venerdì 1 ottobre 2010

Bollettino di Montanda n.28: Le scoperte della marmellata



28 settembre
Osservo il mio vicino che sul tetto sta sistemando una lastra di pietra sul camino, per migliorarne il tiraggio. Per quanto riguarda l’aspetto, stimo ci vorranno un paio d’anni prima che la pietra tagliata a macchina acquisti la patina del tempo. Va così, per tutto ci vuole un po' di pazienza. Stamattina c’erano 12 gradi e tempo coperto, l’aria è rimasta fredda anche se ogni tanto compare uno sprazzo di sole che non fa in tempo a scaldare: fa freddo, ma lui nelle Birkenstock ha ancora i piedi nudi, resiste ancora un paio di giorni, ha detto. Anche questa è pazienza. Sento che ormai è arrivato l’autunno, quello vero. Un po’ in anticipo, forse, ma è inutile lamentarsi, conviene pensare a far spazio nella legnaia e a prepare la stufa. L’inverno, capitasse come l’anno scorso, potrebbe essere lungo. Ieri con la Nat, che ospito per qualche settimana, ho fatto marmellata di corniolo, un frutto poco conosciuto e asprigno, ma buono, assomiglia un po’ alla rosa canina e un po’ al lampone, ma molto aspro, tanto che il frutto crudo è immangiabile. Nel borghetto fantasma, quello che sta a due minuti di cammino dietro casa, c’è un albero che fa impressione tanto ne è pieno: è l’anno dei cornioli, stanno buttando frutti ovunque in maniera mai vista. Nel frattempo Beppe e Nico stanno finendo di sistemare le tegole sul tetto del retro, c’è voluto un bel po’ di tempo, non solo per le varianti e le procedure complesse richieste dalla normativa più recente, cose che farebbero ridere, se se ne avesse ancora voglia, ma anche per il clima, che non sempre li ha aiutati, e i lavori della loro vita, i bambini, la marroneta e tutto quanto può seguire. Finalmente quindi sabato parto e me ne vado al mare, sperando nel frattempo di essere riuscito a sistemare un po’ la strada, che ha bisogno di qualche rattoppo di asfalto in vista dell’imminente stagione delle piogge. Quando tornerò troverò le impalcature smantellate, il cantiere si sposterà all’interno, e quindi dovrei riuscire a iniziare a sistemare il terreno fuori casa, finalmente, a preparare la legna per l’inverno.
Per la prima volta in vita mia mi sono messo a fare marmellate, prima coi fichi neri (nel campo ne ho tre piante che, potate l’anno scorso, hanno prodotto una quantità di frutti ottimi), e poi ieri col corniolo. Mentre raccoglievo i fichi riflettevo sul raccogliere la frutta, un rituale che non compivo con una qualche metodicità da molto tempo – dagli alberi della casa di montagna della mia infanzia (scala, cesto col rampino, nonno che tiene la scala).
Ora, premetto che temo qualche passante casuale (come quel tale che si era affacciato ai commenti del blog il mese scorso) possa credere che mi sia bevuto il cervello e che mese per mese qui a Montaonda passi il mio tempo a riscoprire l’acqua calda (a prima vista l’espressione sembra piuttosto antica, to’). E certo è così, perché le cose di cui mi viene urgenza parlare sono molto semplici, elementari, direi; e non di meno fondamentali, almeno per me ora. Tra l’altro sto leggendo un libro molto interessante di Lowen, lo psicologo americano che ha gettato le basi della bioenergetica, quella branca della psicologia che si pone come obiettivo di riscoprire il corpo e rivendicare la sua importanza nella nostra vita. Anche questa, detta così, sembra l’acqua calda, ma non lo è affatto, anche se oggi le sue scoperte, che risalgono agli anni ‘40-’50, ci paiono ovvie e acquisite (spero).
Ebbene raccogliere la frutta, e in particolare quella selvatica, come il corniolo, e quindi le more, la rosa canina e quant’altro di più o meno spinoso abbonda in questa landa selvaggia di Toscana, è un gesto e un rituale antichissimo – lo abbiamo studiato il cosidetto livello evolutivo (ahah! vien da ridere pensando dove siamo finiti) della “civiltà di raccolta” – prima che l’uomo inventasse l’agricoltura. Ma noi lo pratichiamo con ben altro spirito, andando per funghi, o per mirtilli, più in una prospettiva di saccheggio vacanziero, di escursione fuorisede, e non invece in quella della raccolta del frutto spontaneamente offerto e proteso dagli alberi e cespugli, alimento e nutrimento spontaneamente donato dalla terra e dai sui abitanti vegetali (pensiamo pure alla misteriosa enigmaticità culturale del fungo, questo ente che assolutamente fa impallidire gli ignoranti come me, quando pensano alla sua classificazione nella famiglia dei viventi – dubito persino che sia un vegetale!), della raccolta del frutto dell’estate, ovvero dell’anno, succoso o secco, trasfomabile in farina o marmellata, scorta e alimento per superare la lunga sterilità dell’inverno. Gli scaffali dei supermercati ci fanno dimentichi del ciclo alimentare naturale, ed ecco che appunto la raccolta si trasforma in divertimento con sfumature di stupro (altro che Pan), e la massima prerogativa è quella di non pagare (non a caso le istituzioni di controllo hanno escogitato tesserini e tasse) ciò che si porta a casa. Il dio gratis.
Eppure, in alcune sacche di irredimibilità, di memoria etnogenetica, ecco che a primavera troviamo sguinzagliati per la campagna i cacciatori di cicoria, i cacciatori di chiocciole, di erbe e frutti e di tutto quello che si può ancora considerare selvatico.
E allora?
La raccolta a scopo di alimentazione esiste ancora. Ho provato a immaginarmi vestito di pelli e grufolante, mentre raccoglievo le corniole? No, sinceramente no, però pensando a questo ho colto il frutto provando una chiara gratitudine verso l’albero, che me l’offre senza chiedere nulla in cambio, quindi il frutto come dono, polpa di vita, senza uccidere cuori palpitanti né stroncare vite e organismi. Il frutto, a mio vedere, è uno dei più alti prodotti, rappresenta la più alta risposta naturale al dilemma dell’alimentazione, e così il seme, che non è ancora un organismo, ma solo la potenza di esso. Per mangiare un corbezzolo o una bacca di sambuco, una noce, non uccidiamo quel che non è ancora nato, è un seme tra le migliaia che la pianta generosamente sparge, per riprodursi, certo, ma anche per nutrire noi, creature della terra che andiamo a raccoglierle, con le mani, le fauci, di giorno o di notte, con zoccoli, scarponi o piume, zampe leggere o pesanti. In questi giorni nel bosco stanno cominciando a cadere i marroni, cominciano i sabba degli animali notturni, mi raccontava ieri Beppe, che al mattino si trovano soltanto distese di bucce vuote… e oggi, che intanto è diventato il primo di ottobre, si apre la caccia al cinghiale.


