martedì 25 novembre 2008

Bollettino 13bis - Numero Speciale II: L'Albania dentro


A Cruja Chiara e io abbiamo comprato le magliette dell’Albania, rosse con il simbolo dell’aquila a due teste, e le tazze, per il caffè e il tè. Le vogliamo indossare nel nostro mondo, metterle di là per fare scandalo, rovesciare l’America, per simpatia verso questo paese ultimo tra tutti i popoli dell’Europa, cencioso e rozzo ma vivo, estremamente vivo nella sua istintualità. Chiara ha conosciuto donne in gamba ma che non stanno bene in questa società così deprimente, che vorrebbero andarsene ma non trovano dentro di sé la forza per opporsi. Perché qui – soltanto dopo giorni e giorni si riesce a dare un nome a questa sensazione di carenza - non c’è alternativa, non c’è opposizione, non c’è alcuna utopia: qui c’è soltanto una fortissima spinta all’omologazione. Non ho idea di quanti e come cerchino di contrastarla, con che mezzi e quanto successo. Come che sia non si vede. Le donne, per esempio, non hanno i decenni di femminismo e rivalsa alle spalle, non hanno ancora imparato a buttare fuori tutto quello che sentono, a credere in se stesse. Viene data loro come unica carta quella della sessualità, con tutti gli invischiamenti che comporta, tacchi alti e trucco curato; proprio come per l’uomo ci sono soltanto cellulari e suv. Il paese è pieno di autolavaggi, basta l’acqua compressa e una spugna, olio di gomiti, e qualunque ragazzo può guadagnare come e credo di più che a lavorare in fabbrica. Le mercedes nere, ultimissima generazione cattiva, e ce ne sono tantissime, dopo un’ora di traffico sono di nuovo sporche, e allora occorre lavarle di nuovo, tanto per chi le ha non costa nulla, e lavarle ancora, e ancora. Continuare a pulire, pulire e incerare, come rituale di purificazione, di potenziamento e ricarica di un mana applicato al nuovo idolo da rendere luccicante, automobile… Un rituale ossessivo, senza speranza di giungere a un termine, come il gesto di un animale nevrotico… che non porta a nulla, che non dà altra gioia se non il vederne nell’immediato l’effetto, del rispecchiarsi nell’atto mancato, perché dopo un’ora la macchina è sporca di nuovo. Nulla qui arriva a termine, si corrompe prima, non si tolgono le protezioni di plastica dai pannelli cromati, per esempio delle porte e degli ascensori, perché si usa tutto subito e poi non ci si pensa più, i cantieri dei palazzi in costruzione sembrano già rovine. L’imballaggio diventa subito scarto, monnezza, il nuovo langue e arrugginisce, diventa maceria. Ognuno costruisce, disfa e forca come crede, per ottenere la possibilità di farlo basta pagare. La corruzione viene riconosciuta ed elevata a motore del sistema. Ci sono migliaia di vigili, guardie poliziotti, portieri, e nessuno fa nulla, se non lavorare per garantirsi e garantire i privilegi di chi se li può permettere. Qui si vive tra le macerie del comunismo e la monnezza montante del capitalismo, cellulari, plastica e stronzate di ogni genere. Qui si vende tutto quello che si può vendere, l’Albania è l’Hong-Kong del 2000, ma dietro la porta di casa. È la nostra bidonville, l’a casa dei nostri operai immigrati. Bene, è tutto questo, e questo è il punto: questo, cribbio, è un mondo reale, maledettamente reale. Qui qui qui, i rifiuti li si brucia alla luce del giorno, nelle periferie, non espatriati, o dentro a impianti nascosti, che potrebbero ricordarci gli impianti nascosti di Auschwiz. Il biologico non esiste, se non con il senso di una conquista di consumo iperlussuoso. Qui i cassonetti sono aperti, luogo di scambio in cui la gente getta o prende, a seconda di quello che ha di troppo o di bisogno. Questo è il vero resto del mondo. Non sono favelas, perché qui è tutto insieme, dietro una casa che crolla a pezzi c’è l’ambasciata americana. Ci sono le periferie costruite in due mesi, tutte colorate, che a me risvegliano le immagini dei primissimi anni ’70, quando scoprivo in bici il quartiere Gallaratese. Terra di espansione, e sempre nello stesso senso, tra città e fuori città non ci sono limiti, nel parco cittadino pascolano le mucche, non esistono recinti e strisce che dicano dove finiscono le strade e dove inizia il giardino, non ci sono barriere tra mondo e natura, tutto è giocato tra dentro, dove si tolgono le scarpe e i pavimenti luccicano, e fuori di casa, tutto il resto del mondo è cortile, tutto è zingaro. La monnezza straripa, la vita si riversa sulle strade, piene di banchetti con persone che vendono o lavorano, che smangiucchiano borek, che se stanno seduti perché non sanno che fare. Il paese arabo, l’India e la Cina dell’Europa, l’Albania. Il Gange qui è laicissimo, un rivolo putrido che si chiama Lana, ma sui monti, dopo aver superato periferie, discariche e cave, risalendo strade che sembrano appena uscite da un bombardamento, il verde è tenero, ci sono pini, erba, roccia grigia e dura, ci sono probabilmente ancora gli Illiri.
Ho regalato a Chiara, ora che si è licenziata e verrà via, un portapassaporto albanese di similpelle rossa con la scritta in similoro. Perché in qualche modo si sente il desiderio di farsi ambasciatori di questo paese, vera compassione, non quella pietistica, perché forse avremmo bisogno noi tutti di essere più albanesi, di sentire questa forza di rivalsa, di soffrire per quello che vediamo attorno a noi nell’occidente, che è monnezza come e peggio di questa, solo imbellettata, e quello che è qui è anche da noi, e ci riguarda tanto quanto, e avremmo bisogno di sapere come loro inventare le cose dal nulla – come il cameriere a Dhermì, che quando gli abbiamo chiesto se c’era un dolce ci ha portato un piatto con una mela tagliata a fettine, ben disposte a raggera, su cui aveva colato del miele. Quanto era buono quel dolce, nella sua semplicità autentica di mela vera e miele vero, mangiata su una terrazza sotto cui muggiva il mare nero nero nella notte.

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