lunedì 2 dicembre 2013

Un po' di pubblicità

Lo so non è elegante, ma vi chiedo un'eccezione: e poi è la prima volta che pubblico un libro a mio nome, come autore, e quindi la cosa, in qualche modo, riguarda anche questi bollettini, s'intreccia con gli argomenti più tipici di queste colonne. Si tratta di alberi (arborilogia, dendrosofia?), o meglio di gente che si arrampica sugli alberi, uno di loro è il Mauri, ed è proprio a lui che devo l'idea e in buona parte gli stimoli e il sostegno di avere fatto questo libro. Che, oggi l'ho annunciato in lungo e in largo, dal 12 dicembre sarà in vendita (cfr. http://edizionimontaonda.blogspot.it/).
Non ho la più pallida idea di come verrà accolto. Un po' di timori (chissà quanti refusi) e incertezze (verrà accolto bene, verrà deriso, rifiutato, criticato?), aspirazioni (dopo tante fatiche mi piacerebbe vedere qualche soldino entrare in cassa) e ambizioni (no, quelle no!).
Ho anche inaugurato una pagina fb (io, che detesto tutte queste cose), si chiama arrampicareglialberi.
Perchè? Per combattere i nemici (chi mi legge sa cosa intendo, e quanti e quali) bisogna farlo ad armi pari, altrimenti è meglio fuggire (ma dove, se non potrò più nascondermi a Montaonda?).
Se andrà male, dicevo, almeno ci avrò provato, con un ennesimo tentativo, non l'ultimo spero, di fare le cose a modo mio. Se andrà bene? Spero di ricavarne un po' di ossigeno, di raccogliere quel po' di entusiasmo che a tutti noi serve per andare avanti.
Alberi, alberi, alberi, alberi che crescano, e non solo legna da tagliare e mettere nella stufa....

Qui sotto una mia rara foto, mentre appunto cerco di scalarlo a mani nude, oppure diciamo che lo abbraccio, un alberello senza nome, cercando di trasmettergli energia e aiutarlo a crescere sano e forte


giovedì 21 novembre 2013

Eremiti moderni




È un po’ di tempo che ogni tanto mi chiedo: ma esistono ancora degli eremiti, veri eremiti moderni, come Thoreau, gente che disgustata per un motivo o per l’altro decide di levarsi di torno – e isolandosi dalla mala genia ricercare solitudine, sì, via dai propri simili, ma a contatto con un ambiente più vasto, popoli non umani e non solo animali?
Mi chiedo così perché qui a MO sono un po’ al limite, a giorni mi sporgo verso questo mondo possibile, dove non entra la società (tolte le incursioni dei cacciatori, senza ruote in quella che diventa una barriera non architettonica ma naturale – la natura vive imponendo barriere, mentre la ruota  favorisce sia il curioso che si fa il giro in macchina sia il motocrossista che  con la wilderness cerca il contatto fangoso – nel tramite del suo tecnologico destriero puzzurlante).
In altri bollettini ho accennato ad alcuni casi sentiti raccontare qui in valle (era valle di romitori, come tutte le valli rocciose e vicine a rotte di passaggio), e negli anni ho conosciuto alcune persone con questa tendenza. Io stesso per lunghi periodi cerco la solitudine. Ma c’è chi lo fa con più determinazione, e coltivando orti e allevando animali raggiunge la quasi totale autosufficienza.
Sono persone che, tra l’altro, perdono l’abitudine (potremmo quasi chiamarla vizio, cambiando le prospettive) di lavarsi e ripulirsi (le norme dell’igiene, i criteri per decidere cosa sia pulito e cosa sporco, cosa decente e cosa indecente, da anni sono per me oggetto di discussioni e verifiche), che spesso e volentieri stanno a piedi nudi, o mangiano con le mani. Certo, tanti lo fanno per vizio – allure – per snobismo, come certe capigliature, più un segno di cocotteria, desiderio, urbanità piuttosto che wilderness (penso ai litri di shampoo che irrorano i bei torrenti di montagna).
Bene, questi eremiti moderni, che fanno tutto il tempo? Pregano e adorano il signore (chiunque esso sia), il creato (quello che ne è rimasto), si disfano con droghe narcotiche, più o meno liquide? Ciascuno è libero di fare di sé ciò che vuole, se non fa danno agli altri (in senso esteso).
Personalmente, fin da ragazzo,  ho sempre ricercato l’epifania dell’essere (se posso abusare di questo termine), quei momenti estatici (in senso fachinelliano, per chi ne rammenta gli scritti ai tempi quasi sperimentali) e un po’ dostoevskiani in cui la vita si mostra nuda (qualche santo ignudo salta sempre fuori, ma santo in senso orientale, mica cristiano) in tutta la sua fragile fragranza. Da ragazzino poteva essere qualunque cosa (e non voglio recuperare le estetiche pascoliane, proustiane o benjaminiane, solo ricordare l’immediatezza dell’esperienza ingenua),  dall’appartarsi con la ragazza al beccarsi un temporale indicibile senza la possibilità di proteggersi (tutte quelle cose di cui ormai sono pieni soltanto pubblicità e film (visto ieri sera Hunger Games), perché l’esperienza corporea spesso e volentieri ormai la sublimiamo in evento proiettivo, o guidato da un qualche santone -istruttore che smorzi per noi le punte acuminate – ma proprio lì sta, baudelaireanamente, il dolce veleno, che è il succo stesso della vita). Non voglio né potrei dire che i sensi devono guidarci a vivere la vita (l’unica volta che sono salito su una gru per fare bungee-jumping sono stato quello che è tornato giù senza lanciarsi). Anzi anzi. Socraticamente mi sono sempre rifiutato di farmi le pere (come si diceva ai miei tempi) ovvero di buttarmi a corpo morto dentro a qualcosa di più grande di me, salvato da qualche trick–device (come un paracadute). La morte? Non ho fretta, posso aspettare. Nel frattempo non mi sono annoiato (solo un po’, per snobismo), molto non l’ho fatto,  ma non credo che si debba fare tutti tutto.
E invece ho voluto provare l’esperienza di un certo grado di anacoretismo. Di distacco, di rallentamento ed esposizione a ritmi e tempi non umani. In questi anni, pur non trascorsi nella foresta amazzonica ma con corrente elettrica e quant’altro per permettermi di vivere confortevolmente, ho avuto accesso al mondo misterioso e segreto. Quello che il più della gente non conosce: per esempio, appena mi chiudo la porta di casa alle spalle ho accesso al bosco di notte – che non sia il campeggio -, agli incontri con i selvatici, ai continui (e spesso umidi) tuffi dentro alle stagioni, con i loro rivolgimenti. Quella quotidianità vera del mondo, e non prestrutturata da un’agenda e altri materiali devices (devianti?). E questa vita che vedo, che non è solo mia, non è umana, e pure e altrettanto è vita, e forse lo è ancora di più, perché avviene, senza interrogarsi sulla propria legittimità, liceità, finitezza, è affascinante (invece io mi sono sempre fatto un sacco di menate). Mi sono accostato alle scienze naturali – cercando però un approccio scalzo, se si usa questo termine per dire non da scienziato, ma da chi ci sta in mezzo  – e allontanato un po’ da quelle umane (che erano e restano la mia formazione), al punto che ora le vedo con molto scetticismo (in ambito filosofico Marchesini parla di posthuman), come se fossi un selvatico che osserva l’insensato grumo di un paese, dall’alto osservatorio di una radura, del limine di un bosco.
Eppure, piccolo principino Kaspar Hauser alla rovescia, dico ancora noi, vado in giro con vestiti e con occhiali, andiamo piegati e gobbi dentro a scatole (a proposito: mesi fa a “La cena di Pitagora ho conosciuto Loredana, la grafica romana che ha fatto la mitica copertina di Papalagi, per me il millelire più profondo – ne compravo dieci per volta e lo regalavo…), grassi e malati, sfatti e disfacenti.  E scopro, poiché mi piace restare in contatto con questi due mondi che stridono e fanno scintille, da una parte e dall’altra, e si combattono ora come non mai (la natura, e se vogliamo darle un nome sarà Gaia, sta tirando fuori artigli più adatti al gioco, perché l’uomo negli ultimi decenni ha alzato molto la posta),  che se dalla nostra parte tutto è sempre più complesso e difficile e faticoso, maledetto e infelice, dall’altro lato resta la leggerezza essenziale dell’organico, la capacità dei non umani di trovare soluzioni e scappatoie, in silenzio, esperti di milioni di anni. Un frullo, un fruscio, un battito.
Ho appena terminato di leggere  “Il paradiso degli animali” di Cassola, che negli anni ’70 immaginava l’estinzione dell’uomo e il sopravvento degli animali (precorritore del postumanesimo, ironizza della nostra capacità di animali che non trovano di meglio che ripercorrere i nostri errori). Per sopravvivere, guidati da gatti e cani, gli animali diventano vegetariani, e smettono di ammazzarsi, in nome di una comune fratellanza – ma anche per sopravvivere alla penuria di cibo. Un libro curioso, forse un po’ pesante, ma mi porta a riflettere su come, già allora, quando io ero neanche ragazzo, chi voleva poteva vedere. Da sempre, chi voleva poteva vedere. Ma per vedere sono convinto, in qualche maniera bisogna isolarsi, togliere di mezzo le chiacchiere spiazzanti. Non è cosa che si possa fare così, impunemente, senza cadere nell’autocrazia, nella follia o nel ridicolo. 
Ebbene, questi eremiti moderni, credo possano avere uno sguardo più chiaro e limpido, una pace forse conflittuale e sanguigna, ma molto più profonda di quella che a prima vista al socializzato appare. Forse dovremmo cominciare a venerarli, in qualche modo, e se non perché qualcosa hanno trovato (nulla si trova più), perché sono diventati figure autentiche (togli oggi e togli domani…) a cui possiamo guardare, con interesse e curiosità; ora che abbiamo scoperto che il nostro mondo era una truffa, che ci hanno e ci siamo ingannati, perché le nostre illusioni erano colpevoli di complicità con la pigrizia e il malaffare, ora che sappiamo che nulla si può umanamente raddrizzare. L'espiazione - se esiste - è una conquista personale, non trasmissibile se non sottoponendosi a una dura scuola, al rigore dei monasteri, alle pratiche di esclusione e ascesi.
Chiaramente davanti a questo nuovo tempio io sto con solo  appoggiato il piede sul primo gradino, sto ancora del tutto per terra e non so se troverò mai la forza di innalzarmi… ma guardando avanti, questa lunga scalinata, vedo che purificarsi è possibile, e naturalmente, ma costa carissimo (e non di denaro), non garantisce successo (anzi lo elimina), e serve soltanto a chiudere il cerchio che abbiamo infranto, a riportare tutto a zero.
Aummm… (che poi sarebbe OM, che poi è MO a rovescio…)



