sabato 21 novembre 2009

Bollettino straordinario: SCOOP: MARRAZZO INNOCENTE VITTIMA DI UNA MACCHINAZIONE!!

Ecco qua, per stupirvi tutti, mentre attendo l'aereo che mi porterà in Nepal, voglio svelare la verità sul caso Marrazzo. Non sono Nostradamus, e neanche Maigret, e anche la vicenda la conosco solo per sentito dire. Ma visti gli ultimi sviluppi è evidente che:

Marrazzo è innocente vittima di una macchinazione, e qualcuno molto cattivo che gli vuole molto male (chi sia non lo so, e non posso saperlo) ha voluto fregarlo e ha montato il caso, comprando Brenda e la cocaina e manovrando i carabinieri corrotti (o ricattati) ricattatori.
Ecco com'è andata: Brenda suona alla porta, trova il modo di spogliare quanto basta (è il suo mestiere: gli si inginocchia davanti, e comincia ad armeggiare con i pantaloni, non gli ci vuole molto è un gesto che fa spesso, e basta arrivare a calarglieli - o cavarglieli? Boh, le immagini non le ho viste) il Marrazzo (che non conosco nemmeno di faccia, ma che fino a prova contraria è innocente, e di che, poi?) il quale, sorpreso, sui due piedi non capisce, forse ci sta ma forse anche no, e non sa come ritrarsi di fronte a tali inaspettate avances - quand'ecco, in quell'istante, fanno irruzione i carabinieri.

Il gioco è finito: Marrazzo viene ricattato, qualcuno (certo non un amico) gli suggerisce di pagare, facendogli credere che può venirne fuori. Non si rende conto che in realtà la trappola si stringe davvero soltanto ora, perché il pagamento verrà preso come ammissione di colpa. Quando poi tutto viene fuori (e voi sapete come, io no) hai voglia a cercare di spiegare, negare, nessuno gli crede. Il solito amico, o anche nuovi e vecchi amici, il mondo ne pullula, gli fa credere che ritrattare, pentirsi sia la mossa più conveniente. La mamma perdona sempre i suoi figli peccatori: al giorno d'oggi pare che tutti debbano avere una coscienza sordida per forza, e solo confessando la propria colpa, anche quando non c'è (è la morale cattolica), si possa ottenere il perdono e la riabilitazione. Dall'altro lato, lo stesso spietato meccanismo della fobia da pedofilo: se accarezzi un bambino, ti tagliano la mano.

Naturalmente ora Brenda viene fatta fuori (lo spacciatore era già stato eliminato, e Brenda era stata fatta picchiare per rendere la sua fine più annunciata e credibile), per eliminare il vero punto debole di tutta l'architettura (aveva minacciato di dire la verità? Sstava scappando?). Quanto ai carabinieri, se il potere che li manovra è forte resteranno nell'arma, altrimenti avranno coperture e facilitazioni successive (una bella agenzia investigativa?) per ripagare il loro silenzio. Il secondo video non esiste, perché Marrazzo non ha mai avuto atteggiamenti intimi con il trans (e comunque anche se fosse erano affari suoi), ma chi ne parla lo fa per rendere più convincente tutta la vicenda.

Fantascienza? No, semplicità lapalissiana, e fette di salame e fumo negli occhi, gettati a piene mani dai media sugli italiani.
Quindi la domanda da porsi è semplice: CHI aveva (uso il passato perché il fatto è compiuto) interesse a togliere di mezzo Marrazzo? Forse lui lo sa, forse anche no.
La prossima mossa del cattivo (ma è un optional)? Anche qui non ci vuole molto: Marrazzo dà fuori o si suicida. Magari in convento, stile Nome della rosa. Se l'avessero ammazzato subito non sarebbe andata bene. Ora invece il frutto è maturo. Tanto di cappello al cattivo (non per la bravura, se un coglionazzo come me può scorgere il suo losco gioco, ma per i mezzi che riesce a dispiegare - già: chi è che può dispiegare siffatti mezzi?).
Sia detto per inciso: scrivo tutto questo senza averne la minima cognizione, come pura fantasticazione mattutina (ieri sera ho finito di leggere Ammanniti) - che nessuno dunque se la prenda con me, se poi un giorno si scoprisse che le cose stavano diversamente (ma si saprà mai? NO!). Fossi Luca Relli, la puntata sarebbe già bell'e pronta.

Buon divertimento a voi laggiù - io me ne vado a Katmandù

domenica 15 novembre 2009

Bollettino di Montaonda n. 23: In bilico, ovvero più di là che di qua


Sto per partire e un po’ mi spiace, in questo momento i colori del bosco sono al massimo splendore, verrebbe voglia di non far altro che passeggiare col naso per aria. E invece ho un sacco di cose da sbrigare, domani me ne torno a Milano e poi sabato prossimo “stacco l’ombra da terra”, volo a Kathmandù. Ho grandi aspettative da queste tre settimane in oriente, un po’ ho studiato, un po’ mi hanno caricato gli amici che ci sono stati, un po’ ho degli ottimi contatti, perché mi ospiterà l’amica Maria, che è lì da cinque mesi, e poi c’è chi mi ha raccomandato ad altri.
Qui, la situazione che lascio, non è male, in cantina c’è legna a sufficienza per riaccogliermi a metà dicembre anche con pioggia o gelo, anche il vino non manca, e poi tanti progetti e cose in ballo. La lotta del comitato contro l’impianto eolico sul crinale, visti gli ultimi sviluppi, pare abbastanza consolidata: sarà probabilmente ancora una lunga battaglia, ci sarà tempo per fare. Per gli amici del comitato butto lì che parto per un viaggio di lavoro, il Vaticano mi ha incaricato di verificare questa storia delle bandierine nepalesi, che spargono preghiere al vento: si riuscisse ad applicarle alle pale, avremmo preghiere automatiche e gratis, in gran quantità, e questo ci permetterebbe di rivoluzionare tutto l’aldilà ed eliminare la lunga attesa nel purgatorio, garantendo invece una rapida e democratica ascesa in paradiso a tutti, in primis quanti hanno escogitato e realizzato questo bel sistema d’espiazione meccanica. E, mi viene in mente ora, ci potrei aggiungere pure un’appendice di studio su frequenza e incidenza del sacrificio automatico dei volatili arrotati dalle pale (non saran polli ad Escula-pio, ma chirotteri a Padre-pio, rapaci a San Giovanni Paolo Rotondo, insomma, visti i tempi sarebbe anche ora di tornare al sacrificio cruento, no?, un bel brivido religioso, col bollino papale, invece di continuare a massacrarci nelle maniere più invereconde e nichiliste).
Il vecchio e primitivo rosario snocciolato e consumato nelle serate d’inverno davanti a fuoco e castagne finirebbe nei musei, a far da contraltare ai giganteschi marroni dei mugellani ( eggià, il rischio è che l’inferno, con il fragore perenne del mulino-macina del tempo, si trasferisca di qua).