lunedì 23 agosto 2010

Bollettino n. 27: Aggiornamenti senza arte né parte



Che dire della vita a Montaonda? Difficile fare un aggiornamento, preferisco restare sul generale e generico, sono ben quattro mesi che non scrivo nulla, e proprio perché succede di tutto. La tribù dei gatti del vicino è cresciuta, siamo arrivati a cinque adulti e cinque cuccioli. Nonostante le lunghe piogge la tettoia fotovoltaica è finita, manca però ancora il collegamento ENEL (l’intera vicenda meriterà un numero speciale, se avrò la forza di scriverlo), in questo momento sono in corso i lavori al tetto sul retro, stanno giusto cementando le tavelle e domani isolante e guaina, poi si ricopre, lo scorcio in quello che sarà il soggiorno è piuttosto incoraggiante (io, sia detto per chiarezza, non faccio nulla). Dentro casa invece non ho fatto molto, tolto qualche ragnatela qua e là, comprato una sdraio basculante che non è niente male. In cambio ho letto parecchio. Nel frattempo però ho deciso di aprire una mia minuscola casa editrice, sogno segreto di tutta una vita, e ho scelto il primo libro, me lo ha suggerito Pietro; ne ho acquistato i diritti e sto finendo di tradurlo, è sulle api, non un manuale, una specie di memoria del rivoluzionatore dell’apicoltura, un po’ per addetti ma invece anche molto interessante, mi ha aperto prospettive non solo etologiche… spero di stamparlo entro ottobre… per l’impianto eolico industriale sul crinale ancora non è stato deciso, anche se l’ufficio tecnico della Regione ha detto che per loro il progetto com’è non va bene e ha chiesto massicce integrazioni, ma poi l’ultima parola ce l’hanno i politici, sono loro che riescono a fare e disfare le leggi e le norme a loro vantaggio, quindi non è ancora detto che non lo facciano e noi temiamo. Per il resto, l’agosto qui non è niente male, io ho girellato un po’ anche sulle alpi, un po’ anche a Milano, qui ci sono stati anche dei funghi – il vicino mi ha regalato una manciatona di ovuli, che lui, come molti, non mangia, e che io mi sono sbafato allegramente.
E poi finalmente sono passati un po’ di amici e ospiti – di qualcuno dovrei raccontare, ma tutti comunque mi hanno portato molto, perché qui qualunque cosa arriva è benaccetta, per questioni di scarsità, e anche perché comunque venire qui, fermarsi a dormire, in qualche maniera, sarà per la situazione così appartata, vuol dire portarci la propria vita, il proprio modo di essere, salire una china e confrontarsi con certi disagi, che siano i ragni o la casa buia, e non solo e sempre c’è da godere la bellezza che tanto decanto nei miei bollettini. Io, che ospito e osservo, molto imparo, perché Mo è quasi un test di percorso esperienziale, vedo quello che uno vuole fare, come ci arriva, come ci sta, cosa cerca, e vedo poi anche, forse perché qui non ci sono divertimenti o che altro, che ognuno ovunque vada in realtà si porta dietro come uno zaino di disagi che poi, vuoi per il tavolo troppo alto della cucina, vuoi per altre ragioni non così facilmente individuabili in mezzo ai confort, balzano fuori, inesorabilmente, sia che si apra e racconti sia che tenga la bocca chiusa, il fardello si vede comunque. Insomma, come si dice in certi ambienti, qui vengono a trovarmi prevalentemente cercatori - e non solo di funghi, di tranquillità, per lo meno.
Ma molti vedo anche che non riescono a venire, per un motivo o per l’altro, non so se la catena della vita sociale è troppo stretta, se siano le attrattive per loro poco attraenti, o l’abitudine di tutti i giorni, che fa dimenticare di me e del mio rifugio. Poco male, per quanto mi riguarda comunque il tempo è troppo poco, vorrei fare di più, vedere di più, la giornata vola e anche per questo non aggiorno il blog… e quindi accontentatevi di questa specie di cartolina in luogo di una lettera. Ne seguiranno di migliori, spero.

sabato 24 aprile 2010

Bollettino di Montanda n.26: Pelle e prato, il risveglio.


Montaonda, martedì 20 aprile

La prima volta che prendo il sole, ogni anno, significa sentire il corpo che si riapre e riprende contatto col mondo. Mi sono messo sulla cisterna, sul lettino di nylon, vestito perché ancora tossicchiante, e poi perché anche se la giornata è splendida la temperatura dell’aria non è proprio da fine aprile. Per dirla tutta, ci sono ancora le primule in fiore e gli alberi cominciano solo ora a buttare la chioma. Ma quando sento il sole sulla pelle ecco che come per magia tutto il corpo si distende e si rilassa. Tolgo la felpa, e sento proprio attraverso i vestiti il calore che arriva nelle ossa, i tendini e le cartilagini, e sento che spogliarmi è togliermi una corazza anche interiore, fatta di freddo, contratture, infiammazioni e catarri. Mi accorgo che è come se, in qualche modo, pure io sbocciassi e cominciassi a lavorare dentro per metter foglia, e mi viene il pensiero che la mia pelle è come un prato di fine aprile. E questo rinascere della pelle al contatto col sole automaticamente mi riporta sempre e immancabilmente all’ultima giornata in cui ho preso il sole in autunno, sicché chiude un ciclo e ne riapre un altro. Quello che si riapre, proprio in grazia delle diverse condizioni del corpo, del suo sentire e sentirsi nel mondo, è l'interconnessione cosmica, e se ci penso non esito a dire - senza vergogna - che lo vivo come la ripresa di un viaggio mistico, non so come dire, tra Tarkowskij, Moebius e Odissea 2001: dietro agli occhi chiusi la mente diventa un pappa lallante, mentre partono i fosfeni zanzottiani, e tutta la pelle è premuta dalla passione energetica del sole.
Sento il fiume, la motosega lontana, gli uccellini, rumori che mi ricollegano e conducono ai mille soli che ho preso, al mare, in montagna, esplosi in me dietro le finestre aperte in città, alle miriadi di immagini azzurrate viste tra gli occhi socchiusi, ai mille sudori sudati su lettini, spugne, spiagge o prati di questa ormai, se ci penso, lunghissima mia vita.
È un modo di riscoprirmi, sentirmi dopo non essermi più a lungo sentito. E tutto è riunito e tenuto da quel nudo essere lì, pelle premuta dal sole, respiro, esistenza ridotta al suo grado zero, immobile presenza e risveglio, come se il sole mi rianimasse e rifacesse corpo, con una flebo. Oggi, questa volta, quest’anno, avviene con contorno di gatti, famelici e pazienti, le medaglie del papa in fiore, una vera invasione color indaco, le violacciocche e il tarassaco, persino i tulipani che mi aveva portato Chiara dall’Olanda, dimenticati e sepolti, spariti, che stamattina mi hanno sorpreso con la loro macchia di colore in mezzo all’erba rinverdita. Le cavolaie si inseguono tessendo mille effimeri ricami sul verde intensissimo dell’erba e tra gli ulivi cinerini, e io sono una lucertola in più (da dove mai le verrà questo nome luminoso, per me così prossimo), di questo mondo che tutto si riscalda e riscuote dopo un lungo inverno. Allungo una mano sotto il lettino e tocco il piano di cemento vecchio della cisterna, tiepido come un corpo, ed è una presa di contatto con la realtà materiale, solida e dura come è il cemento, quasi una pietra creata dall’uomo artefice. Poi tocco il tronco di legno vecchio e annerito della panchetta sospesa, anch’esso già caldo, ed è un toccare fiducioso, da corpo a corpo, quasi una trasmissione di energia da materia a materia.
L’aria si ingentilisce di voli di api e calabroni. Tolgo le calze, apro la camicia, chiudo gli occhi.
Respiro, respiro, respiro.

