giovedì 31 dicembre 2020

L'ultima luna del 2020


L’abbiamo passata anche questa, stanotte dominava un cielo per lo più sgombro di nubi, dopo lunghe giornate d’acqua (e neve sulle montagne) stamattina è tornato il sole – fumi salgono da prati e boschi, e presto ci siamo ritrovati dentro una fitta nebbia dorata, dentro a quel rado cuore pulsante da cui si levano le nuvole in formazione: al calore del sole si gonfiano, ascendendo dai prati e dagli alberi e poi, quando son mature, come una mongolfiera gonfiata dal fuoco si staccano e vanno, partono, salpano per l’oceano ininterrotto del cielo, navigano per l’aria verso il Mugello, la Sieve, Firenze, e chissà dove andranno a disfarsi.

Stamane dicevo, mentre dalla credenza prendevo la scatola di biscotti ho rivisto la cazza, pendere in un angolo della credenza. Siccome in questi giorni, sulla scorta di René Guenon (Il Regno della quantità, Adelphi) che da tempo studio e m’ispira, sto riflettendo sulla vita e il canto degli oggetti (se sono strumenti musicali fanno musica, se di altro tipo fanno altri canti, come canta il martello sull’incudine o canta la falce nel prato), ecco ricomparire questo oggetto per me massimamente numinoso.

Guardatelo bene,  ingrandite l’immagine, ne vale la pena. È un oggetto che chi lo usa guarda molto da vicino, da vicinissimo. Lo impugna e lo bacia, addirittura, suggendone con cautela e prudenza il contenuto che, per quanto io sappia e in lunghi anni abbia osservato, sempre e soltanto è stato acqua, pura e limpida acqua di fonte e fontana.

 


Per me è un oggetto sacro quanto lo è il calice della messa per un cristiano. Da questa mestola (perché questo vuol dire “cazza” in dialetto banniese) ha bevuto per molti decenni l’intera schiatta dei Volpone Tosetti (da cui anch’io discendo, anche se porto un nome diverso) e amici e conoscenti che venivano in visita a Soi (topografica: "Soi di Fuori"). Per non so quanti anni: perché io, finché c’è stata la casa, l’ho sempre vista lì e sembrava già allora identica a oggi. Avrà più di cent’anni (mia madre, appositamente interpellata ora al telefono dice che “l’ha sempre vista, fin da bambina”, e siccome sta per compiere 89 anni…).  “Conoscendo i miei vecchi” so quanto fossero restii a sostituire gli oggetti d’uso quand’anche fossero rotti: ogni cosa finché possibile si riparava, prima di sostituirla con altro che certamente non sarebbe stato all’altezza (e già ecco nelle mie parole risuona un secondo libro, W. Schmidbauer, Die Kunst der Riparatur, Ekon Verlag, 2020). Insomma, una versione “applicata agli oggetti” del mito dell’età dell’oro: il primo, forgiato da un dio in epoca primordiale, è sempre il migliore.
Si beveva sporti in avanti (vedi foto sotto) accostando cautamente le labbra tirate (troppo impeto portava a bagnarsi il petto), ruotandola leggermente mano a mano che si beveva, vuotandola (è parecchio capiente, ho misurato ora per la prima volta la sua capacità in 400 ml), oppure scagliando con un gesto deciso e semicircolare l'acqua avanzata fuori dalla porta di casa, verso i gradini di pietra e il viottolo di terra, erba e sassi che scendeva nel pratone. Poi si riappendeva al chiodo senza sciacquarla, qualche goccia ancora s'infrangeva sul pavimento antico di legno. Solo acqua, mai sapone o altro. Altri gesti, altri tempi, altri riti e canti.

La mestola stava appesa dietro la porta d’ingresso della casa – una porta bassa e massiccia, di larice, come gli stipiti stessi della porta, da cui si entrava nella cucina della baita costruita con pietra e legno in cui mio nonno si rifugiava – e insieme a lui costringeva noi a rifugiarci – ogni voltache gli era possibile (ora mentre scrivo riconosco in lui quell’istinto del montanaro, che colpisce così tante persone, di trovare una casupola sperduta in qualche luogo e trasformarla in eremitaggio - anche su questo ragiono da tempo) in un alpeggio a mezz’ora di cammino dal paese. Una frazione dove allora non arrivava strada, luce, acqua e tutto quello che non si poteva someggiare a spalla o a dorso di mulo. Le cose più moderne nella baita di Soi erano il fornelletto d'alluminio a META (combustibile solido ancora oggi in uso tra gli alpinisti – il nonno aveva fatto la Prima Guerra Mondiale, e il suo armamentario tecnologico era più o meno quello), la lampada e il fornelletto con bomboletta della Camping Gaz, che venerate come modernità stridevano in quel contesto ombroso e levigato dagli anni. Il resto era davvero antico (quando la casa fu venduta, e poi bruciata, ne sottrassi e conservai alcuni reperti, oltre alla cazza piatti, qualche posata di legno, e simili).