Insomma la mia proposta sarebbe istituire un premio “eremita dell’anno”, che si risolve in una cena sociale (ciascuno paga per sé) in cui tutti zitti si ascolta lui, il vincitore, e quello che ha da dire - o il suo silenzio. Ora, se Nanni prendesse davvero in gestione il ristorante da Silvano, corro a proporglielo… 

p.s. foto - La mantide pregava in una delle ultime giornate di sole sul davanzale, mentre di là dal vetro io traducevo il terzo libro di Padre Adam (il più grande apicoltore dell'età moderna). Le 3 foglie di costa (peso: 3 etti e passa cadauna) me le ha portate il quasi-eremita Paolo; con una ci abbiamo pranzato in due, con le altre ho fatto una pasta al forno, che ho condiviso con amici.

martedì 12 novembre 2013

Bollettino d'ombra


Anzi  (a distanza di una settimana ho riletto e corretto) meglio così: 

Bollettino di luce e di penombra

È successo verso mezzogiorno, dopo un mattinata di vento e pioggia furiosi è andata via la luce, prima una volta, per pochi minuti, poi a singhiozzo per un po' (estenuante, stavo lavorando su internet, e non avendo batterie tampone il mac ogni volta si spegneva), e poi definitivamente. Ho aspettato un minuto, cinque, ho capito che sarebbe andata per le lunghe. Un paio di volte è tornata ma per pochi istanti. Doveva essere caduto un ramo sulla linea, o la linea stessa, chissà quanto ci avrebbero messo a riparare. E quindi? Niente luce, niente computer, niente lavoro. Inattività forzata, vacanza. Va detto che faccio ancora parte di quella generazione un po' stakanovista che quando, per dire, c'era uno sciopero dei mezzi, o si bloccava la città per un guasto, a scuola ci arrivava a piedi, camminando magari un'ora, pur di non fare un'assenza: roba del secolo scorso. E ora che dovevo spedire a una rivista tre recensioni, quasi pronte, e non potevo? Ho iniziato a friggere - ma già una parte di me iniziava a rilassarsi, causa forza maggiore. Ho controllato  la termocucina, privata della pompa che fa girare l'acqua nei termosifoni, che non andasse in ebollizione, e mi sono messo a cucinare. Polenta e lenticchie, visto che l'inverno bussa alla porta, con le raffiche di pioggia finalmente fredda sospinte dal tramontano. Guardando verso occidente vedo gli scrosci d'acqua che si riversano sulla valle, come un'interminata tenda di tulle che si agita e lentamente vola nel cielo,  portata dal vento. Ho mangiato, e poi dormicchiato una mezz'ora, con un occhio aperto alla lampada sul comodino, sperando che la luce tornasse. Intanto dentro di me si allargava quella penombra uggiosa delle giornate cupe di novembre, quando sulle foglie ancora verdi si stende quella patina leggera di luce bianca opalescente, oleosa, e sembra di galleggiare in una laguna liquida (sarà che sono stato da poco a Venezia). Succede questo, quando manca la luce non si può più fare niente - di utile intendo. Fuori pioveva a dirotto, e non potevo ascoltare musica, scrivere al computer, guardare film o telefonare (anche il cellu era quasi scarico, bene mantenere la carica per le emergenze). Nessun contatto col mondo, solo pioggia e silenzio. In queste situazioni Montaonda diventa veramente isolata,  nessuno si avventurerebbe da queste parti, un eremo arroccato alla roccia, umida, scivolosa, battuta dai venti, a raffiche, percorsa da rivoli trasformati in torrenti. Una tana dove rincantucciarsi. Allora, contento comunque di starmene al caldo e protetto, mi sono messo in attesa (sempre per la questione del lavoro da concludere che premeva, mi secca terribilmente non rispettare i tempi), ho letto un po', sfogliando una rivista, e poi ho suonato il mandolino (sarebbe ora che imparassi per bene la melodia della mazurca dell'amante fantasma, pezzo trascinante e insieme sfuggente. E qui, poiché la le finestre del salottino sono finestre da topi, senza sole si fanno più piccole, ho sentito davvero salire la penombra, e per leggere lo spartito sono andato a prendere i primi lumini e un paio di candele (ne ho ancora la casa piena, ma non li uso mai). Decido di fare una foto. Mi alzo, vado a prendere la Nikon. Ho suonato ancora un po' (suonare in acustico non richiede elettricità, e pare un miracolo antico!), ma questa volta la chitarra folk, perché in uno scambio di mail con un collega (lo dico, e perché no? Marco Montemarano, che con il suo romanzo ha appena vinto il premio letterario Neri Pozza) abbiamo rievocato e scoperto la comune passione per John Fahey (un mito della chitarra acustica post-blues americana) e Davey Graham (un mito assoluto). Mi sono infilato le unghie di metallo e ho assaggiato le corde, come si dice, ma la chitarra ha il si e il cantino che si lamentano, devono essersi consumati i tasti, chissà se si può sistemare (e quando, soprattutto). E così mi sono fermato un po' a riflettere sul peso che ha qui e ora l'assenza della luce elettrica. Per il congelatore non mi preoccupo, ci sono solo dei fagioli cotti, sospesi nel loro brodo sembrano piccoli feti vegetali ibernati nel ghiaccio proveniente da un'epoca lontana - posso consumarli stasera o domani. Ormai il mio è un frigo quasi interamente vegano, resta una mezza bottiglietta di jogurt che per debolezza ho comprato settimana scorsa. Posso bermelo stasera, d'altro nulla rischia di andare a male. Anzi sorrido, perché so che tra poco, non appena la temperatura sarà scesa ancora di qualche grado, potrò spegnere il frigo fino a marzo - una liberazione, perché il suo ronzio, amplificato dal mobile che lo contiene, m'innervosisce (terrribilmente).