Morsellianità a parte, sono invece un po’ indietro con l’impianto fotovoltaico, speravo di averlo montato per l’autunno, invece non è così semplice, la divina Sovrintendenza al paesaggio, che in deroga al suddetto per priorità di elettrica salvazione umana ammetterà forse pale alte 150 metri, di sicuro mi costringe a costruire i miei pilastrini di cemento, ricoprendoli in pietra, invece di permettermi di usare semplici pali di legno, prendendosi poi per diritto suo ed esclusivo 60 giorni di tempo per non dire nulla, ovvero per non obiettare sul progetto modificato secondo le sue già menzionate richieste e che quindi – salvo uno sia proprio deficiente - dovrebbe già essere perfettamente idoneo. Ma lungi da farmi preda di ugge gaddiane, porto pazienza, e dò solida prova di serafico orientalismo: anche questi mesi passeranno, e in fondo, perché rovinarsi la salute quando posso fare cose molto più interessanti? Per esempio, mentre i pannelli stagionano insieme ai formaggi nell’ombra della cantina, guardo fuori dalla finestra e chiacchiero coi ragni, ce ne sono due che si sono ricavati una specie di bozzolo-nascondiglio di bava sotto la cornice del vetro, e stanno lì da settimane, a guatare, aspettando, anche loro, una vittima (e se non arrivasse?).

Medito, e nella mia frenesia milanese concludo che potrei fondare una nuova setta sincrorientale, proclamarmi pontifex maximus “del Ragno d’oro”, che nella sua sublime epifanesi si dota di buddica pancetta, e di otto braccia, da vero mächtiger Gott (Heil Shiva!). E chi ci dice che il Ragno Guatama non sorrida, pure? Quanto alla danza dell’ottòpede, eh… Potrei quindi riesumare antichi culti misterici greci e salentini, chiamare i miei discepoli Guantanamomanìtes e fondare la disciplina su segregazione, meditazione, immobilità, salvo prescrivere una danza da fare sì carponi ma con slanci e improvvise scosse elettrizzanti verso l’alto, saltando su reti permaflex, sussurrando il mantra bidibodobù - e invece di meditare sulla luce increata del monte Tabor, via a flettere e riflettere sui mille significati del filo di luce (ovvero Luca e l’epifania della ragnatela in faccia, ogni volta che entro nella criptocantina?), quella splendente secrezione setosa a cui sta appesa la vita, ragno imago dell’alpinista che si slancia nell’altissime quote dello spirito – e le parche! Kloto Lachesis e quell’altra… chisselaricorda la terza, che filano e tessono il nostro destino come una copertina e sudario (questa mia frenetica fantasia teriomorfica dev’essere dovuta alla visione della Piccola volpe astuta di Janàcek, cui ho assistito due giorni fa al Comunale, splendida reverie del ’26 sul senso della vita nella campagna morava).
Vedremo, vedremo se tornerò dall’oriente ricco di nuove sapienze antiche (gettate finalmente le vecchie), illuminato o annebbiato, rischiarato dall’aria cristallina delle grandi vette o turbato dallo spettacolo della vita grezza, allo stato puro, dalle omeriche pulci o dai socratici piedi nudi, dai santoni che vivono come cinici, come cani (ricordo una foto di filosofi Bamayana, in Mali, seduti per terra, indistinguibili da poveri senzatetto).
Certo qui lascio, oltre al conto in banca, un forte desiderio di tornare, perché nei momenti di dubbio – o consapevolezza? - mi vedo preso dalla fregola di andare finalmente – ho esaurito le scorte! - a far compere nel grande centro commerciale, ma soprattutto per tornare poi carico di pacchi, e sciorinare sul tavolo e nelle soirees di valle le mille meraviglie acquistate ovviamente per una bazzecola. L’oriente non è in fondo un grande magazzino della spiritualità? Fachiri, lama guaritori, astrologi, sciamani, in Nepal c’è di tutto, chissà quali consulterò e soprattutto cosa mi diranno e mi faranno fare (per non parlare di tessuti, incensi e dei mille altri santini e magici oggetti di cui mi riempirò la casa).


Mi spiace non portarmi dietro il sax (ma forse chissà, troverò la qualche magico flauto), perché ci sto prendendo gusto a studiare, è così bello avere finalmente e di nuovo qualcuno che ti corregge, che ti dice facilmente e con certezza dove stai sbagliando e ti incoraggia a migliorarti (Lucia, la maestra della banda del paese). Suonare uno strumento a fiato è un’emozione particolare, è vibrare, animarlo e animarsi, è come parlare dietro una maschera, l’aria esce dai miei polmoni e diventa suono forte, potente, armonioso (non ancora tanto, però, insomma…). E poi anche Buddha, è certo, in gioventù si dilettava col flauto. Da sempre ho considerato la musica – e proprio la nostra classica - come una delle poche cose decenti risultate dalla nostra sempre più franante (queste frane, queste eterne frane, vorranno ben dire qualcosa, no?) cultura occidentale; infatti tutti ce l’ammirano, un’orchestra di 60 elementi è una vera goduria, nessun'altra cultura al mondo possiede credo un apparato musicale del genere. Non che io speri tanto, perché come diceva non ricordo più chi (forse era ancora Herringel nel suo Tiro con l’arco?) ci vuole anche il talento, e quello è un dono divino che non tutti hanno, io no di sicuro. E comunque non è vero che abbiamo solo la musica, grande castronata ho detto, o forse sì oggi, mi viene da aggiungere, ricordando quando l’amico Marco, esperto di pittura italiana, cercava di spiegarmi i misteri dell’incarnato, ovvero di come in pittura nei secoli si sia imparato a rendere e raffigurare la trasparenza della pelle, la pelle umana, mostrando sulla tela la vita e la sostanza morbida della carne e del corpo, soprattutto femmineo, angelico ma terrestre, un miracolo dell’arte e del talento, senz’altro! Per non parlare della danza, del teatro e del canto delle molte arti! Ma, permettetemi! - nel mondo d’oggi valgono quanto un peto di vecchia. Ahimè, eravamo un popolo pieno di talenti, i famosi Italiani!…

Ecco, si dice che i nepalesi e i tibetani che da loro si sono rifugiati abbiano, almeno fino a pochi anni fa, assai sviluppato il talento per la spiritualità. Quindi me ne vado e vedo, se riesco a racimolarne un po’, e poi vi racconto (e poi mi dicono che non faccio inchieste, giornalismo d’attualità. Mah!).




