per me vissuto soltanto come ricordo altrui, salvo rari attimi d'allucinazione come questo, o gli sconfinamenti nell'Europa dell'Est, quando c'era. Torno alla mia macchina metallizzata che mi appare improvvisamente incongrua come una proiezione del futuro, e penso a questa impressione, che da un lato va a ripescare nei ricordi di una giovinezza da tempo non frequentata, e dall'altro appare come un fantasma e una premonizione di un mondo che verrà (La strada, di McCharty?). Non so perché (forse l'ambientazione notturna?) mi viene in mente il tenente Colombo nello spiazzo della Potsdamerplatz, che incontra Bruno Ganz, ancora angelo: lui senza vederlo lo sente aleggiare vicino, gli tende la mano e gli dice: "allora come va, compañero?” 


Le foto sono dell'8/12/2012, ieri sera non avevo nulla per scattare. 
Quella in apertura mostra cosa si vede dalla porta dell'ingresso nuovo, la seconda da una delle finestre della cucina, che dà sul Falterona. Questa qui invece mostra l'alloro di Ueli, un bel po' piegato dalla neve (ora si è ripreso).

mercoledì 14 novembre 2012

Bollettino n. 36: Aggiornamento e qualche foto


L'autunno è maturo, il bosco ormai fradicio e la stufa funziona a pieno regime. La mattina il sole sorge giallino e la giornata è breve. Di queste cose mi accorgo quando torno dalla città, con più forza, perché ogni volta devo riconquistarmi il diritto di stare qui. Le mura sono fredde, i gatti affamati, cambio i vestiti e gli orari, e in realtà anche l'alimentazione. Due tre giorni, e mi assesto. Riprendo i lavori, riprendo a suonare qualcosa. Esco poco, vedo pochi, cerco di portarmi avanti col lavoro, che ce n'è sempre una montagna, sia intellettuale che fisico. Sto preparando un libro sugli alberi, sono pronti, spero per Natale, due libretti di carattere uno "letteratura agreste"  e l'altro "Storie dal XXI secolo", più naturalmente un nuovo libro sulle api, da presentare alla fiera di marzo.
Tutto questo dovendo occuparmi (male) anche della comunicazione e distribuzione, perché Basilio mi aiuta moltissimo con il magazzino e le spedizioni, ma tutto il resto dipende ancora da me (salvo la Grafica!). E vorrei che così rimanesse, perché non ho mire espansionistiche, anzi se mai riduzionistiche (spero, un sospetto, che il benevolo lettore abbia ancora sufficiente fiducia in chi scrive per sorridere a queste ironie, senza prenderle per svarioni, visti i tempi in cui si naviga), vorrei fare sempre meno, ma meglio, e che la gente lo capisca. In soldoni, fare pochi libri ma venderli tutti. Ahah, davvero spiritoso.



Ogni volta che torno dalla città mi tiro fuori, così come ogni volta che ci ripiombo (altra ironia lessicale) ne vengo fagocitato e perdo prospettive, cieli e distanza. In città è tutto stretto, appiccicato addosso, ansiogeno. Qui in campagna puoi crepare di solitudine, tra l'indifferenza dei selvatici, ma almeno puoi cadere bello e disteso, lo spazio non manca. Dalla città vengo con carichi di preoccupazione, dopo aver visto, contro ogni mia volontà, spettacoli indecenti (a piene mani - ci sono anche qui, chiaro, ma la tossina umana è parecchio diluito e non risulta altrettanto letale), raccogliendo per fortuna il miele di chi mi vuol bene e apprezza - pochi ma buoni, come si diceva. Ed ogni volta li incito, venite a trovarmi, venite a ritrovarvi, non che Mo possa fare miracoli, ma andarsene dalla città, cambiare aria, anche per un paio di giorni, può fare bene. I milanesi ben sanno di che parlo, loro vivono per necessità il weekend come valvola di sfogo, ricarica pneumatica (in senso alto), necessario per rigettarsi nel Mar Asma. Ecco, immaginino, un we permanente - non è incredibile?