Riscopro - eccoci al punto - le ombre persistenti, quelle che non spariscono scacciate dalla luce elettrica, che quando gli punti addosso la pila fuggono soltanto in un altro lato della stanza, diventato più buio, ombre buzzatiane, avrei detto una volta. E mentre cala la sera - e sono solo le 16.30! - senza la difesa della luce elettrica, sento che prendono possesso di tutta la casa, anche della stanza dove sono, e agitano le fiammelle delle candele, mostrando tutta la precarietà della mia luce (potrei pure citare Moresco?). Che faccio? Guardo fuori dalla finestra a valle: a Cerreta, meno di un chilometro in linea d'aria, c'è una luce, anche a Imocasale, sulla provinciale. Casa di Toni è buia, ma forse lui e Daria non sono ancora tornati.
Allora esco, e provo gli interruttori del vicino (che non c'è), niente. Decido, visto che ormai sono fuori, con stivali e ombrello, visto che il vento si è un po' calmato e la pioggia non è troppo violenta, di fare due passi e andare a guardare il fiume. Perché stamattina è passato da qui Daniele, che aveva bisogno di scaricare dei file dell'assicurazione e rispedirli firmati, e mi ha stupito che lui, che abita queste valli da trent'anni e ha una jeep Nissan Terrano, una di quelle alte e grosse, non si sia fidato ad attraversare il guado del fosso di Casale, e sia venuto su a piedi.
Per strada vedo acqua che scende a doccia dappertutto, e  prima del ponte è caduto sulla strada un albero secco, con tanto di ceppo e zolla, che era da tempo pericolante, lo vedevo e dicevo ogni volta devo toglierlo. Domani prendo la motesega e lo levo di mezzo, che senza "non ci si fa" (questo è vernacolo toscano). Rami ce ne sono sparsi ovunque, e foglie, pigne di cipressi. Il fiume è grosso, davvero grosso, come non l'ho forse mai visto in sette anni. Colore del cappuccino, ribolle di schiuma, e si sentono i tonfi sordi dei sassi trascinati dalla corrente. Arrivo fino al guado e capisco perché Daniele si è fermato. Il rischio di essere trascinati via con l'auto è concreto, il fosso è un fiume in piena e ruggisce indemoniato, cerca di azzannare la passerella pedonale che gli passa sopra.
Ritorno, che comincia a far buio davvero.
E ora che faccio? Inizio a leggere un libro nuovo (ne ho tanti che mi aspettano sugli scaffali!); lo scelgo con voluttà, a Venezia, alla libreria Bertoni (calle dei Fabbri, dietro San Marco) ho trovato I mangia a poco, del mio amato Bernhard, che ancora non ho mai letto. Anzi, credo sia una decina d'anni che non leggo un Bernhard, fa parte quasi di un altro mondo (chiusosi forse con la lettura in tedesco di Estinzione? Mah). Vado in studio, al buio, allungo la mano sul ripiano dove l'ho appoggiato, riconosco la carta Adelphi al tatto. Ah, che soddisfazione, aprire un libro di un autore amato. Die Vorfreude, dicono i tedeschi, la pre-gioia che è la miglior gioia. Leggo a lume di candela - dopo quanti anni? La collana Fabula è scritta grossa, Berhard scrive senza dialoghi e punti a capo. Traduce Eugenio Bernardi (Bernhard - Bernardi, che strano caso - io dovrei tradurre Vidal, allora), di lui mi fido ciecamente. Tolgo gli occhiali, miope, e m'immergo, per una mezz'ora (quando leggo così mi torna sempre  in mente il nonno vicino al focolare, che leggeva il giornale  a pochi centimetri dal volto -lui è dentro di me e io sono nato da lui). Smetto di leggere, mi guardo attorno.
Alle sei sono di nuovo in salotto e che faccio? Comincio a scrivere appunti per questo bollettino, a matita e sul taccuino: "la luce di candela per forza rallenta il tempo. Quasi lo sequestrasse e prendesse su di sé, sul suo consumarsi bruciando, nel tremolare della fiammella". Il tempo come incenso, come sabbia della clessidra, come la candela che si consuma. "Poiché la fiamma trema, fatica, il resto", il mondo che illumina, e il suo converso, la sua ombra, "acquista consistenza, stabilità e forza. Tutto si rallenta. Anche perché molte cose diventano più difficili, addirittura pericolose. Quando si vuole muoversi, per esempio. Cercare qualcosa nella penombra diventa difficile, come nel caso della pila." Già, perché tornato dalla passeggiata al fiume ho iniziato a cercare la pila rossa, quella ikea a manovella coi led, che fa una luce migliore e stabile - le altre hanno una frizione che si esaurisce subito e bisogna continuare a smanettare per avere una luce d'emergenza. Frugare per la mia casa, piena di roba all'inverosimile, roba gettata e sorpresa dalla tenebra in luoghi normalmente dominati dalla luce, cercare la pila al quasi buio, è un'impresa non da poco. Paradossale, significativa. L'ho girata (non la manovella, la casa) tutta senza trovarla. La casa senza luce è un labirinto, senza devices sono disarmato, come la scrittura. La pila non è piccola, eppure: "dove l'avevo poggiata?" Niente, scomparsa, s'infittisce il mistero dell'ombra! "...il rumore del fiume e la penombra si espandono il silenzio". Mi insegnano a rassegnarmi, a un non qui ora e subito tutto da imparare. "La fiamma della candela sta alla luce elettrica come il ronzio di una mosca sta al batter d'ali di una farfalla." Penso che passerò la serata a sviluppare questi ragionamenti, mi piace, ormai al buio "la lucina" si è ritagliata un suo angolo discreto. In ogni stanza ho messo un lumino, in modo da potermi muovere per casa senza dover continuamente usare la pila (quella scassa a frizione). Sono pronto a una serata d'ombra, andrò a cercare il libro di Tanizaki, e chissà cos'altro uscirà, e verrà a tenermi compagnia.
E invece niente, all'improvviso, tutto il mio progetto svanisce in un istante: alle sette torna la luce, e resta. Per sempre. Che scorno. Con la luce trovo anche la pila: era nella tasca della giaccavento... ssst...