Appena arrivati si apriva la porta (a me pareva la porta laterale d’un castello di pietra), con la grossa chiave di ferro lavorato e levigato,  con la “mappa” (lo dice il Devoto Oli, ho scoperto ora che si chiama così) ritorta a forma di S come quelle che compaiono nel simbolo del Vaticano. Chissà quanti anni aveva quella chiave, con la sua serratura (le serrature erano preziosissime, a casa Michina mio nonno ne conservava una grande scatola piena).

Aperta la porta il nonno subito ci mandava a prendere l’acqua, mentre lui apriva gli scuri della finestra e la porta sulla lobbia. Per andare, dovevamo prendere sulla destra dell’ingresso, da uno scaffale di legno un secchio e un secchiello di ferro zincato, riposti rovesciati, con cui si andava quindi alla fontana (o poi allo scolmatore dell’acquedotto) a prendere l’acqua. Riempirli per noi piccoletti (per rendere visivamente l'idea mi vengono in mente quelle foto di bimbi al lavoro - ancora anche per noi non c'era l'idea che i bimbi non devono fare sforzi, e anzi era un continuo metterci e mettersi alla prova per vedere se "ce la si fa" o no) era già un impegno, e la vera scommessa era riportarli a casa colmi il più possibile senza infradiciarsi i piedi e le scarpe. Si faceva una tirata sola, oppure una o due "posse" (pause).  Sistemato il secchio grande (pesante, con due mani!) su uno sgabello basso e quello piccolino sul ripiano più alto – credo della capacità di circa tre/cinque litri, finalmente allora s’impugnava la cazza, che era rimasta lì, per mesi nella penombra, appesa al chiodo, la s’immergeva e s’attingeva l’acqua necessaria per bere, per placare la sete o per la bisogna. Non esisteva polvere a Soi, e ragnatele poche, e solo alle finestre.

Quanta di quell’acqua ho bevuto, e com’era sempre fresca, e come dissetava. Immergevo il volto dentro la sua pancia capiente e mi specchiavo, e bevevo. Quell’acqua sapeva leggermente di ferro, forse era più l’odore, ma era comunque gradevolissimo, come certe acque ferrose delle montagne… In molti luoghi, nelle Alpi ma penso anche altrove visto che tutto il mondo è paese, presso fonti e fontane abitualmente il viandante trovava un bicchiere, capovolto, di vetro (di plastica chissà perché non ne ho mai visti), una tazza di ferro smaltato, a volte legato con un cordino, se doveva stare appeso. Si sciacquava sommariamente, si beveva, si risciacquava, libando l'acqua a terra (le libagioni, ovvero le offerte liquide, vengono versate "alla Terra"). La cazza aveva l’uncino alla fine del suo lungo manico, per appenderla al chiodo, e ci otrvo grandi affinità con la “broca” dei contadini toscani, appesa dietro la porta, di cui parla Schimdbauer in La casa in Toscana (Montaonda, 2020). Quei chiodi! Quei legni, quei metalli! Pura poesia giapponese (vi sembro esagerare? Volete capire l’estetica giapponese? Terzo viene allora Tanizaki, Libro d’ombra, di cui Amazon offre in anteprima la bella presentazione dell’82 di Giovanni Mariotti, un libro fondamentale per chi s’interroga sulla civiltà e il consumo).

Come si vede è ricavata da un pezzo di ferro, non so come. Ha davvero un aspetto antico, pieno d’irregolarità, nel manico e nella tazza. Battuta a martello? Allora ho chiesto all’amico Sven, che tra i suoi mille mestieri ha fatto per tanti anni il fabbro, e ha una preziosa conoscenza dei metalli (è stato anche a Bannio). Gli ho mandato la foto su whatsapp: “Mi sai dire di che materiale è fatta questa mestola per bere?” Sembra ferro, ha risposto (lo interrogherò meglio quando verrà a trovarmi l'anno nuovo).