Certo il 2012 è stato per molti aspetti un bell'anno di merda, iniziato e finito tra dolori e fatiche, posto che siano finiti. È come se ci (mi) avesse fornito un assaggio di quel che mi aspetta, una prova generale, e forse si potrebbe anche teorizzare un inizio della fine (anche se, come dicevano i saggi un tempo, l'inizio è certo nell'esser nati). Restano spazi di manovra, siamo nel fango, le ruote slittano, ma ancora si riesce a governare, a tirarne fuori la ghirba. A maggior ragione dunque, conviene godere di quel che c'è di gustoso, la famosa ciliegia (o fragola, chi ricorda più) sopra al precipizio. Volendo ben vedere di ciliegie di questo genere ne ho fatta una scorpacciata, e non me ne dispiace certo, perché davvero sono le più saporite. È il prezzo che si paga per gustarle... Per dire: qui ci siamo fatti una scorpacciata mai vista di funghi, quando si credeva che fosse ormai tardi, in dieci minuti ne abbiamo trovati un cesto pieno, in marroneta, il giorno che con la Orni (è lei la Grande Trovatrice) siamo andati a salutare la Gabri che raccoglieva i marroni; quasi che la Natura volesse farci capire io prendo e io dò, l'estate è stata secca, e ora voilà, faccio come mi piace, i più bei funghi che abbia mai visto, tutti sanissimi - chi c'è c'è e sarà servito come un re. Bisogna saper aspettare pazienti, saper cogliere il frutto, non come nella società dell'uomo, che lavori lavori e tutti ti dicono bravo, ma poi i meccanismi sono tali e talmente intricati che è impossibile cavarne di che campare, non restarne schiacciati. Di riffa o di raffa, tutto scade prima che tu te ne accorga. E tocca pagare la mora. Eppure la verità potrebbe essere un'altra - fate la prova, ieri ho ammollato dei ceci scaduti: stanno germogliando... tutti! 
Nella società degli uomini i conti non tornano mai, ci sono sempre delle trattenute non dichiarate, non previste, non annunciate, e quello che  resta è quanto basta appena per tirare avanti (e ancora non so davvero). Di per sé niente di male, non fosse che ci sono quei ladroni istituzionali che si succhiano tutto, e ci costruiscono grattacieli e mastodontiche porcherie inutili e anzi dannose, con il sottratto alla tua fatica.



Dico così perché uno arriva qui, in luoghi eremitici, e si illude di potersene scappare via da certe cose, e riempirsi gli occhi di altre, e invece, proprio qui sei più vulnerabile: qui, se ti si rompe la macchina sei davvero fregato, in città puoi sempre trovare alternative. Qui non gli amici ma loro ti vengono a trovare, perché la luce l'acqua e tutto il resto - sotto forma di pecunia e suoi legami - ti viene amministrato, secondo canoni che non sono gli stessi che adotti tu (come lo taglierei volentieri quel filo che attraversa la mia finestra!). Comunque esisti come vogliono loro - a meno di sparire. E quindi, resta l'ammirazione per tutti coloro che vivono la campagna in modo autarchico (e sono sempre di più) ma a ben vedere questa autarchia ha le gambe corte, perché senza appoggio, senza sostegno di amici, parenti, capitali, turisti, compromissioni che non voglio prendere in esame, la vita sarebbe ben dura (e lo vedo, in chi ci prova, che resta presto senza denti, se non senza pane). Io vorrei continuare a potermi curare dal dentista che scelgo (e quest'anno m'è andata male). Insomma non illudiamoci, tagliare i ponti non è possibile se non per fare la fine del cretino di Into the wild (il film tratto dal libro di Krakauer).
Vabbe' la tronco lì, non vorrei che apparisse una lamentela, in realtà è soltanto uno sguardo disincantato sul mondo della pianura visto dalla montagna. In realtà avrei anche molte altre cose da raccontare, e anche splendide, tutta l'estate, il primo autunno, anche in America sono stato! Forse nei bollettini successivi, se riesco a recuperare un ritmo, vedremo. L'importante era ripigliare a raccontare, poi si vedrà.