Ecco, era un po' che sentivo di dover aggiornare il bollettino, visto che qualcuno ancora lo legge e mi chiede un seguito. Sono passati  mesi, come sempre con tante cose dentro - forse troppe, vivo in una centrifuga (lenta), e non riesco a prendere fiato e metterle nero su bianco. Novità di rilievo? Boh? Sono tornato una settimana a Berlino, a ferragosto, dopo cinque anni; ho tradotto il libro The power of breathing, yoga in uscita per RED,  partecipato alla fiera di Lazise (coi libri d'apicoltura),  terminato il libro sul tree-climbing (presto maggiori infos), fatto qualche articoletto qua e là. Ho un mandolino nuovo (quello della foto), comprato su ebay, ma vecchio e difficile da suonare (l'altra cosa strana che si vede nella campana di vetro è un cucù di Matera). E come sempre ho la testa piena di cose, di progetti, di iniziative piantate a metà (come la casa di MO, per chi la conosce...). E poi ho letto, un po' di tutto, e spesso a letto...

lunedì 22 luglio 2013

Elucubrazioni sul volo delle farfalle


  

Perché le farfalle sono così affascinanti e inafferrabili? Non soltanto per il colore, e per i disegni che ricoprono le loro ali - certamente una delle fantasie cromatiche più complesse e sfuggenti della natura. Perché proprio le farfalle sono così belle e variopinte, e non invece gli scarafaggi?
Le farfalle si librano, come bandiere di preghiera nel vento, tanto le loro ali ci paiono sbocciare dalla mente di un grafico, un incisore, l'estro di un esteta furtivo, che lavora con strumenti ineffabili nel chiuso di una crisalide - ma le ali talvolta paiono anche pagine scritte, dipinte, spruzzate da mani sapienti (dico sembrano, perché ormai è comprovato che nessun dio esiste).
Sicuramente naturalisti ed entomologi hanno affrontato e forse anche risolto tutte queste mie domande, io non lo so, e forse un giorno mi capiterà tra le mani un libro intitolato “I misteri svelati delle farfalle”, e scoprirò che  un Maeterlinck sconosciuto ha già detto tutto e di più. Ma chi come me ha la fortuna di avere una pianta di lavanda, del trifoglio, o altri fiori appena fuori dalla porta di casa, d'estate è eternamente accompagnato da queste fantasmagoriche girandole viventi. Se mi metto su una sdraio a leggere, all'ombra dell'alloro, loro mi svolazzano attorno.Come potrei ignorarle? Sembrano fatte apposta (in senso darvwiniano: evolute apposta) per attirare la mia attenzione, il mio occhio. Si avvicinano, svolazzano, quasi volessero farsi prendere. Eppure, afferrarle è quasi impossibile (lo sanno bene i gatti).



Dove vanno, quando volano (questa qua sopra l'ho beccata a metà d'un battito d'ali)? Paiono non avere una direzione, muoversi a caso. E invece, se le osserviamo, non è così: una ha appena attraversato tutto il resede, ignorando diversi fiori, sfiorando il lettino sdraio, sassi e quant’altro, sfarfallando, e alla fine è andata a posarsi su un fiore di trifoglio rosso, al sole. Quello bianco, all’ombra, pare non averlo nemmeno visto. Forse è stata attratta dal profumo, stimolato dal sole? Su una rivista avevo letto come i cani seguono gli odori, continuando ad entrare e uscire dalla scia – la traccia era simile al volo di una farfalla. Sarà lo stesso? Magari, che tragica ironia, le farfalle vedono malissimo, e sono quasi cieche! 
Sono insetti ben strani. Quando capita di trovarne una morta svanisce ogni incanto, le ali sono chiuse e appena toccate si sfarinano in una polvere repellente, e restano dei tozzi corpi di bruchi pelosi. Eppure quando prendono il volo sono leggere come una chimera, imprendibili, il loro volo è uno dei misteri più affascinanti della natura. Anch’io, anni fa, ho provato a catturarne una. È un esercizio di rapidità e di riflessi difficilissimo. È difficile anche fotografarle (prendete la penultima foto: sul cespuglio ce ne sono almeno una decina, ma fermate così, anche a mezz'aria, spariscono dal paesaggio, come una voluta di fumo, un banco di nebbia, che esiste soltanto nel suo movimento). La farfalla è così evidente all'occhio che scorre il panorama perché batte continuamente le ali, sparisce e cambia forma e traiettoria, sembra farlo apposta per attirare la nostra attenzione visiva. A meno di beccarle posate su un muro o un sasso a riposare, sono sempre in movimento, e scappano sempre fuori dall’obiettivo, si girano di taglio, non stanno mai ferme più di un istante. La traiettoria di volo della farfalla è un  ghirigoro folle, il disegno di un pittore giapponese ubriaco, un labirinto imprevedibile che però - credo - funziona perfettamente: pur essendo così evidente ha pochissimi predatori. Quindi il suo muoversi è una fuga eterna, un continuo ipotetico schivare missili e vettori, al punto da non essere più fuga, ma una danza fatta di continui scarti in alto, in basso, di lato di disegni e rotazioni, avvitamenti e palpiti. Anche se, ogni tanto capita di vederlo, le farfalle sanno tirare dritto, cavalcando una bava di vento, sanno planare in maniera eccellente.





L’altroieri mentre le osservavo stava arrivando un temporale violento (nubi nere provenienti dalla Romagna si affacciano sulla valle e precipitano su Castagno d'Andrea, dalla finestra vedo una cortina di grandine e pioggia da paura - corro fuori per raccogliere gli attrezzi sul restro che avevo lasciato in bel disortine a metà mattina, mentre comincia a tirare aria, si sentono tuoni bassi e lugubri, e i lampi delle prime saette che come squadre di avanguardia si cimentano a squarciare la pancia dei cieli). Le cavolaie che ho appena fotografato sulla lavanda se ne vanno, planando dietro il riparo della macchia di allori (cioè il versante riparato, dove forse hanno un nido, un hangar, un ricovero). Nel frattempo sono salito in camera, e vedo come l'ultima di loro plana decisa, perdendo una decina di metri di quota in pochi secondi (uno, due?). Quando arriva il finimondo non c'è più un solo insetto in vista.





Ora, se provo a discettare sulla bellezza non vedo perché dovrei trascurare anche di interessarmi dell'intelligenza delle farfalle: hanno capito che stava arrivando il temporale (l'hanno capito come me, guardando le avvisaglie?). Se ne sono tornate a casa (casa?), manovrando quelle specie di deltaplani (quattro ali di tela per ogni farfalla, più o meno sovrapposte) ad assetto variabile in maniera magistrale. Avviene tutto in maniera istintiva, dice l'uomo per spiegarsi come agiscono gli animali. È un vecchio inganno, ormai ben svelato dagli studiosi di etologia (anche umana): l'istinto è un'invenzione nostra, per spiegarci quello che non capiamo: “come fanno?” “Le guida l'istinto", "e cos'è l'istinto?" "una specie di anima automatica"  "Cosa vuol dire anima automatica?" "Che non ragiona, non è cosciente" "E chi non è cosciente è un non-animale?” “No perché tutti gli animali non sono coscienti" "Allora solo l'uomo è cosciente?" "E chi lo dice?" "L'uomo" "Ah!" "... E infatti dice di averla solo lui, l'anima" "ma allora perché li chiamiamo animali?” (se potessi riscrivere Autodafé di Canetti potrebbe cominciare così, spuntando il rasoio di Cartesio). 
Bene, ora sappiamo che l'istinto non esiste, che è una parola vuota, al cui posto lentamente si stanno disvelando le complesse leggi e i meccanismi della neurobiologia. Esistono le farfalle, che planano agitando graziosamente le ali, in una maniera che a noi pare convulsa, ma che le porta invece dove loro vogliono dirigersi, quando sentono (dico sentono, ma che altro potrei dire?) fame, o che arriva l’acquazzone. Non vuole forse un'ape andare sul fiore, e insegna la strada alla sua compagna nell’alveare? E d'altro canto, anche il cacciatore, non soddisfa un istinto quando vuole sparare al cinghiale? Per non parlare di altre pratiche umane verso umani, che hanno come unico fine la soddisfazione degli istinti  - più bassi, più alti, chi può dirlo?
(se qualcuno non l'avesse capito: faccio lo spiritoso! E continuo:)
Due farfalle quando s’incontrano (e mi rendo conto ora che non ho mai visto due farfalle con disegni diversi accostarsi una all'altra, quindi forse colori e disegno sono un distintivo di compatibilità sessuale) improvvisano brevi caroselli e turbinii ascendenti – danze per noi inestricabili.  E anch’io: perché adoro elucubrare, librandomi e svolazzando, pur goffo e pesante come una cetonia, che pare sempre in picchiata? Sarà sempre il "caro istinto"?