Domani verrà Ilario, con l'escavatrice, per preparare il basamento dell’impianto solare. Scusate l’intervallo eccessivo, e chissà se riuscirò a recuperare la cronaca dell'accaduto. Davvero, c’è anche da finire la terza puntata dell’Annapurna, che è lì, nel cassetto.


giovedì 18 febbraio 2010

Bollettino di Montaonda n. 25: Intermezzo di quotidianità appenninica



Montaonda, 14 febbraio
Sì, ci sono ancora, semplicemente mi sono incantato e non riesco a produrre il seguito della camminata verso l’Annapurna - mi sa che ancora le cose devono sedimentare: pazientate. Riprendo così i miei racconti di vita in Appennino. Non che ci siano enormi novità, più che altro nevica e fa freddo, il tempo favorisce il letargo e la lettura, si mangia e si dorme un po’ troppo, si rimanda tutto il resto a primavera.
Non proprio o non del tutto però, nel senso che qualcosa succede sempre, ogni giorno. Per esempio lo scorso weekend con l’aiuto del bravo Andrea, a Campicozzoli i Suonatori terraterra ci hanno riprovato, per la terza volta (la prima cent’anni fa, quando io ancora non c’ero, con l’aiuto del famoso Fabio produssero un cd amatoriale, andato presto a ruba e mai pubblicato, poi due annetti fa col celebre Mirco, che nonostante sia stata una bella esperienza – registrare tutta la notte in mezzo al prato con 5 microfoni per tutta la banda - non era certo materiale da far uscire), e forse ora si farà un disco (chissà, e che strana questa storia, di un gruppo scasso che viene registrato da fonici di lusso e cionondimeno non ne fa nulla). In realtà dal gruppo io sarei uscito la sera del 25 aprile scorso, però ho fatto ancora un paio di suonate in onore di Ivan (e me lo immagino spaparanzato in paradiso a sghignazzare, ma sempre con rispetto, di noi meschini), e appunto queste registrazioni, perché insomma, erano pezzi dove c’avevo messo il mio (oddiosanto, com’ormai parlo toscano!).
Poi sto lavorando un po’ sul frangente dell’antieolico, in questi giorni con Roberto abbiamo finalmente finito un pieghevole – a me sembra abbastanza pregevole: andate a vedere, www.fermiamoilmassacro.org - sulla nocività delle torri che falciano i volatili, piombando dall’alto come una ghigliottina, in particolare gli ormai rari rapaci e i migratori, che veleggiano in mezzo a difficoltà e disorientamenti di ogni tipo, per non parlare dei pipistrelli. E poi col comitato si stanno preparando altre cosette, che spero presto vedranno luce e fortuna, anche se l’ombra nera delle pale a ghigliottina incombe sempre più minacciosa (ho scoperto che probabilmente dal retro della casa se ne vedrebbero due di sguincio).