Le foto (come al solito se cliccate si allargano) scure di questo bollettino sono scattate dalla finestra della camera da letto, lunedì 12 novembre. I colori sono dovuti in parte al paesaggio, in parte alla bassa esposizione e al tramonto sopra le nuvole, che irradiava il riflesso del sole calante sulla valle come un grande ombrello rosso... insomma, di questi tempi occorre dire che non ho ritoccato nulla. Le altre due chiare sono invece del 30 ottobre, quando è venuta quella prima ondata di maltempo a dirci che l'estate era finita. Stavo spaccando la legna e il cielo si è aperto all'improvviso mostrando queste meraviglie biancoverdiazzurre, così sono corso a prendere la macchina fotografica.


venerdì 6 luglio 2012

Bollettino n.35: Estemporaneità



Ora mi sembra, mentre leggo e bevo birra sdraiato sul letto in mutande (e penso che non è affatto una cosa da adolescenti, e per convincervi mi sembra adattissimo ricordarvi Bukowski), docciato dopo avere iniziato a imbiancare casina nuova (l'appartamento sul retro - sta per iniziare il conto alla rovescia), e quindi alle 19.30, dopo un temporale e prima che domani arrivi la Orni, insomma: come una rivelazione mi accorgo di fare finalmente quello che ho sempre voluto fare, da quando avevo 14 anni (cioè leggere bevendo birra in mutande sul letto). C’è voluta una vita, e mi chiedo perché mai ho dovuto traversare tante peripezie, come Ulisse, per arrivare a “casa”? Avrei potuto non muovermi? (Intanto vedo dalla finestra aperta che ancora piove, ma contro il sole).
Penso che sono solo ma dovrebbero esserci tutti i miei amici, e massimamente quelli dei tempi andati, perché questa è la festa della mia vita, il compimento. Parlare con loro, dirglielo. Forse loro sapevano che tendevo a questo? E in un certo senso loro ci sono, se sono capace di pensarli. Come in un senso diverso ma simile, mi dico, ci sono tutti quelli che ho incontrato e conosciuto, anche se non lo sanno. Se penso a loro, sono qui con me, a bere birra e a scrivere su un taccuino, a chiacchierare. Com’è possibile? Certo. Per esempio se parlassero, la zia direbbe cosa fai sul letto, mio nonno starebbe zitto, e anche mio padre. Altri farebbero altre cose, perché agirebbero, come fanno i vivi. Ma tutti, è questo che mi chiedo, anche tacendo, mi guarderebbero con approvazione? Capirebbero? E forse – attenzione - è anche per loro che ho dovuto fare tanta strada, per dimostrargli che starsene su un letto a bere birra in mutande può essere il traguardo di una vita (vabbe’, sto anche leggendo un libro di Gary Snyder, A Place in Space, sarà il suo riverbero che mi investe?). Tornando al dato: non è la felicità come la immaginavo da ragazzo, quando stavo sul letto in mutande a leggere e mi mancava tutto (magari leggevo Kerouac, magari c’era pure la birra). Ora non mi manca niente, ho "tutto" quello che mi serve (almeno, che mi serve ora). Ma questa tranquillità, questa fiducia che mi sento addosso, dopo anni e anni di dubbi e ansie, di fatiche e tormenti, è anche più della soddisfazione. E proprio in questo sta, nel fare quello che tutta la vita si è sognato di fare. Da qui, sento adesso, potrei non muovermi più (anche se so già che tra pochi giorni mi rimetterò in strada). E arrivarci alla realizzazione, quando è una cosa così, invece cioè che diventando il capo del mondo o un uomo di successo (quello sì che è un sogno da adolescenti), non è una conquista, è molto di più, è una grande liberazione.




(C’era una canzone di Nick Drake, A place to be, che non conoscevo; ma quando, credo nell’87, ho fatto il mio ultimo concerto da mixerista del gruppo che era il “mio” gruppo e si chiamava Weimar Gesang, all’Actor’s Playhouse di Milano, ora di nuovo Cinema Ducale, ecco che mi hanno fatto questa canzone fuori programma, alla fine, che non avevo mai sentito, arrangiata un paio di giorni prima in sala prove. Era bellissima. Paolo cantava con una voce tesa e lamentosa da far scoppiare il cuore, Fabio era un’eco misteriosa e la chitarra di Cesare entrava con un arpeggio sospeso, di tre note che si rincorrevano, un suono spettacolare. Molto più bella di quella originale, che poi ho sentito anni dopo. La cassetta che mi ero fatto fare dal tecnico dell’impianto la troncava a metà dello stacco di chitarra dopo la prima strofa. Quella canzone loro non l’hanno mai più registrata e io, dieci anni dopo, quando sono tornato a Milano e ho incontrato Paolo, quando lui me l’ha chiesta gliel’ho data, e nonostante tutte le promesse e i giuramenti non l’ho mai più riavuta. Ma non mi serve, ce l’ho ancora in mente, viva e presente).