 


Visto che l’ho conservata (la custodisco, non la posseggo) ancora vi posso bere, lo faccio, e la sensazione che ne ho è rivitalizzante (cogliete pure l’ironia e il bisticcio dei cognomi "Vitalizza il Volpone che è in me"), mi rianima come un elisir (e se l’elisir di lunga vita non fosse nel liquido ma nel boccale, non in ciò che si ingerisce ma nell’atto magico di compierlo? Jodorowski, Psicomagia, credo approverebbe); meglio che da qualsiasi calice o boccale. Perché cos’è il Sacro Graal? La tazza in cui venne raccolto il sangue vivo di Cristo, se non ricordo male quello colato dal costato, dove lo ferì il centurione (o chi era?). Lo stesso sangue che i credenti bevono nell’eucarestia. Vino, rosso, come nell’ultima cena, che per merito della transustanziazione (una delle parole più assurde e belle della teologia cattolica) si trasforma in sangue vivo (viva San Gennaro!), vino che trasmette la charis, la grazia, quel che a tutti noi manca; un liquor insomma che altro non è se non “l’acqua della vita”. E un po’ per tutti i popoli, e per le tradizioni, davvero esiste un’acqua della vita (ricordo l’omonima fiaba dei Grimm (Das Wasser des Lebens, cfr. wiki, che mi fece conoscere il compianto amico Horst Kirchmaier, teologo). Lo stesso (sangue di un animale sacrificato) che bevono le anime dei morti nella nekyia omerica (Od., XI), quando Ulisse scende nel regno dei morti e per conoscere il suo destino sacrifica un animale (una capra?): ed ecco che le anime s’affollano per berne il sangue e recuperare così, per breve tratto, la memoria.

E cos’è appunto la cazza, se non il mio Graal? Bevendovi acqua limpida (a Montaonda la porta l’ecquedotto, ma oggi è davvero buona!) ecco che ricordo, e con le mie parole faccio ricordare. A mia madre, a cui con la telefonata riaccendo il ricordo di quell’oggetto magico, a mia sorella e fratello, cui posto la foto, a me, che scrivendo ripercorro e rivivo ora sensazioni da tempo dimenticate (dopo tanti anni ho bevuto dalla cazza) e a tutti quelli che leggeranno avendovi bevuto (un paio di persone?) oppure “con animo puro”, che sicuramente sentiranno se non il ricordo dell'acqua di Soi (altro che Lourdes) il brivido dei secoli, o almeno dei loro/miei decenni…

Ecco allora un’altra promessa, a chi verrà a Montaonda, se ne farà richiesta, prometto, offrirò di bere dalla cazza, ben più di un sorso d'acqua, ma l’acqua della vita (quella di ciascuno che beve e che mentre beve sente scorrere dentro di sé). Ma per berne bisogna essere assetati, bisogna chiedere da bere.E la cazza è molto capiente, suggerne una misura piena ristora una gran sete...

Bene, bravo, bel pippone, direte. Ma che c’entra la luna?

È qui che arriva il bello della storia, la luna nella cazza. Già ho detto della festosità del gesto di prenderla per bere, Immergendosi sopra la sua scorza misteriosa, butterata e splendente. Come non paragonarla oggi alla superficie della luna? E girandola poi, da un verso all’altro, è giocare a pensare alla cazza vuota e alla cazza piena, che è una e all’interno concava e all’esterno convessa. Appare come un profondo cratere, o la pancia enorme della luna stessa… e continuando il gioco la giro, e gioco con l’ombra a ricercarne le fasi. Vado sul sito astrale www.spaceweatherlive.com/it/calendario-delle-fasi-lunari.html, e scopro che la luna dopo il primo quarto si chiama anche gibbosa, per cui due giorni fa, 29 dicembre, era al 95% (gibbosa), mentre il 24, la sera di Natale, era al primo quarto (che è il 60%!), e oggi, che inizia la discesa verso il nuovo anno, sarà al 99% e poi via via sempre di meno. Che sparisca questa luna cupa, che sparisca quest’anno di lutti e miserie!