Ma non solo questo, per fortuna. Ieri, che era sabato e c’era finalmente un sole splendido, dopo aver lavorato tutta la mattina per sistemare la contabilità, essere andato in paese a consegnarla alla commercialista, mi sono comprato un bel tocco di schiacciata (ovvero focaccia) e balzato in macchina ho oltrepassato il Muraglione, fino a Osteria nuova. Il giorno prima aveva nevicato, ma di neve e ghiaccio sulla strada era rimasto ben poco, giusto sulle curve in ombra. Troppo poco per i miei gusti, che ricordo a stento com’è bello guidare sulle strade innevate, senza nessuno tra le palle (va detto che per la prima volta in vita mia a dicembre ho addirittura montato le gomme da neve, e finalmente la cosa ha avuto una sua ragione). Da Osteria ho indossato le ghette nuove nuove, e ho preso il sentiero che risale il vallone di Soia, dentro al Parco, che porta all’Eremo dei Toschi, dove abitano Paolo ed Elisa, gli amici che fanno i formaggi di capra. Erano una decina di giorni che ci si voleva vedere, ma loro sono bloccati causa neve. E così ho tentato la via ignota, seguendo le tracce che qualche ora prima sapevo aveva lasciato Andrea (non il musicista, questo viene da Bologna). Trenta centimetri di candore e man mano di più; salire nel silenzio totale è sempre un’emozione, profanare la coltre immacolata della neve è come introdursi in un sacrario, in un mondo trasfigurato che non è più nostro. Il riverbero era accecante, la solitudine perfetta, l’aria fredda ma il vento moderato. Cercavo anche la casa di un altro Paolo, amico del comitato, che è lungo via, ma non l’ho identificata. Volevo fare una pausa da lui, ma dopo un’ora ancora non la trovavo e cosi, traversati i due valloni con ruscelli, risalendo la faggeta volta a nord, mi sono detto appena sbuco sopra, dove vedo scintillare il sole, mi fermo e faccio pranzo, con schiacciata e arance (lasciando la macchia colorata delle bucce sulla neve), ma poi, quando sono arrivato su è comparsa una casa – ed era già l’eremo: sono arrivato mezz’ora prima del previsto, una bella soddisfazione. Così ho scroccato un po’ di zuppa, ho fatto le mie chiacchiere e dopo un paio d’ore sono tornato giù, rapido rapido, prima che calasse il sole. Informato sulla casa di Paolo da lontano gli ho lanciato un urlo, e mi hanno risposto i cani, ho scavalcato il cancello e lui mi è venuto incontro. La neve blocca anche lui, ma la statale sta a soli 15 minuti di cammino. Mi ha portato in giro per il podere che sta rimettendo in uso, facendomi vedere il rudere che sta sistemando, indicando il bosco e gli alberi da frutta; d’inverno abita nella porcilaia trasformata in un confortevole monolocale. Paolo, che viene da Ferrara, è sperimentatore di permacultura, un vero rivoluzionario verde. Mi ha prestato una rivista che si intitola terra selvaggia, e ha per sottotitolo pagine anticivilizzatrici. Voleva darmi anche un cucciolo di pastore maremmano bellissimo, davvero un tesoro; col muso più grande del corpo sembra un piccolo di orso bianco... mi ha offerto una tisana e mi ha raccontato i suoi giorni, trascorsi senza vedere nessuno, finché si rompe, scende alla strada e prende la panda e fa visita agli amici. Sperare che la gente arrivi quassù è inutile, già faticano ad arrivare in estate…
Così è l’inverno in Appennino, dove gli uomini si lasciano crescere la barba. Il mio altro vicino, musicista reggae, mi raccontava che nel vallone di fianco al mio, quello che sale e sbuca alla terrazza del Cavallino, fino a pochi anni fa c’era un eremita, che viveva in una grotta. Un barbone, certo, si sarebbe detto altrimenti. Ma ho già sentito storie di eremiti in tempi recenti, e anche quando stavo a Campicozzoli ricordo che era passato un tale, magro magro, che andava a dormire nel fienile, e poi il giorno dopo era sparito. Storie di cui non si sa nulla, ma il fatto che non le si racconti non vuol dire che non esistano... esiste sempre un mondo parallelo che lascia poca traccia.
Quanto alla casa, ancora sto aspettando che mi montino la tettoia fotovoltaica, faccio finta di niente ma pian piano questi continui stop burocratici cominciano a darmi sui nervi. In cambio, con l’aiuto del mio vicino falegname, la cucina si è arricchita di un paio di armadietti assai carini, una madia e un ripiano con sportelli sotto la finestra.
Per il resto non ho fatto molto, giusto tagliato un po’ di legna per scaldarmi mentre leggevo libri su libri. Qualcosa di buono si trova sempre. In priimavera si vedrà, pulirò un altro poco di terreno sotto casa e forse proverò mettere a dimora delle piante. Già, ma con i branchi di cervi che girano sotto casa sarà forse inutile, se prima non costruisco un recinto di quelli robusti. Con questi freddi gli animali di notte arrivano fin sulla soglia di casa, mi brucano il rosmarino e la lavanda, anche il prezzemolo e la rucola – devono aver proprio fame! - le foto le ho scattate due sere fa dalla finestra. Le ho schiarite giusto un po’, era già quasi notte. Ne ho contati otto, due maschi di cui uno giovane. MI guardavano e non si muovevano. Naturalmente mi stanno rovinando tutti i pendii erbosi, perché la neve sciogliendosi ammolla il suolo e col loro dolce peso i cervi smuovono tutto il terreno, e non si curano di passare sui sentierini che sto cercando di segnare. Gli ho tirato dei sassi, si sono dati con due balzi tranquilli alla fuga. Boh, vedremo a primavera.
Ecco fatto, ho finito di scrivere mentre cucinavo: crepes di farina di castagne col cumino, riempite di zucca sminuzzata e saltata con cipolla, sale aromatico e peponcino. Un bicchiere di barbera extra da far schioccare in bocca, quattro noci della Greta con un po’ di pane per chiudere. Wow.
La mia settimana bianca, a chilometri zero.






Le foto
in apertura: gelo a Campanara. In chiusura: dalla finestra della stanza degli ospiti

lunedì 18 gennaio 2010

Bollettino di Montaonda n. 24 bis: Seconda giornata (Annapurna Sanctuary II)