Ilustrazioni:
Per suggerire riflessioni post-heideggeriane sull’altra nostra specialità d’occidente, la tecnica, e i suoi benefici (tra cui le psicopompiche pale eoliche), illustro questo mio bollettino assai pedante con:
foto 1-2: scattate il giorno 3 novembre, la prima alle 11.22 in uscita da Milano (A1, Melegnano), la seconda alle 14.41 a Montaonda
foto 3-4: illustrazioni tratte da Der Grosse Brockhaus, anno MCMXXXI (stavo sfogliando alla ricerca di un’immagine di Shiva, Schiwa, e m’imbatto nella voce Schlachthaus: al vostro buon talento trarre analogie e conclusioni).

giovedì 22 ottobre 2009

Bollettino di Montaonda n.22: Giornata di pioggia oggi a casa mia, ma forse mi confondo



Giornata neghittosa oggi. Al mattino nubi basse e pioggia, poca voglia di fare. Dovrei finire di riordinare i libri ma non ne ho proprio voglia. È compito immane. Da qualche giorno ho finito di costruire due scaffali – alti fino al tetto! – e quindi ho iniziato a smuovere masse di volumi. È anche il momento in cui dovrei decidere come disporli, e quindi creare nuove sezioni, accostarne altre, unificare gli argomenti che si erano annidati crescendo in luoghi incongrui. Ho anche iniziato a riordinare i cd, anche questa opera doverosa, eliminando depositi provvisori della prima ora. Su e giù dalla scala, bracciate, piene, alcuni volumi sono pesantissimi, altri così leggeri che sfuggono e sfarfallando precipitano al suolo. E chissenefrega. Forse dovrei davvero disfarmene una volta per tutte, di gran parte almeno, che tanto è carta senza valore, chissà se poi la leggerò mai. Moltissimi poi, come capita ai collezionisti, li tengo per ricordo anche se mi sono del tutto inutili. Come un certo libro tedesco sorta di breviario medico degli anni Venti. Ma perché buttarlo? E’ così curioso! E poi, sono quasi tutti (visto che ho cominciato a comprarli trent’anni fa) sono quasi tutti libri del passato. Ma, a pensarci bene, non ne ho tanti anche del futuro? Quelli che non ho ancora letto, quelli che torneranno importanti, come ora tutta la serie sulla caduta del muro di Berlino…(aggià, anche le foto!, ho iniziato a mettere ordine pure nelle foto, a scansire, a partire dai provini sopravvissuti dagli anni settanta, quando avevo i capelli lunghi e abitavo in periferia).
Insomma stamane ne avevo un po’ le palle piene di fare ordine e mi sono buttato sul letto a leggere “La vita conduce la danza”, le memorie di Germaine Krull, fotografa tedesca a Parigi negli anni Venti, uno dei tanti libri che da anni aspettava di essere letto. E mi sono sprofondato nell’infanzia in Slovacchia e poi a Parigi di questa figlia di un ingegnere tedesco, così vicina fisicamente a Gisele Freund, che avevo fatto in tempo a vedere arzillissima vecchietta, e a Philipp Halsmann, il protagonista a me tanto caro dell’ultimo libro di Pollack che ho tradotto (gli altri pare che non interessino più a nessuno, peccato).