Vabbe’, stavo scherzando. Che succede a Montaonda, forse qualcuno vorrebbe pure sapere (ovvero, mica passo il tempo a guardar farfalle!)?
Concluse le vacanze in giro per la Sardegna (che è una terra senza eguali) ha fatto caldo e freddo, e ora abbondano i temporali. Avrei da aggiornare e scrivere decine di bollettini, la scoperta della Gallura, di Maria Lai, il pozzo di Santa Cristina, eccetera, ma manca il tempo: sto traducendo un libro sulla respirazione yoga (Swami Saradananda, per la RED, e già a tradurlo respiro meglio), uno sulle api (ovviamente, per MEdizioni) e sistemando un paio di progettini editoriali minori che vedranno la luce (libri con gli occhi, sissignori) spero in autunno. E poi, il libro sul tree-climbing è bello e ricco, praticamente pronto, devo solo risolvere alcuni problemucci redazionali, acquisire le illustrazioni e stamparlo. Non basta: ho iniziato a collaborare con il blog Cartaresistente, un progetto che mi pare meritare sostegno (non solo mio), e qualche articolino di qua e di là.
 

p.s. ADDENDUM bibliografico del 3 agosto
- sgombrando la scrivania, ho scovato un ritaglio di giornale: Repubblica, 8 luglio, Elena STANCANELLI, intitolato "La libreria degli animali",  fornisce un interessante aggiornamento bibliografico con ultimi (e meno ultimi) libri in cui letterati si confrontano con gli animali. Per chi fosse interessato a leggerlo: clicchi qui 

e chi fosse interessato a una guida illustrata SULLE FARFALLE del Falterona, può sfogliarne una notevole sul sito del Parco delle Foreste Casentinesi





 

giovedì 23 maggio 2013

Maggio, s'imbottiglia. Una storia di famiglia



Perché parlarne a Montaonda, visto che lo faccio a Milano? Perché imbottigliare è una vecchia tradizione di un mondo che, anche se cittadino, come nel mio caso, resta ancora vicino e, proprio per via di simili pratiche, legato alla campagna. È questo che mi permette di tirare un filo diretto, fino a qui.
L'altro ieri, trovandomi in città, e visto che il tempo reggeva, ho deciso di passare da mia madre e imbottigliare la damigiana che mi era stata consegnata.
A imbottigliare ho iniziato da ragazzo, alla metà degli anni '70, quando mio padre iniziò a comprare il vino insieme al suo collega Montoli, un ingegnere più giovane, di Limbiate (se non ricordo male, comunque, vicino a Vanzago, uno di quei paesi un tempo dispersi tra i campi di grano, che si incontrano lasciando Milano in direzione di Novara), che a sua volta lo ordinava ad Alba, insieme alla cooperativa di consumo del paese.
Ricordo qualche volta di essere andato a prendere le damigiane insieme a lui, con la nostra Citroen GS (era una macchina futuribile, azzurro metallizzato scuro, quando ancora il futuro esisteva e aveva un senso e ci faceva sbattere gli occhi). Ricordo che l'ultima volta, quando mio padre era già malato, quindi credo nel 1995, siamo passati a salutare la sua famiglia, e mi ha fatto vedere la villetta: mio padre era geometra, gliel'aveva disegnata lui.

Quando ancora abitavamo tutti assieme si portava il vino a casa e poi, quando era la giornata giusta, io e mio fratello venivamo precettati, e in un paio d'ore di traffico in cantina si imbottigliava (in genere prima di cena). Mio padre (aveva due fisse alimentari: la carne di Vanzago, sempre tramite i buoni uffici di Montoli, e il vino) si era addirittura procurato la vaschetta con tre beccucci che, quando tutto funzionava a dovere, permetteva di imbottigliare a una velocità impressionante. Quel vino lo bevevo da sempre (cioè, ho iniziato a bere vino a tavola a 14 anni), è sempre stato lì disponibile, una delle vere ricchezze della mia famiglia. Di vino ce n'era comunque, bastava andare giù in cantina a prenderlo. Per la tavola ma anche per le mie feste clandestine negli anni dell'università (quando i genitori andavano via, nel weekend o in vacanza), o anche dopo, il vino era garantito.
Il dolcetto (solo dolcetto!) lo produceva il signor Paolo Bracco, di Dogliani; ma a un certo punto si ammalò (siamo già alla fine degli anni '80 credo), perse una gamba. Ormai ero cresciuto, andato via di casa, e quando tornavo in Italia per maggio mio padre continuava a precettarmi; il signor Bracco era stato sostituito dalla figlia Mariella, e poi era mancato. Quando poi anche mio padre morì, nel 1996, continuare ad acquistare il suo vino è stato forse da parte mia il maggior segno di continuità (e questo la dice lunga in un senso o nell'altro), una lunga fedeltà che non mi sono sentito di interrompere (forse ho saltato un anno, ma ricordo che l'anno dopo ho telefonato a Montoli, sono andato a Limbiate a ritirare la mia damigiana, e per suo gentile tramite negli anni a venire mi sono arrangiato per la consegna direttamente a casa dei miei).
Per qualche anno il giro di consumo milanese si era anche allargato ad alcuni amici, i famigliari del Checco, che però lo scolavano troppo in fretta, e allora non era più una benedizione, e poi Stefano e Niccolò (quest'ultimo ha poi proseguito nel percorso su binari suoi, e ora insieme a sua moglie ha aperto una mescita di vini, davvero buoni, all'Isola, via Confalonieri, si chiama "Vinario 11", e tra le loro bellissime sedie di formica rossa, originali, tratte dalle cucine dei nostri genitori, ce n'è anche una di queste).