(questo non so proprio  che insetto sia - a chi lo sa identificare sarò grato - me lo sono trovato in casa e l'ho messo fuori,  l'ho chiamato Polverino)


lunedì 7 maggio 2012

Bollettino n. 34: Saltiamo al Maggio






La primavera anche a Montaonda è stata un po' strana, prima calda e secca, poi fredda e umida, ora passata la Pasqua in un battibaleno siamo a maggio. E così per la seconda volta ho partecipato in veste di suonatore al maggio di San Godenzo. Per chi non lo sapesse - e credo sia la maggioranza dei lettori questo blog - il maggio è un antico rito della società agraria che ancora vive più o meno spontaneo o istituzionalizzato sull'Appennino, dal Piemonte al centr'Italia. Dato per morto nel dopoguerra, è risorto dagli anni '70 in poi, con varietà di luoghi e condizioni.
Il 30 di aprile, al termine del lavoro (chi lavora) i maggiaioli si danno appuntamento per portare musica e balli di tradizione (vecchia e nuova) sul territorio, passando di casa in casa a offrire fiori e canti, a chiedere da bere e da mangiare (si parla di uova, ma spesso saltano fuori pizze e crostini, crostate e tarallucci) per tutti. Naturalmente si fa tardi, e il giorno dopo per fortuna è festa.
I maggiaioli di San Godenzo sono un gruppo un po' particolare, perché composto in gran parte da una folta schiera di persone (e personaggi) venute da fuori, "la banda" si chiama, ovvero i protagonisti di quell'ondata di popolamento delle coloniche avvenuta a partire dagli anni '80, profughi di esperienze metropolitane o semplicemente esuli da un mondo non amato (per chi volesse approfondire consiglierei il libretto: Dagli Appennini a Piazza Navona, Equilibri Stampa alternativa - da tempo esaurito e introvabile). Tra cui, è bene dirlo, son forse io l'ultimo arrivato.
Ciò non toglie che ci sia una buona percentuale di nativi, a salvare l'accento e l'autenticità locale. Tra tutti ci sono alcuni musicisti esperti, talenti canori, un valido ricercatore di musica popolare, che ha girato in lungo e in largo le montagne del Mugello e del Casentino, ed elementi della più pura tradizione orale (chi ha imparato i canti in famiglia).
Non mancano figure invece di diversa origine, che però si armonizzano perfettamente nel gruppo (per esempio, qualcuno si chiederà cosa ci fa un simile ensemble un guitarron messicano? Fa la parte del bassetto, risponde il filologo...).



Insomma, il 5 maggio si è replicata l'uscita (per tutto il mese di maggio ci sono appuntamenti nelle varie frazioni e paesi limitrofi), a Corella. Siamo andati a salutare una casa di ragazzi, arrivati da poco e che stanno sistemando una bella colonica sul fianco della collina, poi da Marina e Franco (anche loro hanno fatto a parte della banda), e poi al circolino (Arci, Acli, non so più).
Ogni volta che si arriva sull'aia un cantore fa un'ottava di saluto e chiede il permesso di cantare. Accordato il permesso, si fanno un paio di canti augurali (il maggio vero e proprio, forse qualcuno ricorda quello rifatto da Riccardo Tesi, con Bandaitaliana), utili a ribadire il proprio desiderio di appartenenza culturale al mondo agrario e alla campagna più in genere (non è poco, rifletto ora immaginando il giorno in cui capitasse a me, che una banda di maggianti si fermasse davanti a casa mia, chiedendo il permesso di cantare). È uno scambio semplice, ma che sancisce da un lato l'appartenenza al territorio molto più di tanti certificati che tutti ahimé ben conosciamo, e dall'altro la conoscenza diretta in loco - in questa maniera si scopre per esempio: la Marta è la vicina di Marina e Franco! Non la vedevo da anni, e da 30 km di distanza, e ora eccola lì, ora pure con figliola e marito!
Se poi capita di incontrare gli anziani - come al circolino - è commuovente (per loro ma anche per noi) vedere con quanto entusiasmo rivivono momenti della loro gioventù passata; momenti basati su cose apparentemente semplici, fatti di canzoni, di giri di walzer o mazurke, di sguardi e cenni, che però nascondono, a noi che non la sappiamo, tutta una trama intessuta di un vissuto diverso, altrettanto e anzi certamente più profondo del presente (ci vol poho), in cui cosa era legata a cosa, tempo a tempo, persona a persona. E se avete letto Sacks sapete come funziona la memoria, come si costruisce la nostra mente e la coscenza stessa, la rete neuronale, le sinapsi: le musiche ascoltate da giovani e quelle emozioni sono le ultime a sparire. Anche se stanno riposte in angoli bui e poco frequentati sono loro che ci hanno formati, insieme ai grilli le lucciole (che tra poco arrivano, qui a MO!) e le cicale, e sono loro, queste sinapsi trascurate, che ci intristiscono se non prendono mai aria (il discorso sarebbe lungo, ma vale la pena di affrontarlo, ricercando la connessione col proprio passato).


