lunedì 24 novembre 2008

Bollettino 13 - Numero speciale: L'Albania I


Cari tutti, stavolta il bollettino esce - a parte il cronico ritardo – in edizione speciale, dall’Albania. Massì, sono venuto qui a trovare Chiara… naturalmente avrei da dire anche su MO, ma visto che in questi ultimi mesi sono più le cose che mi succedono qui, in questa trasferta ormai agli sgoccioli, mi sembra più giusto parlarvi di quello che ho davanti agli occhi, che è spettacolo non da poco, e in qualche maniera, ora, pensandoci, lo trovo anche consono al bollettino, essendo Tirana una sorta di eremitaggio, lontano dai clamori della cronaca, ormai interessata soltanto a seguire balletti di dubbio gusto con ballerine e cotillons vari (basti così). Albania, terra di montagne, pianure acqutrinose, mare dirupato e pastori, segregata dal resto del mondo fino a 18 anni fa, prima da un’economia pastorale e poi dalla dittatura più feroce del comunismo reale, pure filomaoista. Da dopo allora, dagli sbarchi di Brindisi, moltissimo è cambiato, questo lo vedi quando arrivi, la città è invasa di improbabili palazzoni ultramoderni, negozi, traffico caotico e gente che arriva qui da tutto il paese. A Tirana l’aria è inquinatissima, probabilmente per la cattiva qualità del combustibile, oltre che per la cilindrata spropositata dei mezzi (mai visto così tanti suv in vita mia), e tuttavia la respiro con un senso di freschezza, di curiosità. Certo, i marciapiedi fanno schifo – bisognerebbe camminare con gli occhi incollati a terra per evitare buche, sconnessure, inciampi in oggetti vari, detriti, rifiuti, macerie che ricordano l’Italia più sudicia di anni ormai dimenticati. Che dire? Qui tutto è improvvisato, impermanente, precario. Negli ultimi due giorni l’ondata di freddo ha fatto saltare la luce almeno 4 volte perché quasi tutti gli impianti di riscaldamento sono elettrici, del tipo condizionatore-scambiatore di calore (che tra l’altro costano tantissimo sia come installazione che come gestione!), quindi immagino per eccesso di consumo (e quando in casa salta l’elettricità, come ora, spariscono luce, riscaldamento e anche l’acqua). Ma ecco che si spiega a cosa servono tutti quegli enormi generatori da cantiere che affollano i marciapiedi della città, col blackout tutti si mettono in funzione, macchine diesel della stazza di un cassettone, minimo, producendo un frastuono e un olezzo che pare di essere ripiombati nell’era del carbone, tra fumi neri e vibrazioni inquietanti. La vita continua, anche nell’internetshop sottocasa, una 40ina di posti, ancora in stile ultramoderno, vetri acidati e acciaio, ma che importa, aspetti quel tot e riaccendi il computer, nulla qui deve avvenire subito, c’è sempre una seconda chance, anche attraversando la strada più trafficata, sembra una giungla ma poi nessuno ti mette sotto. La “città dei generatori” l’ho chiamata, e infatti i suoi grattacieli colorati in miniatura, gli alberi della luce con centinaia di fili che si spargono a raggera sopra la tua testa in mille direzioni, ricordano un po’ uno scenario alla Metropolis – puro caso, venendo qui, per il viaggio in aereo mi sono portato dietro Time Machine di H.G.Wells. A testimonianza vorrei riuscire ad allegare mille foto, quante ne sto scattando a ogni passo, per congelare il ricordo di un volto particolare (ma qui i volti sono tutti particolari), una palazzina di cinque piani di mattoni nudi, con il tetto costellato di antenne satellitari e serbatoi dell’acqua, una vecchia casa a un piano di mattoni bianchi e tetto a tegole, che verrà spazzata via, schiacciata dalla speculazione edilizia nel giro di pochi anni, se non di mesi, una palazzina ultramoderna di vetri a specchio, che ti ferisce lo sguardo con i suoi assurdi angoli acuti. Sembra una DDR vent’anni dopo, se fosse sopravvissuta senza testa e senza cuore, semplicemente come torso che si dibatte su se stesso, aprendo tutte le porte ai vizi dell’occiriente, spazzando via come acqua sporca tutto quello che aveva.
Tirana è un farwest dietro l’angolo, ormai le merci dell’occiriente ci sono arrivate tutte, traboccano da mille negozietti improvvisati, da mille baracchette e angoli di strada dove la gente, venditori più o meno pezzenti ma sempre dignitosi, allineano la loro merce sfruttando le piastrelle del selciato, il muretto delle recinzioni – come quella della casa di Hoxha-il dittatore folle, che ha cosparso il paese mi dicono di 300 000 bunker grandi come un cassonetto, ne ho viste diverse centinaia, casa sua dicevo, in centro, nel bloko, il quartiere dove ancora oggi ci sono uffici internazionali e amministrativi, è una specie di villino anni ’60, cemento, mattoni, travertino e il mitico alluminio anodizzato, solo molto più grande, grande come, penso, il ranch di qualche riccone texano.