(Non ch’io voglia attribuire agli astri le nostre calamità, so bene come siano tutte originate dal comportamento empio dell’uomo, che da tempo ha ormai perso l’uso di rispettare  le leggi naturali. Ci siamo messi a costruire torri più alte del cielo, a deviare fiumi, a  prosciugare i mari, a imbrigliare le forze immani che ora si ribellano e ci danno il ben servito. E invece di vergognarci per tutte le miserie (scorie, scarti, ecatombi, malanni) che continuamente introduciamo nel cosmo. Un tempo, “quando c’era rispetto”, si sarebbe parlato di maledizione, di vendetta e punizione divina (anche il dio cristiano non era misericordioso, mandava diluvi, piaghe, e simili, come da narrazioni bibliche e postbibliche, perché senza andare troppo lontano ricordiamo la posizione di Woytila sull’AIDS…).

  


Insomma sono i due lati della luna, la luna misteriosa e amica dei poeti, e la luna malefica delle maledizioni… ma tutto passa e tutto se ne va, tranne la vita che resterà.

Ora la cazza è qui, appesa alla credenza, e continuerà a ristorare “gli assetati”. Più di così non può certo fare, e nemmeno io. Non finirà in nessun museo e, dopo questa apparizione per pochi, tornerà a fare il suo mestiere, perché prendere l’acqua dal secchio per bere è il suo modo di cantare (foss'io uno strumento, scrivere è il mio canto). Ora devo trovare un secchio degno di lei, chissà che non ritrovi quello di Soi, sperduto in qualche cantone, a Bannio…(la cazza è stata fotografata con il cellulare, senza flash nella luce del mattino del 31.12.2020).

lunedì 2 novembre 2020

Il mio giorno dei morti

 

Il mio giorno dei morti

(un’elegia escatologica in opposizione ad Halloween)

Il mio giorno dei morti, 2 di novembre, è un giorno piccolo che non vale niente, umido e freddo, lento e sonnolento. Non solo a Montaonda, in tutt’Europa spesso piove o c’è nebbia e comunque dappertutto dominano umidità fredda e aria di decomposizione, foglie gialle che volano ovunque, campagna o città. A bordo strada o sui prati, si rialzano alle folate di vento, cadono negli stagni (al ponte delle Sirenette!), a ogni macchina che passa s’agitano di qua e là con un guizzo di vita, finché non s’impiastrano di fango. Il terreno al contrario è molle e pesante, s’apre verso il basso, il passo sprofonda nella mota. Anche i colori sono penitenziali: il verde mesto e cupo, ancorché vivo, solo a tratti si fa fastidiosamente fulgente a promessa di una primavera remota, mentre gialli e marroni la fanno da padrone, s’incendiano in un’ultima vampata di rosso (le foglie del cachi, e anche i ciliegi, ho scoperto) prima di ridursi in un bruno che trapasserà nel cuoio e poi nel nero del terriccio.

Quando ero bambino coi miei si andava un anno a Bannio e un anno a Fondra, alternativamente, a trovare i morti in cimitero (cimiteri di montagna, il primo secco di granito, il secondo nero di bronzo e giallo di tigli). Niente di originale, direte. Però scusate no, proprio originale invece, se intendiamo il senso di questa parola, perché i nonni, quel quartetto di persone da cui tutti discendiamo sono l'origine biologica. Da loro vengono i nostri geni, l’ordine e le istruzioni di tutte le nostre cellule, e da loro soltanto (finora). I miei si chiamavano Angela e Mario, Cesarina e Giuseppe. Tra loro ho conosciuto soltanto i maschi, le nonne erano già morte prima che io potessi ricordarle. Orbene questi miei morti, questi nonni, non sono spiriti selvaggi che danzano attorno a una zucca gialla (manco si fosse dentro a Beetle Juice), non turbano i miei sonni ma sonnecchiano ancora nella mia memoria, se ne stanno tranquilli e compunti nelle loro cornici argentate. E di fatto il giorno dei morti sarebbe il giorno in cui almeno una volta l’anno potrei celebrarli e festeggiarli, non ci fosse tutto questo chiasso. Nel silenzio dei cimiteri, spesso luoghi bellissimi ed evocativi, ma anche camminando in un bosco luminoso. Se li penso loro mi vengono incontro, le mie origini, i padri e le madri, la carne viva che ha generato la carne viva che mi ha fatto carne viva. E questo io sono, punto. Questo il peso e il fardello – la discendenza - che porto sulle spalle, voglia rendermene conto o meno. Non sono che l'esito di un organismo che si è riprodotto, un frutto, che però poi per sua scelta non si è riprodotto. Perché? Per scherzare sul darwinismo, potrei rispondere “perché sono sempre i migliori che se ne vanno”. Almeno qualche volta scelgono di farlo – è la mia piccola insinuazione, un'ambizione di rivalsa.