6 dicembre

Oggi si entra davvero nel santuario dell’Annapurna, mi fa capire Surya. Per cominciare da Jhinu dobbiamo arrivare a Chhomrong, due ore di salita secca, dice, e mi fa guardare in alto, proprio sopra di noi, in cima alla ripida dorsale che si innalza si intravedono dei tetti, ecco il punto in cui dobbiamo arrivare. Ci muoviamo, e subito il sentiero si trasforma in una scalinata di pietra pressoché continua, che attraversa campi a terrazzo e bosco verticale (sissignori, in Nepal la vegetazione è talmente rigogliosa che cresce anche in verticale - credo che capti l’umidità dalle foglie). Bisogna moderare passo e fiato, è la rampa di un tempio atzeco, continuo a ripetermi, mentre entro in quello stato di leggera catalessi che caratterizza questo tipo di sforzo, ripetitivo, ritmato, che favorisce lo svuotamento mentale. Il fiato, il passo sempre uguale, e niente altro, lo sforzo si mantiene costante e tutto il resto si ferma, si perde la cognizione del tempo, insomma, una vera e propria forma leggera d’ipnosi. Si può pensare, ma con davanti una giornata intera pare superfluo. Meglio assorbire l’aria del mattino, aprirsi e lasciarmi entrare dentro il mondo così come si presenta. Non ho bisogno di guardare l’orologio, anche perché sarebbe deprimente. Lo sguardo è chino, fisso sui gradini irregolari su cui poggio i piedi. Vedo e non guardo, pietra dopo pietra, la scalinata scorre sotto di me, la sento resistere sotto i talloni, sale nelle ginocchia, nell'articolazione del bacino, sulle mani e nei fianchi, nei polmoni, mi compenetra in ogni parte. Decine, centinaia di passi in salita. I gradini sono irregolari, massi di pietra grigia, compatta e pesanti, incastrati si tengono gli uni con gli altri, il sopra tiene il sotto e viceversa. A volte sono così ripidi e alti che viene da salirli di sghembo, quasi da appoggiarci una mano per tirarsi su. Penso a chi nei secoli ha costruito queste strade, a chi le mantiene in efficienza. I nepalesi spaccano la pietra a colpi di martello, l’ho visto, ne fanno ghiaia, gradini, mattoni. Ogni tanto, ovunque vi troviate, si sente risuonare la punta di ferro, il martello che batte.
Di fianco al sentiero passano dei fili che portano elettricità, sono quattro, paralleli e uno sopra l’altro, sembrano di acciaio intrecciato, e la cosa strana è che sono ad altezza d’uomo: se volessi basterebbe sporgermi sul bordo dal sentiero, alzare una mano e toccarli. Non ci sono cartelli, nessuno tipo di dissuasione. Sui pali di metallo vedo soltanto il simbolo della spirale, che sarebbe poi il terzo occhio. Noi ci mettiamo il teschio con le ossa incrociate, e visto da qui, da questa prospettiva nepalese, sorrido, mi sembra la bandiera dei pirati. L’elettricità ho visto che la ricavano dalla caduta dell’acqua, abbiamo superato un paio di piccoli impianti a turbina. Con tutta l’acqua e i dislivelli che hanno potrebbero fare opere grandiose – grandi dighe e sbarramenti - ma per fortuna ancora non li fanno. E a Kathmandu ogni giorno c’è il blackout, tra le 5 e le 7 di sera la luce può andare via da interi quartieri. Non ne hanno abbastanza, sembra. Visto l’orario sembrerebbe che l’uso dell’elettricità sia prevalentemente domestico: e in effetti nei miei spostamenti per il paese non ho visto che due o tre fabbriche o aree industriali. Nulla che consumi elettricità, e anche di treni non ne esistono. Qualche laboratorio, officina, al più cementifici, fornaci di mattoni. Ho l’impressione che il Nepal importi tutto (dall’India): tessile, plastica, meccanica e ovviamente tecnologia. I giovani nepalesi vanno all’estero a fare gli operai, in Thailandia o Korea; sei mesi, poi tornano con i soldi. Ne ho incontrati in aereo che tornavano dagli emirati. Anche Surya l’ha fatto.
Dove non passano ruote per noi quelle non sono strade, ma sentieri. E invece qui sento che non è giusto chiamarli così, i sentieri qui sono strade e meritano il nostro rispetto (se sappiamo amare i sentieri) perché mettono in comunicazione villaggi e città, sono il vero reticolo delle vie di comunicazione, come sono sempre state nei secoli. Ogni giorno queste strade strette, storte e piene di gradini, con angoli pittoreschi che mi fanno pensare a Gauguin, vengono percorse da centinaia di persone, movimentano merci, attraversano paesi, dove su di esse si affacciano negozi, osterie e locande. Si affacciano ed entrano nell’aia delle case, passando di fianco a bambini vestiti di stracci che giocano nella polvere, a galline imprigionate sotto le ceste, a bufali neri che ruminano accovacciati guardando la gente che passa. Non sono affatto come i nostri sentieri (segnalatissimi, per l’amor di Dio, ma ormai ridotti al fiacco e sporadico uso turistico, con cartelli e segni bianchi e rossi, ma sempre a rischio di sparire): qui la strada è viva, pisciata d’acqua, segnata d’impronte, e dove c’è uno smottamento presto si appiana, dove una pietra esce di sede viene sistemata da una mano invisibile. La strada è un bene prezioso, uno strumento di lavoro, non di svago. Se ci si siede a prendere fiato, tempo qualche minuto e passa qualcuno. Namastè, namastè.
Che fatica scrivere tutto questo quando, anche a a distanza di un mese, è ancora così vivo negli occhi! Gradino dopo gradino ci innalziamo, e neanche tanto lentamente: a un bivio, in mezzo al sentiero, vedo una strana congerie di piccole cose, foglie, un fiocco di lana rossa, due peperoncini con due piume bianche piantate al centro di una barchetta fatta di foglie. Surya dice bad bad, very bad, e d’improvviso non mi sembra più quel giovane moderno e spiritoso, che camminando ascolta la hit del momento dal cellulare (gli costa solo 1 rupia al minuto), di colpo ecco un indigeno che dice buana cattiva magia nera, storce tutto il viso e quasi si mette a piangere (ecco, ora capisco che in questo mondo siamo tutti mascherati dietro vestiti e accessori, e solo a tratti viene fuori il legno vero di cui siamo fatti). Sì, ho capito, è un accrocchio magico, un malocchio, una fattura, chissà, non penso di farmelo spiegare, Surya vuole solo allontanarsi. Lo fotografo, ovviamente, e intanto penso ah ah, quella roba lì può fare del male!? E ora aggiungo, non c’è nulla da fare, puoi studiare quanto vuoi le religioni, gli usi e i costumi, quando poi è il momento l’impatto con la realtà non si può spiegare, o ci sei dentro e la vedi, o ne sei fuori e resti cieco, questo mi dice la barchetta magica.




A Chhomrong arriviamo poi in un’ora e mezza, sono fiero di me. Girando dietro il contrafforte che nasconde la conca ripida in cui sorge il villaggio, l’Annapurna Sud ci appare proprio di fronte, in tutto il suo bianco splendore (è la foto in apertura, e come al solito non rende niente). Solo sulla carta scoprirò che la vetta dista dai noi 10 km!
A Chhomrong convergono dalle vallate circostanti i diversi sentieri che si riuniscono e proseguono in un'unica traccia fino all’ABC. Anche per questo aumenta il numero dei turisti e quello dei portatori. Chi va su, da qui deve ritornare lungo la stessa via. Ci fermiamo a bere una lemon water (è la mia scoperta del giorno, ho visto che la beveva Surya e ho voluto provarla anch’io, sono stufo di bere sempre tè, e mi nego le bottigliette). Dalla terrazza si può scorgere la parte più alta della valle in cui dobbiamo proseguire, da qui in due o tre giorni si arriva al Campo Base. È una valle stretta e brulla, l’erba e gran parte della vegetazione è secca per la stagione invernale, il fondo è una gola da cui si levano bastionate di roccia che si innalzano oltre i 4000 metri e nascondono le vette, lunghissima – si intravvedono la traccia del sentiero e i tetti delle varie tappe.
Beviamo rapidamente e poi via, si scende una scalinata vertiginosa e lunghissima, attraversando villaggi e campi, perdendo praticamente tutta la quota conquistata, si arriva a un ponte e poi di nuovo, dovremo risalire. Durante la lunga discesa ho capito che mi conveniva imitare la tecnica dei nepalesi, praticamente gli scalini si scendono di corsa, come da ragazzi, perché in questo modo non si deve scaricare il peso a ogni passo – per fortuna non ho problemi di ginocchia e di gambe, solo lo sforzo della velocità mi obbliga a fermarmi ogni tanto a riposare. Avere rinunciato agli scarponi in favore delle scarpe da atletica mi aiuta considerevolmente.
Il villaggio è grosso e sparpagliato, l’ultimo con telefoni, negozi, l’ultimo abitato per fini non turistici. Da qui in poi troviamo soltanto case isolate di contadini, con il bufalo che pascola poco distante, l’orto, i cespugli luminosi di tagete, i lodge per turisti. Le case lungo le quali passiamo sono bellissime, in parte hanno il tetto in paglia, altre in lastre di pietra, altre in stuoie intrecciate. E tanti fiori colorati, dappertutto.