Ma poi all’ora di pranzo ha telefonato un’amica per aggiornarmi sul fatto che ieri ha avuto il contratto per tradurre la neonominata premia nobel Herta Müller (e chi se la filava…) e chiaccherando mi dice su, datti da fare, e allora le ho detto (scusate la faticità) ah, ho ricevuto un invito ad andare in Nepal e pensavo di andarci, e lei mi rifà vai, non perdere tempo, se puoi vai. E io sì che posso e quindi ci vado. A dicembre. Poi a pranzo mi sono mangiato della polenta saltata sulla stufa con due uova al tegamino, ho riposato un po’ leggendo e poiché nel frattempo era schiarito ho deciso di andare a vedere se c’erano funghi, che la temperatura è salita, la luna boh, comunque, mi andava di fare due passi nel bosco umido e ho preso il bastone e sono salito verso il Muraglione, puntando alle marronete. Ma dopo i ruderi del borghetto sopra Montaonda – e mi dicevo eccolo qui il mio Nepal, da mostrare, queste rovine che parlano di una civiltà scomparsa, come Macchu Picchu o come si scrive, invase da rovi, ornielli, muschi ed edera, cammino e il movimento mi restaura l’umore, ritira su i muri crollati dei giorni d’inedia, o meglio a spostare libri, che per chi la biblioteca ce l’ha come un peso ancorato nella testa, ne ricava un fastidioso malessere, un senso di nausea e di mal di mare, perde l’orientamento degli orizzonti mentali… arrivato alla svolta per salire sul crinalino ho visto che invece c’era anche un sentiero che proseguiva a mezza costa e l’ho provato, un Holzweg, vediamo un po’, inoltrandomi tra terrazze inselvatichite di ornielli e carpini, l’erba verde, ebbra delle acquate dei giorni trascorsi, il muschio ringalluzzito e soffice come un cuscino. Ma guarda, il sentiero taglia e scende, e arrivo sopra la prima delle castagnete della valletta di Onda, e sta a vedere che magari trovo anche dei funghi. Invece niente, di porcini intendo, solo sconosciuti, e siccome non voglio seguire la marroneta, forse per il timore di essere sorpreso su un terreno coltivato, decido di esplorare il querceto, e punto in alto, risalgo il crinale erboso, hanno diradato le piante pochi anni fa, si incontrano tra l’erba i ceppi neri, e i rami ancora sottili delle piante superstiti non chiudono, ma ce ne manca!, la volta del cielo. Salgo senza traccia, è ripido ma ho il bastone e gli scarponi, e dopo una trentina di metri incontro un altro sentiero, pure a mezzacosta, sono sentieri un tempo dei contadini – le terrazze sono ancora in piedi – ora di boscaioli, cacciatori e fungaioli, ma più che altro credo degli animali, che sono di sicuro il transito più frequente. Tutti i sentieri della zona sono tenuti battuti dai cervi, dai cerbiatti e dai cinghiali, bisogna riconoscerlo, non fosse per loro in tanti punti non si passerebbe più, si perderebbero le tracce e il bosco diventerebbe un intrico impraticabile.
Comunque godo, è tutto umido ma non fa freddo, dopo le giornate di tramontano, sono uscito con la sola camicia, e ora la tolgo restando in maglietta. Provo a percorrere la traccia all’indietro, finché arrivo al galestro, dove so che sopra passa il sentiero segnato, quello che porta alle castagnete che voglio vedere. Allora punto su, sul galestro franoso, tra ginestre, ginepri, quercioli ed elicriso, tra massi di roccia sporgenti e radici. Sembra di essere in arizona, penso sempre così, chissà perché l’arizona, ci fossi mai stato… mentre cammino per associazione mentale al mondo dei western mi chiedo chissà com’era seguire le tracce, perché vedo che il terreno è morbido, e mi chiedo chi oggi ne sarebbe capace. Poi arrivo in cima, mi innesto nel sentiero pianeggiante, raccolgo qualche bacca di ginepro da mettere nella grappa che ho a casa, arrivo alle spiagge, le ormai celebri balconate rocciose, proseguo nel bosco, che conosco e riconosco nella sua veste preautunnale. Quando arrivo alla marroneta per terra è tutto un tappeto di bucce di castagne, mi diceva il vicino che di notte gli animali banchettano, ci sarebbe da appostarsi e chissà cosa non si vedrebbe, il sabba dei selvatici tra i castagni del bosco – dovreste vederle queste castagnete, sono lisce e rasate come campi da golf, prati distesi come tappeti tra una pianta e l’altra, vecchi mammuth seduti, ma in parte morti e pietrificati, dai rami slanciati e ritorti. Le castagnete sono posti spledidi, e oggi sono cosparse di marroni che arrivano anche sul sentiero, a dire il vero mi sembrano un po’ piccoli, comunque evito di calpestarli, ogni tanto ne raccolgo qualcuno che mi sembra bello ma poi, sono piccoli, non c’è niente da fare. Comunque sono qui per guardare i funghi, e le castagne non le voglio raccogliere, non voglio rubare a chi coltiva, raccoglie e vende, qui è un’attività importante, ho un sacco di amici che in questo momento sono impegnati nella raccolta dei marroni. Ne raccolgo qualcuno, come si fa a evitarlo? Ma guardatemi, non ho borse, mi sono solo riempito una tasca! Da mettere sulla stufa, no? Continuo a camminare, e arrivo sulla gippabile, da qui dovrebbe