Quand’ero bambino di morti non ne conoscevo. Ho una vaghissima memoria solo della nonna materna, poco più di un’ombra, uno dei primi ricordi, se ne è andata quando avevo quattro anni. Avanzando in età i morti sono diventati di più, i nonni e i prozii, seguendo l’ordine naturale, alcuni meglio conosciuti, meglio capiti, finché è toccato al padre, poi ad altri zii (ne resta ora un numero davvero esiguo); purtroppo ai parenti da un triste giorno in poi s’è aggiunta una schiera più caotica, destinata a crescere e a prendere il sopravvento. Sono le persone che, con mia grande mestizia, colte anzitempo nella mia vita erano entrate come amici e conoscenti. Sicuramente un giorno anche per me (e campare fino a quel punto è speranza legittima) i morti diventeranno più dei vivi: lo vedo da tempo in mia madre, che a quasi 89 anni si dichiara più che pronta al grande salto, e guarda attratta e impaziente più al numero crescente di quelli là che ai pochi e sempre più mal messi che indugiano di qua.

E' quel che ci aspetta, varcare un giorno la soglia ed entrare nel passato. I morti, quelli veri, non vanno in tv o suoi giornali, tra gli altri spauracchi che ci fanno vedere tutti i giorni. Simulacri agitati davanti agli occhi a spaventarci. I morti veri sono tranquilli. E sono soltanto le persone che abbiamo conosciuto, personalmente, quelli di cui abbiamo memoria, in situazioni, risate, litigi, perché sono stati vivi di fianco a noi: quegli altri, e chi li conosce? Famiglia, vicini, amici e colleghi, uno stuolo di anime vive sono i morti, persone scomparse dalla nostra vita e che non potremo più incontrare, diversamente dai fantocci che ritornano continuamente in effige, nei titoli, nei filmati, figurine senza carne.

Sono questi i nostri morti, di cui – all’inizio ferocemente – sentiamo la mancanza, ed è a questo che ci dovrebbe riportare il giorno dei morti. Il loro non-esserci-più. Questa è la nostalgia che non è triste, è semplicemente pensare e rivisitare nella memoria i volti, i fatti, e come il nostro passato, la nostra vita e la vita che ci ha dato vita, che racchiude il bello e il brutto. Un chiaro esempio di quel che toccherà anche a noi, per quanto ci si voglia impuntare inesorabilmente. Ciò che è stato, ore giornate e anni, e così le anime, in una schiera che ogni giorno aumenta e si perde, nei milioni di anni delle vite dei nostri innumerevoli progenitori...

Questo sono i miei morti. A quelli che ho detto poi, nel lavoro che è vivere, ne ho aggiunti molti altri, diversamente conosciuti e amati, attraverso le loro opere, gesta o pensieri, per l’eredità (il fardello) che mi hanno lasciato: Gogol, Baudelaire, Tarkowski, Mozart, Bob Marley, Cezanne... sono i primi che mi vengono in mente tra le migliaia che potrei elencare, e non perché siano tutti dei grandi ma perché ciascuno di loro mi ha lasciato un frammento, un sassolino che mi ha indicato dove volgere un passo del mio cammino. Tra loro c’è una quantità di persone comuni, anche senza nome, anche senza volto, come tante formichine… Tutte, per quel sassolino che mi hanno dato, mi sono state care, e non le potrò più incontrare. La vita è questo, fare incontri che muoiono perché mai si ripetono. La sua unicità è nel prendere e lasciare.

Non c’è tra i miei morti uno stuolo di spiritelli che mi tirano le coperte, né demoni, o zombie, come nel film di Romero, lugubri fantasmi, proiezioni della paura dei vivi, di essere divorati (consumati, distrutti, annientati, era quello il fascino sorprendente del film, il rifiuto delle vittime di... non-morire, ovvero morire davvero - ci sarebbe da riflettere a lungo). No, sono davvero una schiera di persone dai visi comuni, com’è in tante tradizioni e credenze dei popoli del mondo. Sono per me semplicemente le persone che abbiamo incontrato, e che io immagino benevole, spiriti protettori - posto che ci siano... 