Mi sono ritrovato solo. Una, due, a volte anche tre damigiane, a seconda. Il vino a casa mia non deve mancare mai, e quando esco a cena porto sempre una bottiglia. Risparmio, e quasi sempre è cosa gradita. Ora imbottiglio da solo, con un tipo di cannetta che ai tempi non c'era, davvero comoda. Un'ora, o poco di più, una damigiana. Anche i tappi sono cambiati: ai tempi ricordo mio padre li impregnava d'olio di vaselina (!) il giorno prima, ora ci sono di conglomerato e paraffinati. Per qualche anno ho usato i tappi martello (quelli di plastica da piantare dentro a martellate), ma sono scomodi da tirare fuori, e poi usare la plastica mi dispiace.
Ora che sto in Toscana funziona così: la signora Bracco ad aprile mi chiama, mi dice come è andata l'annata, mi chiede quale e quanto ne voglio; spesso non ci vediamo, perché alla consegna non ci sono (provvedono mia madre, e il gentilissimo portinaio Pasquale). E mi dispiace, perché sono quei rapporti che anno dopo anno danno continuità alla vita, una continuità che non è come andare a far la revisione dell'auto, ma legata a un mondo antico, che si risolve in una "presa in consegna", un affido del buon frutto del lavoro di un anno, che diventa  promessa di serate corroboranti; dieci minuti di chiacchiere, e poi via.
Un tempo lo facevano moltissimi, ordinare il vino a damigiane e imbottigliare, in contile, in cantina, al circolino, era una delle grandi risorse del consumo diretto, filiera e km0. Poi certo, c'erano anche le bottiglie speciali, quelle con l'etichetta per le occasioni. I baroli, i nebbioli, il barbaresco! Ma il vino in tavola era questo. Ricordo il nonno materno, che prima di pranzo andava a prendere il bottiglione da due litri di Sizzano (vino mitico e asprigno, mai più assaggiato) dalla cantina (e che cantina la sua, con le volte, e vecchia di secoli! Una volta posterò una foto - e ancora, quante bottiglie, e fiaschi! Ancora soffiate a mano, pesantissime e irregolari, molte ancora mezze bottiglie...), e con uno strano alambicco di leggero vetro azzurrino, impagliato (da qualche parte ci deve essere) aspirava l'olio (di vaselina...), e travasava il vino in tre bottiglie, che teneva nell'armadio della cucina.
Insomma, con la signora Bracco, anche se parliamo al cellulare, e ci scambiamo euri, anche se parliamo di fianco a un furgone Mercedes lucido e nuovo nuovo, il vino è sempre lui, quello della vigna di suo padre. Dolcetto, barbera, grignolino, nebbiolo, vino fatto all'antica (e in tutti questi trenta e più anni non siamo mai andati a trovarla, nonostante gli inviti!), non filtrato, che alla fine lascia sulla bottiglia una camicia scura, o un fondo di granella... Lei mi racconta che sta perdendo i clienti - non che comprano di meno, non è la crisi il problema, è che muoiono, sono anziani, smettono di bere... E in effetti si sa, a bere tanto sono i più giovani, se guardo me, fino ai quaranta bevevo senza pensarci, senza pensare al giorno dopo, il vino è schietto e non fa male, mentre ora, un bicchiere e poco di più, e poi con queste nuove gradazioni, che arrivano a sfiorare e superare i quattordici gradi... Capisco, le rispondo, è sempre meno la gente che imbottiglia, è un'operazione che si considera una menata, uno sbattimento, ci si sporca - odore di polvere e vino, mani nere, traffici di bottiglie!) - ma un tempo era una festa!, mi risponde lei accorata, e in effetti, ricordo, anche con gli amici, una festa virile, anche nella nostra cantina di via Pergine, che pure è un budello in cemento armato (questa che vedete), o da Niccolò, quando bisognava innescare la cannella, si tiravano delle golate che andavano giù diritte in gola, e si tossiva e si rideva. E poi l'ordine delle bottiglie piene, schierate come un'armata di soldati, pronte ad affrontare la tappatrice e infine: munizioni per un anno! Eravamo come  artiglieri sul pezzo, passa il proiettile, apri la culatta, premi, togli il bossolo, di nuovo, un'operazione di squadra, un po' etilica, ma senza perdite... (giusto una volta ogni dieci anni scoppiava una bottiglia, o cadeva, spandendo sangue e schegge di vetro sul pavimento).


Ora mi ritrovo a passarmi le bottiglie da solo, dallo scaffale a terra, a riempirle, a tapparle, a rimetterle su. Non è affatto triste, solo una cosa diversa, più meditata, i rumori e i gesti sono gli stessi, mi faccio in tre, e tre volte penso, ricordo. La mente gira, quando girano anche le mani (mi viene in mente Volponi!). In conclusione, io non mollo, anno dopo anno mi ritrovo a fare le stesse operazioni che faceva mio nonno, che faceva mio padre, che facevo io (ormai ho una lunga memoria anche di me stesso), e continuo a bere il vino della signora Bracco. Voglio dire, non si tratta di un rito nostalgico, di una sopravvivenza, ma di qualcosa di molto vivo: il vino lo bevo e lo faccio bere, tutto l'anno, senza lesinare. Mi piace, e ha lo stesso sapore che aveva tanti anni fa (no, è più buono), e anche se non piace ad alcuni piace ad altri, è schietto, e in Toscana fa un buon ricambio al solito chianti di buona beva. Qui troverei anche dei soci che si unirebbero all'imbottigliamento, e magari si farebbe anche festa e canti e musica, durante e dopo, ma non mi risolvo, a trasferire il rito quaggiù. Lassù sono in qualche maniera in loco, in contatto con lo spirito di famiglia (i Vitali di Rovescala, da cui veniva mio nonno paterno, sono stati a lungo vinai, e forse lo sono ancora, di bonarda, mio padre ricordava che da ragazzo andava alla vigna di Poggio Pelato). Il filo, dicevo: mio padre era già nato a Milano, ma da ragazzo tornava al paese, fino a che il nonno è stato vivo (anch'io ho un cupo e vago ricordo del paese anni '60). Una volta, dopo la morte del nonno, eravamo stati a trovare suo fratello più giovane, Guerino, che aveva fatto il taxista, abitava a Rozzano, e ci aveva regalato una decina di bottiglie della sua bonarda. L'ultimo succo della nostra terra d'origine che ho bevuto...
Non ricordo prima, ma dopo mio padre aveva trovato questo nuovo fornitore, e continuato a comprare il vino in damigiane. Oggi questo tipo di consumo ritorna, con il tramite però della mescita (tipo quella di Niccolò e Valeria). E allora, combinazione, mi viene in mente che il mio altro nonno piemontese era sceso dalle valli a Milano perché "el so' pa'" aveva deciso di far studiare i figli, e aveva aperto una mescita di vino, in via Canonica 98 (ora non c'è nulla di simile). La prozia ricordava che loro stavano nel retro a fare i compiti, e servivano in negozio (attorno al 1910, fino alla guerra credo). Il nonno andava al Parini con gli zoccoli, questo me lo raccontava... Allora non so come funzionava, forse come ancora ho visto da Scoffone (è stata l'ultima vecchia  mescita di vino milanese, in via Spadari credo, ho fatto in tempo nelle ultime serate degli anni '70 a berci qualche bicchiere da capellone...). Un certo assortimento di vini sfusi, o di bottiglie aperte (questo era più lo stile di Moscatelli, e lui l'ho conosciuto bene, come non ricordarlo, con il suo abito di taglio anni '60, color tabacco, la cravatta sfrontata e il cipiglio a sostenere il suo nasone rosso, mentre versava il vino nei bicchieri, sempre fino all'orlo, come si usava una volta! Passavamo da lui, in varia compagnia, nelle lunghe serate da universitari...).
La mescita oggi funziona anche per ragioni economiche: nessuno ha più il tempo (né credo la memoria rituale) per imbottigliare, quindi porta i suoi due-sei vuoti nel negozio sotto casa, e li riempie al tino di acciaio inox, spendendo la metà che a comprare bottiglie. Non si sporca, può scegliere volta per volta che vino prendere, è ecofriendly, e col tempo sviluppa un rapporto con il rivenditore che, anche se non è proprio il contadino (Nic e Valeria sono psicologi - tre lauree in due - davvero!) è se non altro è un selezionatore serio (non un rivenditore da scaffale).
Vorrei tentare di fare un altro passo, spingere Nic e Valeria a vendere il vino della signora Bracco...  o forse dovrei davvero trasferire qui il vino e fare la festa dell'imbottigliamento, magari dal Mauri, che ha una bell'aia, o da chi altro ha lo spazio... devo informarmi, chissà come funzionava qui in Toscana (abbiamo in repertorio un canto intitolato Trescone degli zipoli), nelle case sparse per la valle... tra l'altro, guardate l'ultima foto, per chiudere in bellezza, anche a Montaonda c'era la vigna, ci sono ancora delle viti (su questa ci sono anche due mini-grappolini), le facevano salire sugli alberi... dovrei trovare il modo di recuperarle...