iniziare il servatico dove trovare i funghi. Ma: mi accorgo che non ho più il cellulare, nella tasca dietro dei pantaloni! Oh no! E chi lo ritrova più ora, con tutte le forre, i boschi che ho traversato! Cristacci! E non penso tanto alla spesa, sarebbe addirittura una buona scusa per cambiarlo dopo tutti questi anni (è il mio secondo cellulare in assoluto!), ma per i numeri di telefono che non ho mai scaricato! Aiuto! Sono le tre e 40, ho camminato 50 minuti, devo rifare tutto il percorso fatto! L’avrò perso dove mi sono fermato a pisciare? O sul galestro? Lì come faccio a vederlo, sarà caduto e rimbalzando sarà precipitato chissà dove! Non ne ho voglia, l’esito pare assai prevedibile, ma comunque devo fare un tentativo, non posso rinunciare. Ripercorro tutto il sentiero, e ripercorrendolo ripercorro a ritroso i pensieri che ho avuto, incontro quanto non mi ero accorto d'incontrare. Mi fermo a ispezionare ogni posto in cui mi ero fermato, piegato. Ho un’ottima memoria dei sentieri, fin da quando ero bambino mi sono abituato a ritrovare le strade. Altro che pollicino, a me i sassolini non servono! Così, un po’ disperando un po’ sperando, ma sempre meno, torno di gran fretta indietro, osservo e ritrovo, come in una moviola, ma accellerata, anche perché prima ero svagato ed esplorativo, ora gocciola e vedo nuvoloni dall’orizzonte che invadono la valle. Arrivo al galestro e mi metto a cercare le mie tracce! E pensare, qui avevo pensato a chi insegue e qui ora mi trovo a inseguirmi! Passo per passo – più o meno e davvero – ritrovo i buchi del bastone, le impronte degli scarponi, arrivo a ricostruire alcuni passaggi. Ma niente, nemmeno nei punti dove mi ero piegato, dove speravo che il cellu fosse caduto, niente. Torno più indietro, al bosco diradato ed eccolo lì, lo trovo, neanche tanto nascosto, luccica tra l’erba. Che soddisfazione. Vorrei fotografarlo, ma non posso, è lui che fa le foto (la macchina è il contrario dei fantasmi, si può fotografare solo allo specchio!)… allora fotografo il posto, come per prendere un appunto, l'avete visto in apertura. Ora torno a casa con una storia da raccontare, la mia passeggiata tutt’altro che walseriana, voglio scriverlo nel bollettino, così mi levo pure quello, che sono settimane che non scrivo! E questo è solo il minimo, e per questo non scrivo mai bollettini, dovrei scrivere ore e ore e di tutto, di un luccichio della pioggia, di un animaletto, di un pensiero come un ragno che mi guarda da giorni affacciato alla finestra. Ma lui sta fuori dal vetro e i moschini che vorrebbe catturare stanno di qui, ci cozzano contro testardi, vorrebbero uscire, e non sanno che quel vetro li salva dall’inganno della tela vischiosa. E il ragno li guarda, beffato. Ah, come tutto è complesso, l’altro giorno fotografavo i sorrisi e le rughe nel legno di una vecchia pala da fornaio, che a osservarla bene si trasforma nella mappa di una terra sconosciuta, con le sue linee di quota, o i licheni sulla pietra di dietro… tutto è trasparente, come diceva Nabokov, ma non sulla superficie, se ci guardi attraverso, lui scriveva seguendo quasi con stizza un ombrello che non si voleva chiudere per bene (rileggevo ieri, credo per la terza volta)…




Che altro dire, da questa soglia dell’afasia? Il quotidiano è fenomenale, ma come accorgersene se non così? Sono stato venerdì scorso a provare a suonare nella banda del paese, e vicino a me sedeva un signore con un sax tenore degli anni ’50, era stato un importante jazzista, di cognome fa Conte, con Valdombrini ha suonato, e vederlo soffiare nello strumento con quel filo di voce e cavarne grappoli di note così naturali, come un respiro, accipicchia, emozionante… ah, devo anche delle scuse al neosindaco, ha ragione, mi ha fatto osservare che nell’ultimo post ho apostrofato con uno “pseudosinistra” la sua giunta appena insediata, ha ragione, ma chiaramente mi riferivo alla situazione nazionale, non a lui che non conosco, quello che farà lo vedremo, gli faccio i migliori auguri, anche perché nella banda suona la fila davanti alla mia e dovrà sopportare tutti i miei errori, se non mi cacceranno, sono trent’anni suonati che non suono leggendo da uno spartito… e poi, chissà se lui ha visto “Life is a Miracle” di Kusturiza, là c’era una ferrovia che univa e qui ci sono le pale che dividono, e mentre lui suona il clarino come il protagonista io come quello mi chiamo: e quindi nel film di San Godenzo abbiamo almeno qualcosa in comune, no, in questa sarabanda!
Come sempre, perdonate il ritardo e le ellissi sulle cose più … - ah, domenica ho anche visto Claudio Lolli, cantare io so che un giorno e zingari felici… che contrasto anche qui, tra queste due canzoni (infine, cliccate almeno su quest'ultima foto per ingrandirla, ne vale la pena, è il QT8, il mio quartiere di Milano, nel 1978, le ombre sono mia e di Gianfranco Falcone)

mercoledì 2 settembre 2009

Bollettino di Montaonda n. 21

Reportage da Montaonda: Appartenenza a una terra, a un popolo… a se stessi, agli altri?