I morti immagino che godano di una diversa comprensione delle cose e di quella vasta tolleranza che spesso gli anziani mostrano per le febbri della vita – ben più vicini a quei santi che la religione cattolica celebra il giorno prima. Questi ultimi non sono che un’eletta schiera di morti promossi a eroi pubblici per meriti speciali. Ognuno di noi, atei o credenti, ha i suoi santi: nonni, genitori, amici e tutti quelli a cui riuscirà a pensare, attivando nella propria memoria il ricordo di loro, e quindi (lo diceva Walter Otto parlando dei greci) facendoli tramite sé rivivere. Da loro riceverà in cambio ispirazione e consigli, conforto e aiuto. Sicché i morti vivono sicuramente grazie al nostro pensiero, come i loro geni vivono nelle nostre cellule: e il giorno dei morti a questo serviva, a farli rivivere, a riportarceli e rianimarli (Odissea, canto XI) almeno un poco. Ecco il senso di questa festa un po’ mesta ma che sempre una festa è, in cui si riabbracciano e riallacciano i legami con l’oltretomba, e si ringrazia chi ha dato e lasciato. Ricordo il cimitero di Bannio, nella notte scura dell’inverno incipiente. Mi portavano a vederlo, pieno di una quantità esagerata di lumini, come stelle ma fitti e per terra, tra noi, ci si poteva camminare in mezzo – unica notte dell’anno in cui il cimitero restava aperto. Piccole fiammelle tremolanti nel buio stellato, presagio del ghiaccio in arrivo (sui monti, si sa). Era un invito a pensare che siamo qui, esili come queste fiammelle, ma siamo luce, e siamo; dicevano ti aiuteremo a traversare l’inverno. E anche: non avere paura, la morte è silenzio, non fa male.

Non è tanto il fatto che non credo in Dio. Non sono agnostico per presa di posizione o per ideologia, piuttosto per semplice disanima dei fatti: guardando la vita e il mondo che mi vedo attorno quel Gran Signore non l’ho mai incontrato (quindi se c’è si nasconde proprio bene). Non l’ho mai visto agire (non gli rinfaccio tutto il male, e quel po’ di bene che vedo). Questione di fede, appunto, quel che a me manca. Perché farmene una colpa, buttarmi all’inferno? Così si minacciava, ma ora, dacché si è scoperto che l’inferno è vuoto… Non mi fa proprio nessuna paura: non si può temere ciò in cui non si crede. E se sbaglio, e se quell’essere supremo esiste, sarà sicuramente misericordioso, e invece di giudicarmi (come voleva Platone agitando per fini politici lo spauracchio di Minosse), confido che mi riaccoglierà tra i suoi figli. Perché come tutti avrò vissuto stringendo i denti, e non per merito di un’appartenenza tribale, sancita da riti praticati ormai soltanto da fanatici e superstiziosi, come vorrebbero i tanti loschi che s'affannano a erigere Chiese.

Non sono i morti che mi fanno paura, sono i vivi. Questi mi spaventano ogni giorno di più, e li guardo con disgusto. Quelli che uccidendo (“con le onde…” scriveva CT sui marciapiedi attorno al Castello) e opprimendo credono di poter sfuggire la propria morte. Storia vecchia quanto l’uomo, i tiranni sono pericolosi idioti e malati. Tra i saggi invece: c’è stato chi nella morte vedeva la massima forma di conoscenza. Un pensiero terrificante ma folgorante, proprio come un fulmine che squarciando la notte mette a nudo ogni menzogna: solo chi l’affronta può sperare di vivere in tranquillità. A Montaonda, al mare, in campagna o in città. La morte prima di morire, e poi quel che sarà sarà: i morti con i vivi, quando anche il mio tempo si degnerà di finire.