La risalita è micidiale, anche perché ora è giorno pieno e il sole picchia (quelli della foto sono due turisti, ma siamo passati proprio di lì anche noi). Procedendo così piano, conquistando il proprio cammino metro dopo metro, si incontrano tante piccole sorprese. Una ad ogni passo, praticamente, e si ha anche il tempo di assimilarle, di inghiottirle, mentre la saliva, quella mi manca. Anche se poi, per la mia soddisfazione, basterebbe tenere presente, percepire il fatto che a pascolare nei prati, ruminando erba ormai secca, ci sono bufali neri, e non mucche; che ogni pianta, ogni fiore, è diverso da quelli cui sono abituato. Alcuni alberi, isolati, sono giganteschi e coperti di liane. Le bastionate di roccia sopra di noi sono di dimensioni immani, e si aprono verso l’alto in valloni improbabili e misteriosi, raggiungendo quote improbabili.
Mentre ci sta sfilando incontro una comitiva di una ventina di giapponesi ecco che dall’alto, sopra il sentiero polveroso, piombano giù tra di noi quattro ragazzi, vociando, da una scarpata coperta di cespugli di bambù che a me pare impraticabile, fionde alla mano, stanno braccando un uccello che sarà grosso – lo vedo quando esce disperato da un cespuglio in cerca di scampo – come un merlo. Sembra una scena di Rashomon, e in un fulmine spariscono. Naturalmente hanno jeans e magliette colorate, in stile globalizzato, ai piedi ciabatte di plastica. Non erano bambini, ma ragazzi che stavano cacciando sul serio. Con la fionda. Un uccelletto. E io? Io che ci faccio qui, in questa scenario? Interdetto, riprendo a camminare, commentando l’apparizione con Surya.
Attorno a noi, una volta fuori dal coltivato, nonostante le pendenze spesso proibitive, regna la giungla, con felci, alberi rigogliosi, bambù. Gli chiedo degli animali selvatici e Surya mi dice che ce ne sono di tutti i tipi, dai cervi, alle scimmie alle tigli. Tigri? Sì, certo. Ogni tanto rubano qualche animale e di notte, per paura della tigre, nessuno se ne va in giro. In effetti sì, me la immagino benissimo una tigre che si aggira per questi boschi. Serpenti anche, ma ora fa freddo e non se ne vedono. D’estate, mi dicono, è pieno di sanguisughe. Accidenti. Ma ora la giungla è fredda, perché copre il sole e mantiene tutta l’umidità della notte. Quasi una nebbiolina. Davvero, dove sono, che razza di passeggiata è questa (eccovi, in massimo compendio, la mia teoria che siamo quello che passeggiamo).




Pranziamo a Niwara, dopo un piattone di spaghetti con le verdure mi sparapanzo col sole sul coppino, i piedi su una sedia di plastica uguale a quella dove sono seduto, e resto a sonnecchiare. Il Machhapuchhre appare ora molto più vicino, i nevai della vetta-pinna risplendono al sole. Guardo in dentro nella vallata, Syria mi indica una macchiolina azzurra: lì c’è Bamboo, la nostra meta per oggi (nella foto in alto sullo sperone in primo piano si vedono dei puntini bianchi: sono uomini…). Altre tre ore su e giù, up and down…
Poi, dopo una lunga rampa in discesa di fianco a un campo di fieno secco, arriviamo quasi all’improvviso a Bamboo Lodge, 2600 m, che sorge in mezzo a un verdissimo bosco di grandi bambù. Wow, fermi. Anche oggi è stato molto faticoso, anche se Surya ormai mi ha persuaso e lui porta il mio zaino e io il suo, è solo un modo per distribuire meglio le nostre forze. Ho fatto fatica ad accettarlo, all’inizio, ma poi il sollievo è evidente. Lui è soddisfatto di me, dice che cammino bene (lo credo, con tutte le montagne che mi sono scammellato nei miei 40 e passa anni di camminate!)
Abbiamo fatto in due giorni tre tappe, si va in fretta perché ancora non sappiamo quanti ce ne restano, possono richiamarlo da un momento all’altro a Katmandù per l’esame, ma da bravi nepalesi aspettiamo che la cosa accada, e intanto andiamo avanti come se non fosse. Forse sto esagerando, penso, la sera sono parecchio provato, e forse comincio anche a sentire un po’ la quota. Ma sento forte il desiderio di andare avanti, perché ogni svolta della strada è la scoperta di un nuovo mondo: il paesaggio (che termine insulso, qui, neanche natura va bene, perché il dominio è totalmente suo, quindi meglio dire: quello che incontro) cambia continuamente, le prospettive si aprono e le montagne invece di abbassarsi s’innalzano.
Basterebbero altri due pernottamenti e, se reggessi la quota, sicuramente potremmo arrivare alla meta, Annapurna Base Camp, 4100 m - ma dubito di riuscirci. Surya mi spinge a proseguire, e io mi impegno. Il presentimento è di essere vicino al limite delle mie capacità fisiche, di camminare su uno spartiacque, da un lato una valle tempestosa e buia, la sofferenza e il male, dall’altro l’aria rarefatta e la luce, il ghiaccio e il paradiso. Io ho scelto che voglio il paradiso e allora, me ne accorgo qui, in questo pellegrinaggio, devo accettare oltre al giorno anche la sua notte: quante volte accettiamo rischi anche maggiori, semplicemente andando in macchina al lavoro, in bici, prigionieri della nostra cazzutissima “società del rischio”? E perché non dovrei accettare il rischio di sciupare la mia vita, magari con un infarto, un malore più che plausibile per un uomo di mezza età, uomo che proprio ora che è in vista di un’esperienza intensa, che in fondo è tutta la vita che sto aspettando? (senza aspettarla, ma mi covava dentro!)
È strano, penso ancora di notte, quanto forte sia il contrasto tra il giorno, caldo immenso e luminoso, e la notte, fredda buia e angusta come le camerette dei lodge, come il mio sacco a pelo. Anche questa diventa una scansione forte, di giorno cammino senza sosta, dimentico di me, di notte sto immobile a pensare.