E poi: quando si è finito di magnare e bere, si fa ancora un canto di commiato e ci si rimette per strada - e al gruppo si aggiungono gli abitanti di ogni casa - meglio se a piedi, suonando una quadriglia o un valzerino - godendo dei colori del tramonto, dell'ombre dell'imbrunire. Bisogna suonare camminando, il gruppo si sfalda e ci distrae a guardare e parlare; si è tutti un po' allegri e bisogna stare attenti a dove si buttano i piedi, ci sono sassi, fossi, erbe bagnate dalla pioggia schivata, si chiacchiera e si ride con sconosciuti che ci si trova a camminare affianco e che entrano nella compagnia, a talento, con battute e lazzi. Un po'  come capitava nelle grandi manifestazioni pacifiche di qualche tempo fa, insomma, è un momento particolare.
I maggiaioli di San Godenzo non si fanno pubblicità, perché quando poi arriva troppa gente, si è visto, non è bello, il rito diventa uno spettacolino - e a chi suona non è davvero questo che importa, anzi, subentra uno stress da prestazione (anche se poi è chiaro che gli applausi piacciono a tutti). Più che uno spettacolo è un rito a misura d'uomo, dei cortili delle case: senza amplificazione, e a portata di voce (finché c'è!). Si impara a riconoscersi, anno dopo anno, e tutti sono soggetti (tornano a esserlo come per incanto).
In conclusione se vi era piaciuto Il tempo dei gitani e in generale il cinema di Kusturiza, o Fellini o certo Bertolucci, Olmi, e tutta una serie di autori letterari, per esempio il Pavese di La luna e i falò, o Pasolini, Celati e Maggiani, potete capire di cosa parlo. Non sono mondi lontani, e non sono morti, anzi. Hanno la pelle dura, e a volte rinascono (come il funerale del Cecco a Castagno d'Andrea), ci sono dappertutto nei paesi, e sono gli stessi dei carnevali, delle feste estive non ancora trasformate in sagra della porchetta. Cercateli, chiedete, li troverete.











domenica 19 febbraio 2012

Bollettino n.33: Ritorno a casa



La funzione dell'inverno, anche per la società degli uomini, era mettere alla prova la vita. Ce ne eravamo dimenticati. Comprimerla e stressarla. Poi, se va bene, rinasce.