Perdonatemi l’avvio in medias res, ma proprio ora, leggendo le prime pagine di Andrew Harvey, A Journey in Ladakh, dove, nonostante il grande fascino che su di lui esercita il buddhismo più puro, racconta la sua paura a compiere il viaggio in quel paese mitico e sconosciuto, mi ritrovo perfettamente nei miei dubbi (sull’oriente: ricordate il tormentone?). Penso di me: sicuramente la paura di una simile affascinante via di ascesi è quella restarne sedotto e di perdere (abbandonare) quello che sono, i miei affetti, la mia terra, persino certi oggetti che amo, diciamo una certa materialità e con questo non intendo certo nulla di negativo, ma un complesso di cose che vanno dalla visione di un paesaggio familiare al parlare con le persone care, al suonare i miei strumenti, leggere i miei libri. Insomma, ciò su cui ho costruito e continuo a costruire la mia vita (e la mia mente). Seguire con sincerità la via del buddha (anche da eretici, non mi interessa qui approfondire questioni dottrinali) implica, mi sembra di capire, abbandonare tutto questo. Anche la via del monacesimo occidentale in fondo non era tanto diversa, e penso agli ordini mendicanti.
Poi, nella stessa ora, mi capita tra le mani “I sommersi e i salvati”, l’ultimo libro scritto da Levi, il fondamentale saggio sullo sterminio che non ho mai letto, pur essendomi occupato per anni del tema. E mi ritrovo immerso nell’universo concentrazionario (nella mia seconda patria, la Germania). Il giro di sinapsi è immediato: se andassi in Ladakh potrei liberarmi anche di questo. Eh! - E l’ulteriore passaggio: visto il grande fascino che, non solo su di me ma su tutta la mia generazione, esercita l’oriente, non potrebbe darsi che, o meglio, in quale percentuale entra in gioco il nostro rifiuto o la nostra difficoltà a fare i conti, a vivere il presente del nostro mondo che, per dirla in breve, ci fa ribrezzo, per tutte le cose che ha prodotto nel secolo che ci ha preceduto e in cui ci troviamo immersi fino al collo?
Non fraintendetemi: non voglio accusare nessuno di fuga, voglio soltanto chiedermi: quanta parte del nostro bisogno di essere altrove è generata dall’incapacità di essere dove siamo, fare i conti con questa sorta di inferno alla Saviano, di cui ci parlano i media e sentiamo anche sotto la pelle, nella nostra nevrotica vita quotidiana? Non è molto meglio la bolla della meditazione, il non-io, l’abbandonare le cose di questo mondo, viste le condizioni, ritirarci in una grotta e passare la giornata a meditare? Samsara, nirvana, non sono concetti con cui in fondo, in questa prospettiva, potremmo benissimo toglierci d’impaccio?… Ho amici e parenti che stanno proseguendo pratiche orientali, raggiungendo anche livelli d’impegno, e mi sembra che vivano questa dicotomia come una difficoltà. E dunque: mollare tutto e andare di là? E perché non farlo da qua? In un senso e modo diverso, e non voglio giudicare ma osservare, perché tra l’altro mi piacciono, lo fanno anche le sempre più numerose comunità, spirituali o materialiste, religiose o anarchiche, che si ritagliano uno spazio di sussistenza, a caro prezzo peraltro, in questo stesso territorio italiano in cui impazzano le nuove furie del XXI secolo. Sottrarsi allo stritolamento della macina del tempo…
Quest’estate ho iniziato a conoscere di persona alcune di queste realtà, e voglio andare avanti a vedere. Sono anni che sento parlare di Gran Burrone, di Pian Baruccioli, di Bagnaia, oppure di Miasto, o di quel posto in Piemonte con la chiesa sotterranea, dove vive quasi un migliaio di persone; e in fondo anche la mia vecchia Campicozzoli, nel suo piccolo, voleva essere di più di una casa abitata da una decina di persone, voleva essere sotto sotto un progetto di vita. Io stesso, quando credevo di poter acquistare il Cerro, un bellissimo podere quasi sulla vetta di Monte Giovi, volevo trasformarlo in una specie di comunità di ricerca (di non si sa cosa, diciamo delle muse, di pace e serenità), e anche ora, a Montaonda, ridotto il tutto alla mia singola persona, cerco di vivere questo progetto di comunità-individuale. Di vivere in pace tra me e me (e pure così: non è facile!). Attorno a me, in questa Toscana della montagna dell’Appennino, è pieno di antichi eremi, di conventi che risalgono al medioevo, come Camaldoli e Vallombrosa. Certo, le foreste, l’acqua, il cielo, tutto quello che cerco di raccontarvi. Vallette che nascondono anfratti con casupole come Montaonda. Tante piccole comunità, sparse sull’Appennino ma anche altrove, sulle Alpi, come i villaggi ecologici (RIVE). Insomma, anch’io cerco di isolarmi per ritrovarmi, in qualche modo - anche se poi, come sapete, i contatti con il mondo ci sono (e forse la nuova lotta contro l’intrusione delle pale rappresenta un po’ questo, nella mia sinossi - che poi vuol dire panorama… - del simbolismo attuale).
Ecco, il rapporto con il male ereditato, le difficoltà della vita, la macchina che aggredisce (il macchinismo nazista diceva mi pare Lacoue-Labarthe), il karma sociale: esiste un karma sociale, altra versione della colpa collettiva? Eschilo convinse gli ateniesi che non esiste una colpa che dai padri ricade sui figli, ma questo, in questo clima di guerre etniche e massacri tecnotronici, dove l’osso dello scimmione si unisce al drone, in un clima da Mad-Max, vale anche per l’individuo in quanto frutto di una società? In altri termini: non è che è un dovere per me, per noi, continuare ad essere europei per riscattarci da quello che hanno fatto i nostri padri? E quindi: recuperare la terra abbandonata, coltivarla, purificarla…
Mi spiego meglio: tutto nasce da strane sincronie, che parlano, rivelano immagini, fotografano contesti. Perché l’altra sera sono stato a Castagno d’Andrea, con degli amici di qua, al circolino dell’Arci c’era il figlio di Gabri che faceva il dj e allora perché no. A casa da me c’era Ottavio, uno dei fondatori di Campanara, classe ’54, romano, nelle ossa una forte militanza politica in Potere Operaio negli anni caldi (bollenti), perché dovevamo prepararci per il giorno dopo ad affrontare una piccola scaramuccia burocratica con la Comunità Montana, in sostegno di Campanara. Siamo arrivati su che c’era già musica, attorno a un tavolo del giardino abbiamo trovato una quindicina di amici della tribù, ovvero la vasta schiera degli abitanti che si sono radunati in questa valle a partire dagli anni ’80, tutti con un passato di viaggi (molti in oriente), e di militanza a sinistra e poi bio-agro eccetera (c’è una rete di conoscenze e contatti in valle, ci si incontra in luoghi diversi e si riconosce il terreno comune, comuni pratiche e idee, anche se poi non se ne discute molto, per me che arrivo ora sono posizioni e dati acquisiti, anche perché poi ciascuno è andato per la sua strada). Per cui si chiacchiera del più e del meno, rilassati, com’è andato agosto e via così. A un certo punto vedo arrivare un gruppo di giovanissimi, ci passano davanti a non più di 10 metri, evidentissimi, tra cui un ragazzone rasato con un cappellino a visiera messo sul coppino e una felpa nera con scritto in bianco, bello evidente “boia chi molla” - Va be’, va detto anche che San Godenzo è famosa per essere uno dei pochi comuni fascisti della Toscana (anche se la nuova giunta è di pseudosinistra Predappio resta vicina). Schierati per famiglie, storie di paese, ma è capitato che nella stessa famiglia ci fosse chi era di qua e chi di là. Ma è anche vero che San Godenzo è stata distrutta dai nazifascisti (il termine è corretto, c’erano entrambi) in ritirata, al 95%, e solo grazie al deciso intervento del prete si è salvata l’abbazia, che era già stata minata pure lei. A Castagno poi c’è stata una strage di civili, mi sembra 7 o 14 ammazzati, dovrei controllare, di quelle di rappresaglia inutile e assassina. Ecco: com’è possibile? Io ero molto imbarazzato, temevo che Ottavio saltasse su e cominciasse a inveire o peggio – il ragazzone aveva al massimo 18 anni, anche se era grande e grosso sembrava fatto di burro (e se invece fosse un cazzuto, con tanto di coltello in tasca, chi può dirlo?) - gli altri amici invece impassibili, apparentemente nessuno se ne è accorto, solo io (ma loro potrebbero dire altrettanto, no?). Ecco, e poi oggi al radiogiornale sento che una coppia di turisti gay che camminavano tenendosi per mano da qualche parte in Italia è stata maltrattata da una banda di ragazzotti. E come la mettiamo? Vado in Ladakh, o resto qui, cerco di combattere contro i mulini e tutta quell’altro di monnezza che ci porta il vento? E tra parentesi, l’ultima spero, stamattina ho fatto una passeggiata e ho incontrato due vicini (vicini qui vuol dire una mezz’ora a piedi), mi hanno superato in macchina, si sono fermati sono scesi e ci siamo fermati a chiacchierare un quarto d’ora, sono due persone amabili e davvero interessanti e vive, e spero davvero che diventeremo amici. Sono gay, come tanti altri di noi. Ebbene, che devo fare, non dovrei cominciare a preoccuparmi per loro, per tutti i vicini strani o diversi? La ricordate la poesiola di Niemöller, no? E allora, il Ladakh? Certo si potrebbe dire: andarci ma per tornare qui. Andarci con una missione. Portarlo qui e sparpagliarne i semi, come di una pianta esotica...