Mi vengono in mente persone e cose dell’Italia ed è come se vedessi tutto con maggior chiarezza, dall’alto. Scorci dell’infanzia, luoghi, persone. Dopo un breve riposo andiamo a cena, e osservo Surya che mangia con le mani, come fanno tutti i nepalesi, prendono con la punta delle dita un po’ di riso e lo pucciano nel sugo. Potrei provarci anch’io ma non mi viene, sento che non è mio, sarebbe solo un modo per scimmiottare lui. Restassi più a lungo, arriverebbe anche questo, ne sono certo. Ma fare le cose per finta, questo no.
Tutto qui sembra più vero, più autentico, genuino, immediato. Guardo la cameretta in cui mi ritrovo: divisori di legno, mattoni imbiancati di calce, tende, una lucina. Appena l’indispensabile. Forse sono la fatica, forse il posto, le condizioni di privazione ed essenzialità che mi ispirano questi pensieri. Forse l’avere attraversato villaggi dove si batte il raccolto sull’aia, dove si usano i bufali e un aratro primitivo per arare, calcandolo coi piedi nudi. Chissà. Da tutto questo viene voglia di provare il Tibet (anche se poi ho capito che è diverso, non solo agricolo ma anche pastorale, e anche per questo molto più vicino alla Mongolia).
Ecco, credo che buona parte del fascino di questi posti venga dall’essere quello che noi non siamo più e non potremmo mai tornare ad essere, uomini naturali – se capite cosa voglio dire, persone, appunto, persone che vivono in diretto contatto con la natura, che non hanno bisogno di lasciare il loro villaggio, non hanno bisogno di nulla di quello che abbiamo noi. Che non hanno nessun bisogno di noi.
La notte è lunga, perché mi infilo nel letto verso le 7 e ci resto fino alle 6; piena di sogni, e ogni volta che mi risveglio sento cadere ininterrotta la pioggia. Il caldissimo sacco a pelo mi avvolge in un involucro quasi amniotico: dormo in totale abbandono per ore e ore, ma la notte è lunga e lunga e lunga, lunga quanto il giorno. Al mattino, poiché sento ancora la pioggia scrosciare, sono convinto che dovremo tornare indietro per il brutto tempo. Invece quando alle 6.30 arriva Surya per svegliarmi mi dice che è bellissimo, e immediatamente capisco che ho sentito tutta la notte il rumore dell’acqua che trabordava dallo scolmo della cisterna, proprio dietro la mia stanza. Il mio udito difettoso ha fatto il resto.


mercoledì 6 gennaio 2010

Bollettino di Montaonda n. 24 Speciale: In pellegrinaggio alla base dell’Annapurna


5 dicembre, prima giornata

Surya, il marito di Kalimaia che si è offerto di farmi da guida, per passare a svegliarmi alle 6 si è mosso a piedi dal suo villaggio, dall’altra parte del lago, un’ora prima. Ha 32 anni, e sta dando gli esami per diventare guida. Mi ha detto che potrebbero richiamarlo da un giorno all’altro per il colloquio finale a Kathmandu, e allora dovrebbe tornare in fretta e furia. A me va bene accettare questo rischio: è simpatico, e preferisco restare solo piuttosto che trascorrere le giornate insieme a uno sconosciuto. Ho anche seri dubbi di riuscire davvero ad arrivare all’ABC, Annapurna Base Camp: sono 4150 m, abbiamo 7 giorni in tutto, non posso affrontare sforzi eccessivi e non sono mai salito così in alto in tutta la mia vita. Ma devo tentare, col passare del tempo, da che sono qui, mi sono reso conto che ci sono soprattutto per questo, vedere un ottomila, avvicinarmici quanto mi è possibile. Me ne sono accorto facendo una passeggiata con Pier a Pame, quando mi sono girato e in quel paesaggio tropicale ho visto l’Annapurna che era sbucato da dietro la collina, una mole improbabile, irreale come un fondale dipinto fino a metà del cielo.
Scendiamo in strada che è ancora buio, prendiamo un taxi (le minuscole Suzuki si aggirano tra le strade deserte di Pokhara alla ricerca di gente che come noi deve raggiungere la stazione dei pullman); siccome sono 40 minuti di cammino non esito nemmeno un istante, avremo già abbastanza da camminare dopo. Poi un’ora e passa in corriera, su e giù, fino a Navipul, un paesone di fondovalle orribile, provvisorio e sporco, da cui si entra nella valle del Modi Kohla, un taglio diritto nelle montagne che porta fin sotto alle grandi vette dell’Annapurna.
Si comincia così, camminando su un largo sterrato pianeggiante, tra chioschi e negozietti, carovane di asini, su quella che è una delle più percorse autostrade del trekking himalayano. Presto davanti a noi, sul lato destro della valle, compare azzurrino il Machhapuchhre, con la sua elegante siluoette sembra il fratello maggiore del Cervino. È ancora lontano, ma svetta da un’altezza per me ancora inafferrabile, celeste, 7000 metri. Lo chiamano anche Fishtail, perché le sue due vette, congiunte da una cresta aerea costellata di canaloni quasi verticali che pare una membrana, assomigliano alla coda di un pesce. È una delle montagne sacre dell’Himalaya, non si può scalare, non vengono dati i permessi.
Dopo una ventina di minuti a Birethanti si passa il fiume e il posto di controllo, che appone un timbro di entrata al mio permesso, sancendo l’ingresso nell’Annapurna Sanctuary Conservation Area. Questo fatto del santuario non credo faccia riferimento al fatto che Annapurna è un altro nome di Parvati, la potente e bellissima dea compagna di Shiva; o forse sì, ma non cercherò di scoprirlo nemmeno nei giorni a seguire. Osservo solo che non è abituale che una dea venga identificata con una montagna (le uniche altre montagne-divinità che conosco, nel Tibet, sono maschili, guerrieri, al più associati in una diade a un lago, un principio femminile). E a pensarci mi sembra proprio adatta a me, che anni fa, sulla suggestione del pensiero di Walter Friedrich Otto, ragionavo e sragionavo sulle montagne intese come volti del divino. Ma a tutto questo stamattina non penso: camminiamo veloci, l’aria è ancora fresca e la strada da fare lunga. Per via si incontra tutta la vita della valle, come doveva essere una volta anche da noi. Poiché non esistono altri mezzi di trasporto, tutto passa a piedi: incrociamo i bambini che vanno a scuola, le comari che vanno a far spese, chi va al lavoro.