 

Foto: inizio, tammorra di Raffaele Inserr,a sul davanzale al tramonto (il tamburo è lo strumento dello sciamano, il veicolo che lo guida nel mondo dei morti); qui sopra, lo stesso davanzale.

sabato 15 agosto 2020

La pianta del piede come punto di radicamento bioenergetico (e altri appunti)

(pubblico questo testo - adattandolo a post - un anno dopo averlo scritto. Il libro a cui si riferisce sta per andare in stampa)

Finalmente sto arrivando alla fine della traduzione di Schmidbauer (La casa in Toscana) – non perché sia noioso, tutt'altro, ma perché è un'impresa condotta con calma, per passione, e di un certo impegno – che coincide anche con la fine dell'estate, quella vera. Oggi traduco la sua pagina datata 1.9.1985, ed è il 27 agosto 2019. Se allora io ero uno studentello in ferie alla scoperta della Sicilia, Schmidbauer era già a Vicchio, già da tempo immerso nella ricrescita della selva oscura della sua Privatwildnis, il suo "bosco selvatico privato".

Quel che volevo affrontare ora è un curioso aspetto che a volte accompagna il lavoro del traduttore, che deve sempre interrogarsi sulle parole che usa. Per esempio, ho appena incontrato la parola "agguato" (Schmidbauer dice: "le spine che stanno in agguato tra le morbide foglie della robinia"), e mi chiedo quanto e come noi questa parola la si usi ancora, distanti come siamo dalla vita naturale e dal contesto di caccia in cui è nata. Ad-guatum, potrebbe essere l'etimo, guatare verso (già guatare è una glossa, ovvero un termine introdotto a bella posta in maniera erudita, scomparso dall’uso dell'italiano corrente), "far la posta" - certo non più ad animali, piuttosto penseremmo a delinquenti o a poliziotti contro i delinquenti, possibilmente in un film che stiamo guardando in streaming (forse ancora un giornale, un tiggì?). Questa, diciamolo, è la realtà linguistica di oggi. Quindi: per leggere Schmidbauer bisogna (almeno con le parole, entrare con lui nel bosco. Facile per me, mi basta alzare gli occhi dal computer. Poi trovo: "suola dei piedi" (Fußsohle), che traduco col termine italiano corrispondente, pianta dei piedi. Mi chiedo: forse un tempo si credeva che stessimo davvero "piantati a terra", attraverso i piedi? Che i piedi fossero le nostre radici? Ora la pianta del piede mi sembra più la mappa della riflessologia, dello shiatsu, che ci dice dove soffriamo e dove va applicato il massaggio. E' l'altro senso della parola: piantina, schema, diagramma, che sicuramente deriva dall'immagine dell'albero (non mi do nemmeno la pena di verificare), con le biforcazioni. Che derivi della scolastica o dall'albero genealogico non cambia, si tratta sicuramente di quell'altra pianta che indica l'origine delle cose. 
Certo anche questa ipotesi è suggestiva (non sarò certo il primo a osservarla), ma la precedente, quella della radice, oggi mi sembra esserlo molto di più. Il senso non è proprio chiarissimo (come per esempio è l’analoga metafora morta “gamba del tavolo”, che il linguista chiama morta proprio perché nessuno la vede più). Forse ci dice che, se da un lato siamo nomadi, animali mobili, quando siamo fermi e vogliamo legarci a un posto ci piantiamo, e diventiamo coltivatori che piantano se stessi come fanno con gli alberi? Essere "ben piantati a terra" vuol dire stare ben saldi (saldati, metafora metallurgica?), radicati al suolo. E vale per tutto ciò che è difficile smuovere. Di più: non diciamo anche che "mettiamo radici"? Non è psicolinguistica questa? 
E la bioenergetica di cui Schmidbauer parlava poche pagine prima, riferendo della pratica dell'Erden (Erde è la terra, quindi significa qualcosa tipo "interrarsi") che nel frattempo sono andato a cercare sul Lowen, e nella traduzione italiana viene detta radicamento, non è proprio questo? Di fatto, nel 1975 Lowen diceva: "Allo stato attuale delle conoscenza non siamo in grado di comprendere fino in fondo la connessione energetica fra piedi e terreno. Ma sono certo che questa connessione esiste e so con sicurezza che, quanto più un individuo sente il contatto con il suolo, tanto più può mantenere la propria posizione, tollerare un livello maggiore di carica e affrontare più sensazioni. Per questo il radicamento è un obiettivo primario del lavoro bioenergetico. Ciò significa che la spinta principale del lavoro è verso il basso – è volta dunque a riportare il soggetto nelle gambe e nei piedi» (A. Lowen, Bioenergetica, Economica Feltrinelli, p. 171, corsivo mio). Chiunque abbia fatto una meditazione dinamica ricorderà molto bene le sensazioni e la pratica di cui Lowen sta parlando.