Tirana è un profluvio di contraddizioni, non puoi girare gli occhi senza vederne a manciate, in tabaccheria vendono le vecchie cartine senza colla a mazzetti a 3 lek a pacchetto, circa 0,02 € (e arrotondo per eccesso), di fianco ai migliori sigari cohiba (in vetrinetta umettata, i prezzi li conosciamo, sono praticamente più stabili del dollaro). Tirana è cosparsa di caffè, alcuni elegantissimi, con luci soffuse, il che vuol dire tipo bordello anni ’80, divanetti a zebre e sedie rosso fuoco, anche se ora è arrivato il rattan, tipo bar da aperitivi milanese, con questi divanetti rettangolari bianchi all’aperto, a cui sono seduti migliaia di uomini, molte meno donne, molti ragazzi, ma tutti vestiti alla moda tragicamente albanese di qua, e tutti con le sigarette e un cellulare extrapiatto, ma bevono un caffè, o al massimo una sprite, probabilmente non possono permettersi di più. Dovrei parlarvi anche delle villette, o della campagna, che ho attraversato in macchina, e del mare (15 giorni fa ho fatto dei bagni strepitosi!), ma non c’è spazio per questo: altro che un reportage, ci vorrebbe un libro intero. E davvero, avessi capacità tempo e voglia, e avessi imparato a usare decentemente la macchina fotografica, ci sarebbero da fare foto da urlo.
L’avrete capito insomma, devo dire che in fin dei conti gli albanesi mi piacciono, con quelle facce da contadini, l’aria rustica che resiste anche al volante delle X5 o delle Range Rover superaccessoriate, probabilmente sono appena stati in campagna dai parenti a mangiare cofanate di costolette di capra e patate fritte (anche perché non c’è molto da fare, qui). Mi sembra che non abbiano ancora interiorizzato quella supponenza e falsità, quell’ignavia colpevole – e l’ignavia è sempre colpevole – quel merdume insomma che invece vedo spalmato a piene mani ovunque in Italia. Certo, sono corrotti, ma almeno lo ammettono. Qui si fa così e punto, non credo che nessuno si faccia illusioni, o si premuri si spalmare di vaselina le pagine dei giornali, o i telegionali, come da noi, dove ormai quella classe di leccaculo prezzolati che si sono intrufolati ovunque tiene per le palle anche quei poveretti che vorrebbero reagire ma non sanno come (me incluso, incluso!). Qui le periferie, i centri, tutto il paesaggio umano è un disastro, polveroso, brutto e inelegante, i centro commerciali fanno urlare per lo squallore, eppure sono pieni di gente che ci cerca la propria rivalsa. Tutto, ricco o povero, senza distinzione, in Albania è per metà un cantiere e per metà una discarica, e loro ci si muovono attraverso, con la naturalezza del popolo che è ancora desideroso di qualcosa - anche se l’obiettivo, quello a cui tendono realmente, è meglio non guardarlo nemmeno. E mi dico: e perché mai dovrebbero loro evitare gli errori che noi, di secoli più civili, non abbiamo evitato, perché dovrebbero riuscire dove noi abbiamo fallito. Per ora scalano l’onda dell’economia in crescita, devastano il paese e svendono per pochi euro tutti i piccoli tesori familiari custoditi per generazioni, una culla, un cassettone dipinto, le fasce, i coloratissimi mantelli, i gioielli di argento vecchio. Si vendono la casa e le terre, la speculazione avanza. Per strada ci si imbatte in trovate sproporzionate ed esilaranti, distributori che sembrano templi egizi, power drinks dal nome “Cocaine”. Verrebbe voglia di aiutarli, per scampare alla propria ingenuità, ma come, visto che ci sono già, attivati e operativi, tutti i canali e gli interessi, i traffici e i politici dell’occiriente a darsi da fare a piene mani? Qui se c’è uno spazio è già pieno di visite di sottosegretari, presidenti, imprenditori e funzionari, anche investitori e papponi. Non ci sono i turisti, perché il paese non sa ancora offrire loro nulla di decente, nemmeno le strade. Ma aspettate anche solo l’estate prossima, le cose inizieranno a cambiare. E perché poi non dovrebbero farcela, invece, dimostrandosi magari migliori di noi? Chi siamo noi per dirlo? In fondo il mondo è fatto così, e non solo la Cina: nel bene e nel male, c’è chi scende e c’è chi sale. Oh, vanità!

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