martedì 14 maggio 2013

I dolci frutti della primavera

Ci sono frutti che maturano tardi, altri che hanno bisogno di stare a lungo nascosti in cantina, addirittura seppelliti nella sabbia, prima di trasformare i loro aspri succhi in polpe zuccherine.
Spostando questo discorso alle persone, io propendo a credere che sia un vizio della mia generazione, anzi, proprio del mio anno, e spero che prima o poi toccherà pure a me, di profondere questo miele estratto dalla vita. Oggi però mi sembra il turno del mio vicino di casa Toni, è un musicista piuttosto conosciuto, anche perché è stato uno dei pionieri del reggae italiano.
Che vuol dire, e perché ne parlo qui? La scusa è che Montaonda grazie a lui sta entrando nel mondo dei video musicali, ovvero, per dirla in maniera meno autocelebrativa, Toni ha girato un video nei dintorni di casa (sua), per lanciare il nuovo disco (mi auguro lo vedranno e ascolteranno i patiti del reggae di tutto il mondo, fino in Kamchatka). Il disco è senza dubbio bello, e se andate su fb, in visita a “toni moretto”, trovate un link per ascoltarlo. Che è bello lo dico convinto e in tutta tranquillità: perché dischi ne ho ascoltati e ne ho visti fare, e perché non direi bugie solo per far piacere a un amico.

E quindi eccoci, volevo provare a ricamare un po’, se mi riusciva d’intessere una ghirlanda di parole per salutare la sua lunga fatica, e offrirgli così, nel mio piccolo, un con-tributo molto nel mio stile…  Mi spiego: ho rubato alcune immagini al suo video ancora inedito (ce l’ho perché lui ha dovuto farlo mandare a me, e venire qui a vederlo perché ha il computer infetto), l’ho scaricato e visto, e quindi ora posso appunto presentarvene alcune immagini  rubate, rubate addirittura prima che le vedesse lui… e raccontarvi il filmato in anteprima.

La storia è semplice. Si vede questa ragazza in riva al lago (il laghetto è sotto casa di Toni e lo vedo pure io dalla mia) e, se come ci indicano Jung e Hillman la donna è il simbolo dell’anima (io insisto sempre su questo punto, mi ci sono incistato, come Dante e tanti altri), si può dire che il quadro nell’insieme è un’immagine di malinconia (sempre Jung, ci siete?), forse perché distante da “casa”, forse perché sola, forse perché il libro che legge non le dà alcuna risposta, forse perché, anche se c’è un po’ di sole, la primavera ancora non arriva…



...(è inutile cliccare sulla freccina, è solo una foto della schermata)...

…Si vede poi Toni, in una posizione strana, sopra una rupe, in un bosco, che si agita e canta, sembra una specie di folletto, con un bastone in mano, quasi una bacchetta,  un po’ un grillo musicale, uno spirito dei boschi, e pare che la inciti e dica “su, dài, Anima! Guarda in che bel posto sei, alza le chiappe, muoviti, va’ incontro alla vita”…
 



… e infatti lei si alza, e inizia a camminare, anche se certo non sorride, diciamo pure che pare intorpidita (mah, potrebbe essere lei la Primavera?), cammina e dal lago prende la strada che viene verso Montaonda (voi non lo sapete ma è proprio così), passa il ponticino di legno del guado – ma in mezzo, intanto, ci sono tante immagini di Toni che continua a suonare, e quando arriva il ritornello si vede anche un altro posto, dove ci sono altre ragazze, e ragazzi, e anche gente più grande – gli amici di Toni: perché è a casa sua, c’è una specie di festa, sembra tutta gente piuttosto normale (con la bellezza della gioventù certo), come potremmo essere tutti, ma sorridente, con l’onda di una musica che dice qualcosa, e parla di sole (nel primo ritornello compare una bella bambina, ma proprio bella, con un sole scintillante attorno,  anche se pure gli altri mi sembrano tutti belli), e Toni che salta e si agita, suona strumenti, quasi facesse un qualche rito stregonesco, un marabutto africano, uno sciamano dell’Appennino, per svegliare quest’Anima malinconica…





…Insomma Anima arriva fino al secondo ponte (quello di cemento, dal filmato non sembra ma è alto, un ponte quasi da paura (affacciatevi con cautela sul canyon del fiume sotto, perché la sponda è bassa e il salto saranno quasi venti metri), e non so cosa le passi per la testa, sembra proprio svogliata – sminchiata… poi si gira, si fissa…




… in mezzo al ponte a guardare la rupe di fronte (qui il regista ha seppiato l’immagine e ha fatto bene, e anch’io questa rupe, che vedo tutti i giorni quando vado via da casa, l’ho fotografata al meglio in bianco e nero. Vista così non spicca tantissimo, ma vi giuro, potrebbe davvero essere la rupe dell’impiccato, sopra c’è un alberino torto e secco che nelle giornate cupe fa una discreta impressione…)
Qui mi soffermo, perché si ferma pure lei, Anima. È arrivata a metà strada tra casa di Toni e casa mia, qui succede qualcosa, nella contemplazione del baratro, del sublime direbbe Kant,  è il momento dell’agnizione, ma anche il punto più basso del sentiero,  di qui può solo sprofondare o risalire, in termini più terreni sembrerebbe che il messaggio, la musica di Toni, le sia arrivata (a noi invece arriva il leone che Anima ha tatuato dietro, sotto il collo: sarà vero, sarà una simbologia aggiunta ad hoc?). Ora ecco che Anima torna indietro. Cammina decisa, sembra sappia dove andare, risale dal lago e arriva da loro, dove stanno gli altri, alla festa: le si fanno incontro ad accoglierla due ragazze (sono tre, sempre tre? Le ninfe, le dee di Paride…) insomma, si ricompone una triade, lei sorride (anche se un po’ mesta – va detto comunque che sono tutte e tre molto spontanee, si vede che non stanno proprio recitando, non sono professioniste, e questo è bello, sappiamo apprezzarlo no?), e poi vanno a unirsi alla festa.