Che vuol dire? Si capisce quando si torna a casa in pieno inverno, dopo quasi due mesi di assenza. Si torna e ci si ritrova senz'acqua, con la casa a tre gradi e un tubino dell'acqua rotto dal gelo. È lì che ti voglio. Bisogna rimboccarsi le maniche e darsi da fare, altrimenti non ne vieni a capo.
Tutto quello che tocchi è gelido, il divano, le sedie... ma senz'acqua, le cose cambiano davvero. Quelle più elementari: pulire il tavolo di marmo dalle briciole, senz'acqua non è la stessa cosa. Alla fine ci passi la mano sopra, deve andarti bene così, ma non è pulito, non quel pulito cui sei abituato (e già io la spugnetta non la intrido di detersivi). Eppure. Ecco allora che si riflette sul pulito. Non ti lavi. Se devi puoi sciacquarti con la neve (finché si può: no grazie), fare i tuoi bisogni all'aperto, lo spazio non manca. Ma non ti lavi.
Metti la maglia di lana, e poi ti chiedi: quante ne ho, quanto posso cambiarmi senza lavare i panni?
L'acqua non c'è. Stanotte scendeva dalle gronde, ma quando smette di piovere finisce. Stamattina, quindi niente scorta. La neve è sporca, vecchia di più di una settimana: c'è sopra uno strato di polvere, rametti, qua e là tracce di escrementi dei vari selvatici. Berla? Meglio di no. Per cucinare scegliere bene il punto, togliere la parte sopra e poi filtrarla e bollirla. Un pentolone pieno di neve fa un litro d'acqua. Come gli alpinisti in quota. Come nel deserto. E intanto, mentre passa la giornata a fare queste cose che nella "vita normale" non capitano, ma che pure un tempo costituivano la norma dell'inverno per l'uomo, uno pensa.
L'inverno era, nella sua funzione storica, un esercizio alla sopravvivenza. Non teorico, pratico. Non una palestra, una prova sul campo, sotto tiro del nemico. Non uno scherzo, bastava un raffreddore. Il rischio era lì, mentre oggi, per i figli della città e del benessere, bisogna buttarsi sulle corse in macchina, gli sport estremi, le vacanze suicidali, per rischiare qualcosa. 
L'inverno però, come lotta, era più dura: durava mesi, non si poteva arrendersi e consegnarsi al nemico. L'inverno è un generale che non prende prigionieri. Per questo mi fanno riflettere tutte queste emergenze neve dell'Appennino. Anch'io ho amici, vicini, che vivono di là dal crinale dove s'è abbattuta la nevicata più forte, che sono rimasti isolati, con due, tre metri di neve. Non hanno chiesto nessun intervento della Protezione Civile. Quando arriva l'inverno si muniscono (munio, verbo che imparai alle medie, traducendo il De bello gallico di Cesare, munizioni, munizioni da bocca diceva mio nonno, che era stato negli alpini a fare l'ultimo scampolo della Grande guerra, e poi tutti i raduni annuali, locali, fino a che ha potuto). Cibo, foraggio per le bestie, legna per il fuoco, le medicine essenziali. Quando ero ragazzo e andavo a Devero col Mozzati, mi raccontava che lì, a 1600 m, d'inverno restavano in due, il Fattorini, che annegava la solitudine dei metri di neve nella piana dando fondo a bottiglioni di rosso, e l'Angelo, che gestiva il rifugio del CAI - finché non lo mandarono via, perché molestò pericolosamente una ragazza che era salita da lui fuori stagione per studiare in tranquillo isolamento. Shining: l'inverno può uccidere anche l'intelligenza, se ricordate la faccia di Nicholson nella scena finale (tra l'altro: nel bambino che falsificando le tracce svia il padre che vuole ucciderlo nel labirinto, c'è tutto un compendio di mitologia). Ecco, questi amici se ne restano tranquilli un mese isolati, forse anche di più, ed Elisa quest'anno è pure incinta (e non manca molto, credo!). Che tipa è? L'anno scorso, mi raccontava, tornava a casa di notte con il pickup, e c'era neve abbondante, a metà del bosco (7km senza una casa) ha trovato una pianta caduta in mezzo alla strada...
Insomma storie di neve e di piccoli eroismi di sopravvivenza qui è pieno, non è roba da tv e nemmeno da giornali; se ne parla tra di noi, si ammira, certo, ma sono le piccole battaglie di tutti i giorni, ognuno le sue. Bisogna stare attenti a non fare cazzate, dosarsi le munizioni, anche gli aiuti non possono sempre cavarti d'impiccio. Vedere e prevedere, aprire gli occhi. Giù, nel mondo tecnologico, queste misure si sono perse, e ci si impalla. Non dico che non si debba aiutare chi chiede aiuto, per nulla. Ma come dice un altro amico di qua, "belin, sei in montagna, che d'inverno nevichi è il minimo che ti devi aspettare, no?". Appunto: in che mondo vivi? In montagna o nella televisione? Nella tecnologia o nell'inverno? E se perdi il telefonino sei fatto? A questo vuoi affidare la tua vita?