P.S. troppo lungo, lo so, troppo lungo! E naturalmente scusate il ritardo! Che cose ne sono successe, altre no, però insomma, spero che non vi siate offesi… la foto non c’entra, è di giugno, ma fa un bel contrasto, no? E poi: scavare, nel giardino di casa! Anche MO, l’avevano fatta saltare i nazisti, ve l’avevo detto? Linea gotica, possibile covo di partigiani! Resistere va bene, ma a che, e con che armi?

domenica 12 luglio 2009

Bollettino di Montanda n. 20: Mio resoconto del convegno a Castelnuovo ne’ Monti (RE)


Dal Muraglione a Castelnuovo ne’ Monti un’aquila volando ci metterebbe forse un’ora, in linea d’aria sono circa 80 km; io invece di km ne ho dovuti fare 190, e di ore ce ne ho messe più di tre (consumando una trentina di litri di gas). Sono entrato nel teatro comunale mentre Laura Fasce parlava delle aquile nel settore occidentale delle Alpi. La sala era al buio, e nelle diapositive della sua presentazione ho riconosciuto le pareti del Monte Bianco e forse il Monviso. Subito dopo, allo scattare della pausa pranzo, mi sono diretto verso il moderatore che mi ha indicato quelle due o tre persone con cui avevo avuto contatti via mail.
Al buffet mi guardavo attorno, questi sono gli studiosi delle aquile, montagnini, quasi tutti, qualche donna anche, certo, mi sono detto, questa è gente che si arrampica sui picchi in tutte le stagioni per controllare, sorvegliare, tutelare. Parecchi giovani, pochi sopra i cinquant’anni.
Riprende la sessione: tocca a Ubaldo Ricci, Enrico Bassi, Jacopo Angelini, ciascuno di un parco e una regione diversi, ovvero Appennino settentrionale, Stelvio e Appennino Umbro Marchigiano. Ognuno presenta tabelle, dati, fotografie di montagne. Quanto lavoro, quanta attenzione. Da quello che capisco, la situazione non è affatto negativa, la popolazione dell’aquila reale è in crescita, o almeno stabile. Nelle foto, mi accorgo per inciso, non si vede nemmeno una pala eolica: i paesaggi sono splendidi, e appaiono incontaminati – con l’eccezione di qualche traliccio –in certi casi però i parchi sono riusciti anche a farli interrare. Imparo un sacco di cose sull’aquila, il suo territorio, i problemi legati alla sua riproduzione, all’alimentazione. Molto interessante, per un ignorante totale come me. Scopro che il Parco dello Stelvio ha realizzato una mostra itinerante sull’aquila, “Aquilalp”, e mi segno che devo suggerire agli amici del “nostro” parco delle Foreste Casentinesi di prenotarla, sembra molto interessante. Scopro che i principali nemici dell’aquila, oltre i bracconieri, che ormai sono pochissimi, sono gli elettrodotti e gli arrampicatori –posandosi sui tralicci restano fulminate, mentre spesso i secondi inconsapevolmente vanno a disturbare i nidi. Scopro che in determinate zone il parco può richiedere il divieto di sorvolo. Eh, che bellezza: cosa non si farebbe per tutelare la pace dei rapaci! Già, qualora non si scelga, con false legittimazioni di produzione energetica, di farli tagliare a pezzi dal’affilata ghigliottina delle pale di un impianto eolico (ecco una nuova denominazione, pronta per l’uso: “impianti tritavolatili”, come per dire: qual sia l’effetto secondario e quello primario dipende dal punto di vista, no?). Alla fine del suo intervento Angelini, tra gli elementi di rischio parla anche delle pale eoliche. È il primo a farlo, e il motivo è chiaro: gli altri relatori provengono da aree dove le pale non ci sono (so solo che nell’Appennino settentrionale si sta cercando di introdurre un impianto eolico nelle Apuane). Certo, perché nelle Alpi le pale non le costruiscono. Non ci hanno nemmeno provato. Angelini presenta il problema eolico succintamente, ma senza entrare nel merito, poi inizia il dibattito. Vengono poste un paio di domande, poi tocca a me. Grosso modo dico: “Mi scuso per l’intrusione, la mia non sarà una domanda ma un intervento, il più possibile breve. Vi porto il saluto di Carlo Ripa di Meana presidente del CNP e di Oreste Rutigliano, segretario generale. Il CNP non si oppone all’eolico in quanto preziosa fonte di energia rinnovabile, sia chiaro, ma combatte da anni contro la proliferazione indiscriminata di pale che, ahimè, non producono una quantità di energia apprezzabile, rivelandosi quindi una mera speculazione finanziaria legata ai certificati verdi, e provocando invece con la loro istallazione e il loro funzionamento un danno profondo su paesaggio, persone, animali e ambiente tutto. Sono qui perché poche settimane fa a un convegno sull’eolico organizzato dal Comitato Monte dei Cucchi a San Benedetto in Val di Sambro, in Romagna, dove una società (la municipale di Verona se non ricordo male) vorrebbe construire un impianto, ho incontrato Tinarelli, un vostro collega che ben conoscete, che in pochi minuti ci ha spiegato l’enorme rischio che le pale costituiscono per i rapaci residenti nell’area adiacente. Poiché abito a San Godenzo, piccolo comune adiacente al Falterona, dove hanno area di alimentazione due aquile reali, in merito delle quali è stato costituito un SIC (sito di interesse comunitario 039 del Muraglione per l’emergenza dell’aquila e del lupo) e lotto contro la costruzione di un impianto che prevede 14 pale da 155 metri sul crinale, eccomi a voi per rivolgervi un’esortazione. Perché potete fare molto per noi, perché il vostro parere può diventare un’arma, uno strumento per la difesa dell’aquila e dell’ambiente in Regione e a livello europeo. Tinarelli ha scritto un bozza di dichiarazione che denuncia il grande rischio cui saremmo esposti se questi impianti verranno costruiti sul crinale dell’intero Appennino, come pare sia intenzione dichiarata. Allora sarà praticamente inevitabile la decimazione e quindi l’estinzione di diverse specie di rapaci tra cui l’aquila reale in gran parte dello stivale. Sta raccogliendo firme tra addetti ai lavori, ornitologi e naturalisti, e noi vi esortiamo a sottoscrivere, e anche a mettervi in contatto con noi, www.viadalvento.org, oppure, nelle aree in cui operate, con i locali comitati di opposizione agli impianti eolici.” Più o meno, nel senso che questo è quello che avrei voluto dire e non so poi quanto chiaramente sia riuscito ad esporre, dovendo tralasciare molto altro per ragioni di tempo e mia inettitudine oratoria. Dopo di me riprende la parola Jacopo Angelini, che ricorda come già gli ornitologi anni orsono si siano espressi in tal senso (lui stesso mi aveva fornito il testo della risoluzione di Avocetta), arricchendo il mio intervento di dati sui rischi per i migratori. Dopo ha preso la parola Kent Ohrn, relatore svedese esperto di aquile, pregandomi di avvicinarlo a fine convegno, perché voleva spiegarmi e darmi ragguagli e contatti sui nostri analoghi in Svezia. Fatto, grazie. Lo stesso ha fatto Dobromir Domuschiev, parlando dei rischi delle pale per le aquile nei Balcani, e soprattutto sulle rotte dei migratori in riva al mar Nero, dimostrando come la preoccupazione per le pale industriali sia viva in tutta europa.
Quindi ha chiesto la parola Aldo Anzivino, del CAI, che ha riportato il discorso sulle pale a San Godenzo, fornendo altri ragguagli, e finalmente ho avuto occasione di ringrazionarlo a nome del mio comitato dell’Ariacheta, per la splendida e chiara relazione che ha presentato in Regione, insieme a Marco Bastogi, entrambi membri della Commissione centrale per la tutela dell’ambiente montano del CAI (TAM). Dopo un altro paio di interventi è poi partita la proiezione di un filmato di Marco Andreini e di una serie di diapositive di Michele Mendi e Mario Pedrelli sull’aquila. Imparo a conoscerla, il suo sguardo penetrante, il suo aspetto fiero e possente, anche mentre dilania la carcassa di un leprotto. A casa guarderò più spesso per aria, cercando il suo volo sovrano.
A conclusione, sia l’assessore del comune di Castelnuovo, in vece del sindaco, sia il direttore dell’ospitante Parco Nazionale dell’appennino Tosco-emiliano, Fausto Giovanelli, hanno ribadito la massima attenzione verso le pale, e l’intenzione di tenerle lontane dal crinale e quanto meno dal Parco. Insomma, per quanto mi riguarda sono uscito provando grande soddisfazione, vedendo che almeno qui qualcuno ci prende in considerazione, e ancora una volta si è riaffacciata la speranza è che forse non è detta l’ultima parola, e qualcosa ancora si possa fare. E quindi: la mia proposta, che mi riservo di elaborare e sottoporre a breve, la lancio qui, ora, dalle colonne di viadalvento, alla Lipu ma anche a tutti gli amanti della montagna e dei veleggiatori (penso almeno a WWF, MW, CAI, ALTURA): è quella di curare – insieme – un’agile pubblicazione graffettata in cui si raccolgano i dati e gli studi già esistenti sul rischio che gli impianti rappresentano per l’avifauna (ci sono anche i chirotteri, ovvero i pipistrelli, e il problema è altrettanto serio e ben documentato), da diffondere largamente a tutti gli amanti della natura, della montagna e dei suoi alteri abitanti. Spero in un interessamento di Danilo Mainardi, presidente onorario della Lipu. e già ora mi sento di ringraziare la Lipu e il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emilano per il lavoro fatto.
Ancora una sorpresa: tornato a casa guardo le foto che avevo scattato a un rapace che volteggiava davanti alla finestra del mio studio, circa un mese fa. Guardatelo qui e sopra, riconoscetela: chi mi sa garantire che se costruiranno le pale ci sarà ancora?