Tornando a me (il traduttore filtra sempre il testo con il proprio vissuto e la propria sensibilità): da ragazzi in montagna si faceva un gioco a due, ci si metteva in posizione da spadaccino, a gambe aperte e con l'esterno del piede avanzato contro l'esterno del piede avanzato, ci si prendeva a vicenda la mano destra e si cercava di far perdere l'equilibrio all'altro. Era un bel gioco, emozionante, di sicuro per la prova d’equilibrio (che qui voglio considerare sinonimo di radicamento), ma anche, me ne accorgo ripensandoci ora, per il flusso energetico che scorreva tra le mani delle due persone: chi giocava era comunque sostenuto e spinto dalla mano che lo avrebbe poi costretto a spostare il piede. L’energia dell’altro diventava sostegno o squilibrio, a seconda di come si riusciva a girarla a proprio vantaggio. 
Non erano davvero male questi giochi da ragazzi, si entrava in contatto fisico con l'avversario, con il proprio corpo, anche col mondo. Come l’altalena, la cavallina, gli sberloni, schiacciadito e tanti altri, anche dolorosi (si può arrivare tranquillamente al pallone). Non c’erano gli aggeggi elettronici (i technological devices) e non se ne sentiva nessuna mancanza, si era interamente lì, le emozioni si scambiavano irradiandosi dal corpo, e non venivano proiettate in un altrove fittizio.

Per concludere ho un altro aspetto da considerare, quello più spinoso. Schmidbauer parla spesso delle punture che, per il solo fatto di esser lì, ci si infligge quando si abita una casa in Toscana, terra di spine, come ben sa chi la frequenta. La terra ci punge, forse per tenerci vivi?, sotto forma di cardi, forasacco, legnetti, ortiche, pruni, rovi e quant'altro, soprattutto verso la fine dell'estate, quando tutto diventa duro e legnoso (forse i frutti,  per dovuta compensazione, qui sono più dolci e succosi?).
Per parte mia dunque accetto il gioco, e terrò un occhio aperto sulle piante dei piedi, questo delicato  punto di legame mobile e fragile con la Terra, un legame che senza accorgercene da civilizzati cerchiamo di nascondere, proteggere e alterare con suole spesse, a molle, anche corazzate, mettendovi in mezzo un altro diaframma (forse il primo?) che ci allontana da Madre Terra in tutti i modi.
Tutti tranne Marcello, riabitante di Rufina, che incontro spesso negli eventi della valle, che da anni cammina a piedi nudi, estate e inverno. Fa parte di quel movimento silenzioso di piedi-nudisti, che praticano e sostengono questa particolare modalità, compiendo a volte imprese epiche (non ricordo dove e come, ma su internet chi cerca con fervore può trovare tutto, la parola chiave su wiki è gimnopedismo).

ps. Scopro ora rileggendo che i piedi nudi, in questo mondo mediatico di rimozione, vengono subito accostati al feticismo, come particolare inclinazione sessuale. Perché come tutte le cose che sembrano strane, eccoli ascritti a quel "fuori norma" che dà i brividi ai benpensanti, a quella che un tempo si bollava come pornografia (con efficace meccanismo di rimozione sociale, per cui ci viene da considerare l’anomalo qualcosa di perverso e disdicevole), un termine decisamente scomparso (da che  ha conquistato il mondo). C'è poi quella canzone popolare, riproposta a suo tempo da Caterina Bueno, La Violina chi la vuole se la trovi, in rete c'è tutto... 

In questa foto infine, di fianco a un piede superpiatto (più radicato? chissà...) si vede una delle buche che quasi quotidianamente troviamo scavate attorno a casa, probabilmente opera del Tasso (o dell'istrice?). Questa smania di scavare presumo risponda all'esigenza di avere più tane disponibili, o in vista della crescita della famiglia o in vista di accidenti di vita (se avete visto Mr. Fox di Wes Anderson capite di cosa sto parlando, e scopro un'interessante chiave di lettura psicanalitica del film). In fondo introdursi nel sottosuolo è un altro modo, molto più "radicale", di legarsi alla Terra. Ne parla la psicologia junghiana, e Hillman ci ha dedicato uno studio ricchissimo e approfondito, che un bel giorno spero di riuscire a finir di leggere. Allora rileggerò anche il classico librettino di Dostoevski.