Ecco, il fotoromanzo del video è questo.
Nell’ultima foto qui sopra (che non è il finale del video) si vede sulla ds in alto Montaonda, il ponte e il lago invece restano sotto, ormai invisibili (brrr). Vi dirò, fa un po’ impressione vedere la propria casa in un fotogramma del cinema. E mentre guardo la mia casa che Anima non ha raggiunto (anzi, si potrebbe dire che le volta le spalle) mi viene un dubbio: se non ci fosse stato Toni, Anima sarebbe arrivata da me, e saremmo vissuti felici e contenti (siamo sempre su un livello simbolico)? O si sarebbe buttata nel fiume? Io sono Hades (l’invisibile!), lei è Marinella/Persefone (sei mesi di qua, sei di là)?
Ahah, scherzo. Anima avrebbe potuto prendere l’altra strada al bivio, e andare da Paolo, oppure proseguire per chissà dove. E poi è tutta una finzione, non dimentichiamolo.
Ma comunque: niente affatto, anche perché io a casa non c’ero, e se anche non appaio ero proprio lì, alla festa a casa di Toni, seduto sul prato. Quando Anima si va a sedere di fianco a lui, sono nascosto proprio dietro a Toni che suona: chi c’era può testimoniarlo.
Per concludere, un’ultima osservazione, per chi non ci conosce: Anima è giovane, la bimba di cui ho parlato è addirittura una bimba (la figlia di Jaka, per chi lo conosce), Toni, si vede, ha qualche annetto in più (ma sempre qualche mese meno di me!), anche le ragazze sono giovani. Ebbene, voilà, due di quelle bellezze che si vedono nella festa sono le figlie di Toni! E tutte queste altre belle ragazze sono le amiche delle figlie di Toni, o le figlie dei suoi amici. Questo mi premeva spiegarlo, per dire che le ragazze non sono qui presenti per lanciare – ma proprio per nulla! - un messaggio seduttivo sessuale (almeno: io la vedo così dalla mia prospettiva, diciamo ziesca, poi è chiaro che un altro ha tutti i diritti di vedere le cose diversamente), ma soprattutto ci sono proprio per essere se stesse, e anche questa coincidenza della Primavera, vorrà pur dire qualcosa! E le danze di Toni, che di primavere ne ha viste assai, è una danza d’invito – quella di una figura – lo dico e lo nego! – che potrebbe essere paterna, insomma non il solito maschio con in testa solo quello. E anche i maschi presenti, hanno tutti un viso rilassato, sorridente, sembrano in pace col mondo (ma quando mai succede? solo a casa di Toni?!). Cosa simpatica, no?
Da queste foto mi colpisce anche l'effetto straniante su un paesaggio per me quotidiano della presenza di Anima - che non è del posto si vede -  e del grande formato. Ma aggiungo ancora che per me c’è una buona corrispondenza estetica tra luogo, video e musica di Toni, che è una delle poche cose tra quelle che oggi ho sott'occhio che potrei chiamare genuinamente “positiva” e “carica”. Il video mi sembra riuscito (ad altri poi chissà come sembrerà). E so anche come tutta questa solarità musicale sia una conquista sudata, non un regalo piovuto dal cielo (capiranno i musicisti).
Tutto questo a Toni non gliel’ho chiesto né sottoposto, né lo farò – resta a mia totale responsabilità. Carico subito il post sul blog e spero non gli dispiaccia, e mi limito a salutare gli amici che c’erano (insieme alle due mamme – forse anche più di due, non ricordo? - nel video ben mimetizzate tra le loro figliole…) e poi massì, anche quelli che non c’erano: saluti a tutti, da Montaonda!

sabato 20 aprile 2013

Tra inverno e estate

  

Be', un tempo tra inverno e estate c'era la primavera, ora non ne sono molto sicuro. Anche qui se dieci giorni prima c'era la neve ora c'è un caldo quasi estivo (ma sta tornando il monsone?). Naturalmente tutto si sveglia di botto, e la foto qua sopra, scattata il 14 aprile fa uno strano effetto: sembra che Montaonda, con il suo ripido prato verde sia un'isola d'estate al centro dell'inverno (il crinale che sale al Falterona alle sue spalle). Il tempo - anche quell'altro - è scandito da un orologio impazzito: ho ripetuto la passeggiata dei "mostri" (il post precedente) e la "cappelletta" non c'è più, restano rovine umide e crollate, che pare la foresta equatoriale cambogiana. Confrontate le due foto, fa una certa impressione.


Intanto lavoro, continuamente lavoro, ho finito la traduzione del libro di psicologia e ne ho attaccato un altro, in cantiere già da tempo, quasi tre anni direi, questa volta mio, nel senso di autore-editore, dedicato al tree-climbing, un libro che raccogliendo interviste e contributi vari racconterà la storia di questa disciplina che è poi un mondo un po' particolare. Sono in fase di chiusura e speravo di presentarlo per i campionati italiani, ma me li hanno fissati troppo presto (17-19 maggio a Roma - se  capita che siete da quelle parti andate a vederli, sono particolari e anche spettacolari). Spero di fare in tempo a presentarlo per l'Arbor-Day, l'altra kermesse che si svolgerà in estate (cmq darò notizia).
E poi lavoro un po' fuori casa, col decespugliatore sto ripulendo dai pruni (spinuti e duri, la quintessenza della natura selvatica toscana) il vecchio orto basso, quello in piano (gli altri sarebbero sulle terrazze, quasi verticali, in pieno stile metropolitano), ereditato dal Bolletta, ma è una faticaccia (per me). L'idea era di cominciare a coltivarci qualcosa, e forse l'anno prossimo lo farò davvero (ma: dovrei anche fare un recinto nuovo, il vecchio è tutto caduto e rotto, infiltrato di rovi, rosa canina, biancospini e acacie (tutto puntuto qui, non serve il filo spinato in Toscana!)
Sto poi sistemando Montaonda2, ho comprato frigo e fornello (ma questo lo devo ancora montare), oliato il pavimento della stanza di sopra, insomma è quasi pronta per accoglienze estive (niente foto fino all'inaugurazione).
Alcuni ospiti permanenti dentro casa si sono risvegliati: gli armadillini in frotta (nella casa nuova sono decine, li raccolgo dal muro con un vasetto di vetro da cui non riescono a uscire, e li butto fuori). Ho visto anche uno scopione (in questa stagione!).
Ma soprattutto: in casa vecchia ho incontrato una vecchia conoscenza, un parente di polverino (ricordate? Post "Bollettino n.35", luglio 2012). È molto cresciuto, se quello era un bimbo questo è il papà (mamma?). Questo sembra un insetto adulto, e quindi invio la foto a Maria Elena Ferrari, che mi aveva gentilmente lasciato un commento indicativo, vediamo che mi dice, se davvero è un emittero coreidae, però ecco, la sabbia, che insisto essere polvere, raccolta nei locali di casa (ne avevo visti parecchi anche a MO2, l'autunno scorso, sui muri freschi appena pitturati) sembra essere il suo abito abituale (piacerebbe a Italo Calvino: Figure di sabbia era  il titolo di un libro che raccoglieva sui articoli vari)...


E per concludere, la stessa domenica 14, un eventone. Tornando a casa dalle prove dei Maggiaioli (io sempre con il mandolino, e anche se resta tantissimo da imparare a tratti comincio a divertirmi - suoneremo e canteranno a San Godenzo la sera del 30 aprile, e poi nelle settimane successive per i dintorni - se qualcuno volesse le date me le chieda), al guado di casa, ecco cosa ho incontrato, pacifici, e alle 10 di sera, una cinghiala con cinque cinghialini, tutti ammassati contro la grande pietra nera, a bordo della pozza d'acqua (poi cerco foto per il posto, che è bello e suggestivo di per sé). Erano un po' interdetti, dapprima la mamma s'è messa tra loro e la macchina, ma nemmeno lei sapeva bene che fare. Così ho avuto il tempo di prendere la macchina fotografica e, al momento di scattare,  ovviamente ho dimenticato di togliere il flash. Quello che si vede qui sotto (consiglio di ingrandirla cliccandoci sopra, è lunga il doppio) dunque non è un'allucinazione con maialini striati che volano in un cielo metropolitano, sono loro, i cinghialini con le gambette nell'acqua, in ordinata colonna di fuga, al di là dei riflessi del parabrezza...
Il giorno dopo era chiusura di caccia, e ho sentito cani e anche un paio di spari. Spero non tirassero a lei - ma chi può essere certo di non tirare a una cinghiala che allatta, vorrei mi spiegassero i cacciatori (magari poi oggi, che andando alle prove raccolgo il Mauri (tree-climber e cantore) proprio davanti alla sua officina, lo chiedo al Pelone, capocaccia e meccanico del paese).

p.s.
il titolo è una citazione - per chi la volesse cogliere - di "Tra veglia e sonno", un valzer (o mazurca) per mandolino e chitarra, assai famosa, su youtube ci sono un paio di esecuzioni di tutto rispetto.
p.p.s. La cifra, la linea nascosta, mi accorgo rileggendo,  di questo post un po' affrettato, messo insieme in una mezz'ora, l'etichetta è: cercare negli interstizi, essere interstiziali come risposta per la sopravvivenza. Siamo tutti braccati - insetti, animali, uomini - e nondimeno si vive.