Tutto passa sulla groppa degli asini o sulle spalle della gente, che usa una specie di gerla appesa alla fronte con una fascia, bilanciandosi con il torso leggermente piegato in avanti. Dentro questa cesta di listelli di bambù intrecciati ci vedo di tutto: legna, vestiti, sacchi di riso, una tazza del cesso e una nonnina, montagne ben impilate di uova, addirittura 5 gabbie di ferro rettangolari piene di polli vivi, una sopra l’altra, per un totale di una trentina di bestie. Deve essere il cibo per i turisti, mi dico. Eccoli dunque i portatori, i camion dell’Himalaya, la prima cosa che vedo della grande montagna sono i suoi servi. Giovani e vecchi, donne e ragazze, magri ma muscolosi, tenaci, come tante formichine instancabili. Col tempo imparerò a riconoscere i professionisti, quelli che portano per mestiere: il loro carico spesso sono due, tre, quattro zaini di trekker o alpinisti, borsoni impermeabili con le attrezzature per scalare, tende, cartoni di cibo, legati uno con l’altro e appesi alla fronte, come un carico qualsiasi. Camminano spediti a gruppi di due o tre, vedo che sudano e che si fermano spesso, scaricando il peso su apposite panche di pietra ai lati del sentiero. Portano in teoria 20 kg, ma in pratica molto di più, gli permette di guadagnare più soldi. Fanno una fatica boia, certo, semplicemente sono abituati a portare pesi. Ai piedi hanno ciabatte di plastica, raramente scarpe da atletica. Di pelle sono abbastanza scuri, non tanto piccoli; non sono sherpa, questa è regione dei gurung, dice Surya. Il loro è un lavoro logorante ma ben pagato, in una giornata prendono 6-800 rupie, 6-8 euro, che è davvero tanto. E del resto, dentro di me capisco cosa mi colpisce di questo paesaggio umano, il mio occhio ricorda un simile passaggio quando ero bambino, negli alpeggi estivi delle valli dell’Ossola, la gente si muoveva nello stesso modo, al posto degli asini i muli, e trasportava gerle e barcui pieni di fieno, di legna, formaggio, capretti, pane e vino, radio, tutto il necessario, proprio come qui, uomini e donne. I bambini avevano le gerle piccole, qui hanno delle miniceste. La mia memoria risorge in Nepal…



Dopo 8 ore di marcia in leggera salita, addentrandoci nella valle lunghissima e diritta (capo e coda si perdono in distanze azzurrine), la strada sterrata, comunque impraticabile ai mezzi a causa delle molte frane, cede il posto alla mulattiera, e si comincia a fare su e giù per scalinate ripide e lunghissime, superando balze vallette e ponti, frane, scarpate e villaggi, boschi e terrazzamenti, prima di riso poi di fieno, arriviamo finalmente a Jhinu, quasi 1800 m, dove dormiremo. In linea d’aria abbiamo fatto circa 10 km, sui 30 che ci separano dal Campo Base. Jhinu è formato da una decina di lodge, in buona parte di recente costruzione. Sta su uno sperone che abbiamo dovuto risalire e da qui si entra nella parte più alta della valle. Il nome non può non farmi pensare a Janus, e così per me diventa il villaggio-porta: di qui si entra, per haec ad aspera. Guardo la valle percorsa, lunghissima, e di fronte, il pendio della montagna è terrazzato in una maniera impressionante, ci vorranno almeno due ore per risalirlo - sul nostro lato ne è bastata una.
Sono parecchio stanco. Faccio una doccia, mi riposo un po’ poi, alle 19, finito in fretta di mangiare, dopo aver bevuto con Surya una mezza bottiglina di Whisky nepalese, gli dico che per me ognuno di questi istanti è talmente sensazionale che non posso permettermi di sprecarlo al tavolo con gli altri clienti del lodge, a sparare cazzate: lui faccia pure - ho scoperto che conosce tutti, è in buona compagnia. Mi ritiro in camera per raccogliere le idee.
Il lodge mi offre una stanzetta con muri a secco di pietra squadrata e pannelli di legno, due letti, imbiancata di calce. È gelida ma c’è la luce e un pagliericcio abbastanza imbottito. Questa prima notte, lo sento, è una notte d’iniziazione e trasferimento: non sono più in città, ma nemmeno sono ancora arrivato altrove, sono su una soglia. Mi sento solo come capita sempre quando si deve oltrepassare una porta (altro che i metaldetector dell’aeroporto), e capisco che sono qui totalmente per me, per mia unica ed esclusiva volontà (mi confronto con questa cosa, e mi fa uno strano effetto che non so piegare meglio). Questo è il vero obiettivo del viaggio in Nepal, la mia iniziativa. Ecco perché non ho cercato guru, indovini, santoni: mi accorgo ora che sono qui per la montagna. L’ho cercata fin dai primi giorni, quando a Kathmandu si diradava la foschia umida della città e apparivano lontane le vette imbiancate, o quando a Duhlikel scrutavo più vicino, ma sempre lontanissimo, il Langtang. Da sempre, ovunque vado, cerco le vette bianche dei monti.
Stanotte inauguro il sacco a pelo di piumino “-20°”, appena comprato a Pokahra da un commerciante che dopo un lungo tira e molla mi ha detto (certo per blandirmi) che non ne aveva ancora venduti a prezzo così basso; ci entro vestito ma poi e progressivamente mi spoglierò del tutto. È giallo girasole, con l’interno verde muschio, bombato come se fosse gonfio d’aria, e quando ci entro mi trasmette una sensazione di morbida protezione, di calore e relax sconosciuti. Prima di addormentarmi ancora un rito: leggo (altrove ho già concluso che leggere per me è una porta alla meditazione, aprire uno specchio interiore). Entro nel vivo della lettura di Annapurna, di Maurice Herzog, comprato a Pokhara: è il resoconto scritto dal capo della spedizione francese che nel 1950 conquistò la vetta del primo 8000. Scopro un’epopea incredibile, avvenuta solo 60 anni fa (ma sembrano secoli!) in un Nepal ancora medievale, senza strade (nemmeno tra l’India e Kathmandu), con attrezzature e tecniche rudimentali; non abbiamo idea di cosa significasse allora arrivare sotto e poi in cima a un 8000, non c’erano carte, strade, tutto doveva essere scoperto e deciso lì per lì. Era un alpinismo interamente d’esplorazione, più emozionante di qualunque impresa pensabile. Una conquista pagata cara, con mutilazioni e sofferenze lunghissime. Penso a Herzog come a un eroe fuori dal tempo, un Giasone senza nave, e al posto del vello solo una visione interiore – oro puro, che gli è bastata, scoprirò poi leggendo, a farne un uomo fortunato per tutta la vita (ovvero: la felicità di una vita può davvero essere un istante, purché la sua luce continui a brillare…).
La mia notte è lunga, piena di risvegli e pensieri, tra il sogno e la veglia. Il sacco a pelo mi ha coccolato e riscaldato come una chioccia, è chiaro che mi ha procurato uno stato d’incubazione: lo spirito del pioniere francese e dei suoi compagni mi è rimasto vicino tutta la notte. Alle 6, ora concordata, Surya bussa alla mia porta. Albeggia, e prima di far colazione mi spinge sulla terrazza del lodge, per mostrarmi l’Annapurna– ieri era coperta dalle nubi. La cima è enorme, ci sovrasta come la testa di un elefante, tutta rosata. Impressionanti i ghiacciai sulla vetta, come morbida panna sulla roccia nera che emerge tra lo sfilacciato velo delle nubi sottostanti. Sono carico di energia, ma anche intimorito: mi sento proprio come se stessi per affrontare un’iniziazione. (1 - continua?)