Io la nevicata l'ho persa, sono rimasto a Milano per terminare un lavoro al calduccio e per festeggiare la madre che ha aggirato felicemente la boa degli 80. Quella di Elena, di madre, invece un paio di settimane prima ha passato i cento. Le mamme avanzano (i padri sono per lo più dispersi, con qualche valida eccezione), sembra quasi che restino solo loro. Alla fine dell'eroismo maschile (che è strafinito, ormai non c'è manco più bisogno di dirlo). Per combinazione leggevo l'ultimo della Pariani ("La valle delle donne lupo", che poi lei rivela essere la Formazza) che racconta la storia di una vecchia montagnina, da lei intervistata col magnetofono negli anni settanta. Donne di un tempo, testimonianze orali, mondi che scompaiono. Davvero scompaiono e davvero mondi, ricchi e complessi che oggi facciamo fatica anche a immaginarli - o ricordarli: quasi non avessi conosciuto bene mio nonno e sua sorella, Sep' e 'Tzina,  e visto quotidianamente i vecchi più vecchi e meno agiati di loro, quelli nati nell'ottocento, le donne vestite di nero - sempre, e chissà quanti erano gli strati di quei vestiti sformati, delle loro gonne a pieghe - con le ciabatte di corda, che puzzavano e puzzavano e puzzavano, anche a tre metri di distanza, in chiesa, al gelo, immerse in una nube invisibile d'odore di lana infeltrita dal sudore. Di età indefinibile, i capelli raccolti sulla nuca, con la pelle lisciata dal vento e dal freddo, le mani lucide, per il lavoro in stalla (c'erano ancora le stalle in paese, e passandoci davanti si doveva stare attenti a saltare da una pietra all'altra del vicolo). Parole oscure come l'inverno. Strame, stram, si chiamava.
Ora l'inverno è sconfitto dal riscaldamento che si accende con un dito (finché dura, abbiamo letto e visto "La strada", no?). La stufa, anche la mia tecnologica, richiede almeno un quarto d'ora di attenzioni - ma poi riscalda tutta la casa. La tecnologia ci aiuta, l'ho imparato quando stavo in Germania, e credo sinceramente sia stato quello a sviluppare la tecnica (coi suoi abusi) e la tecnologia: la guerra con l'inverno. Scaldavo l'appartamento col carbone, anche gli appartamenti avevano, per me italiano, un riscaldamento con qualcosa di industriale. Mentre al nostro sud nemmeno esistevano i termosifoni. Altro che progresso, non ce n'er bisogno. Arance e mandorlini - e freddo cane, quando arrivava. Tuttavia, appunto, oggi che la tecnologia ha stravinto, e i padri straperso, ogni tanto ricadiamo ancora nell'inverno. Quando arriva l'emergenza, salta un tubo, e restiamo senz'acqua. 
Allora si rimette in moto un mondo diverso, goccia a goccia. Il pavimento resta sporco, con le tracce di fango degli scarponi e chissà quanto durerà ancora. Certo scrivo al computer (la luce non manca per fortuna), ma qualcuno ha mai sostenuto che le due cose non possano convivere? Il computer non scalda  e non lava. Tutto può stare con tutto, ma nulla sparisce, per quanto, con desiderio infantile, non lo si voglia vedere. 
Nessuno è più forte dell'inverno. Ecco allora, forse, da dove altro si può attingere per ricercare un senso del sacro (quel qualcosa cui è necessario credere per dare un senso alle cose) - nel senso del timore, del riprender le misure (ricommisurarsi). Da non dimenticare, quando verrà la primavera, l'esplosione del ritorno alla vita, il carnevale. Sabato prossimo a Castagno d'Andrea rifanno il Cecco, un antico rito tradizionale di celebrazione della morte dell'inverno, gioiosa anticamera della rinascita - scenetta, teatrino, vino musiche e canti. Credo che il metro e mezzo di neve non ancora del tutto disciolto darà un contributo non indifferente... l'ultimo alito gelido dell'Inverno della Montagna. L'ultimo ruggito, ma ormai è finita! Del resto lo diceva anche Padre Adam: quando l'inverno è più rigido per le api la ricrescita primaverile è più forte. C'è più voglia. È la Natura. Eccola, che bussa alla porta.





La gatta è sempre lei, la capostipite. L'orecchio si è piegato all'indietro, da un annetto. Ha preso un'espressione arcigna, da vecchia, no?