venerdì 29 maggio 2009

Bollettino n. 19: Numero speciale - Pale nere, o la misura delle cose



29 maggio 2009
Paolo e io ci siamo dati appuntamento per la mattina di sabato 23 al parcheggio di San Godenzo, alle 7.45. Partiamo con la mia macchina, si va a gas, e attraversiamo il Mugello deserto, prendiamo l’autostrada fino a Pian del Voglio e poi, dentro e fuori per i dossi dell’Appennino, arriviamo a San Benedetto con ben 10 minuti di anticipo. Elisa, la compagna di Paolo, è dovuta rimanere all’eremo per guardare le bestie, io ho abbandonato mia sorella e il suo compagno e due cari amici milanesi per la prima volta in visita alla mia casetta toscana. Il dovere è dovere. Il convegno di critica all’eolico non capita tutti i giorni, e l’ha organizzato un comitato fratello del nostro, siamo molto curiosi e desiderosi di scambiare conoscenze ed esperienze. Loro sembrano ben organizzati, hanno a disposizione una sala ben attrezzata e hanno chiamato specialisti di livello – hanno un bel sito internet, www.comitatomontedeicucchi.com, un bel manifesto, e hanno raccolto più di 500 firme (!). Noi dell’Ariacheta siamo prevalentemente profughi metropolitani, qualche neo-contadino più o meno studiato, qualche decina in tutto, e abbiamo contro gran parte della popolazione locale. Qui, mi hanno detto a spiegazione del diverso consenso, ci sono molte seconde case.
Si ha appena il tempo di fare conoscenza con gli organizzatori e i relatori che il convegno comincia, con il saluto di Angelo Farneti presidente del comitato ospitante. Scarno, chiaro, preciso.
Segue l’intervento dell’avvocato Bernardini, un giovane leghista che rivendica la vicinanza del suo movimento alle questioni territoriali (poi messa in dubbio), alla tutela del paesaggio, e che porta il saluto dell’On. Angelo Alessandri, presidente della “Commissione per Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati” (troppe maiuscole, ma voglio essere preciso; e poi devo ancora trovare il modo di verificare cosa questo onorevole signore ha fatto concretamente contro le pale... non mi fido dei leghisti). Devo dire che questo Bernardini, che avrà una trentina d’anni, mi pare molto bravo e pieno di energie, accipicchia sti leghisti come sono andati avanti, ma bravo soprattutto a fare una concione elettorale, a sottolineare la legittimità della presenza del suo partito. Fa il suo discorso, poi piglia e se ne va. Impegni elettorali, certo.
Tocca quindi a Paolo Mattioli, relatore di Italia Nostra. È il mio amico (credo di poterlo dire, anche se ci conosciamo solo dal giorno in cui è nato il comitato: uno dei maggiori risultati di tutta questa vicenda è avere trovato e scoperto e continuato a scoprire persone in gamba). Paolo (affiliato a Italia Nostra da poco, come me, per ovvie ragioni) ha preparato una serie di diapositive per parlare del paesaggio, del senso di questa parola. Ha riflettuto su un bello scritto di Carlo Alberto Pinelli, e poi, visto che è agronomo, che ha lavorato sul paesaggio agricolo, pubblicando pure qualche anno fa uno studio davvero bello, è realmente un esperto in materia. Ha sviluppato un ragionamento sul paesaggio reale e quello immaginario, sul suo valore (visto che si tratta di questo oggi) reale e quello percepito, da cui poi derivano il significato culturale, politico e comunicativo, e infine quello normativo (nomina la Convenzione di Firenze). Paolo ricorda quindi il progetto APE, finora taciuto da tutte le parti, e la convenzione sottoscritta dalle regioni: ebbene, ora 1/3 del sentiero GEA sarebbe coperto dalle pale. Perché, si chiede, il Ministero spende parecchio, cioè finanzia per valorizzare, e poi decide di banalizzare e svendere a un’industria privata lo stesso identico paesaggio? Azzardo, ricavandola dai miei appunti, una risposta che suona agghiacciante: perché i politici non sanno, e non sanno oltre che per proprio disinteresse (perché sanno bene quali sono le cose interessanti per loro!) anche perché non c’è coordinazione e informazione. Si fa tutto così, no, in balia dell’oppurtunità del momento.
Dopo Paolo prende la parola l’architetto Andrea Bassi, che è rimasto toccato dalla nostra causa dopo un sopralluogo fatto per commissione e controvoglia. È giovane, anche lui, siamo tutti tra i 30 e i 50, non sarà un caso mi dico (giovani nel senso che non vedo nessuno dei padri che altrimenti abbondano tanto nella vita pubblica, politica e intellettuale del nostro paese, ma sarà un caso, i padri avranno certo cose più importanti da fare). L’architetto ha visto, ha fatto due conti e si è incistato. Con un paio di dia mostra perché le simulazioni che sempre accompagnano i progetti sono fasulle e non rendono l’idea. Perché per leggere un paesaggio bisogna entrarci dentro e non stare sulla soglia a valutarlo. Mi regala un concetto di cui mi innamoro e che ho deciso userò spessissimo: il “fuoriscala”. Le pale sono fuoriscala nel senso che se proviamo a metterle in scala con i manufatti o gli elementi del paesaggio a misura umana ecco che le pale non ci stanno, non entrano nella fotografia. Sono al di là della nostra capacità comparativa. Come dire una manciata di ciliegie e un tir pieno, quante ce ne stanno? (Che erano 10 000 i fichi sull’albero, non seppe indovinare l’antico sapiente) Così avviene che le pale spariscono perché sono troppo grosse. Così grosse che fanno saltare ogni paramentro valutativo, in tutti i sensi. Non sappiamo valutare la loro dimensione reale – butto lì un’osservazione: quasi nessuna delle persone che conosco, tolto qualche raro oppositore, è mai andata a toccarle le pale, le si vede da lontano, dall’autostrada, dall’aereo.
Insomma, tornando a Bassi, una bella relazione, anche sugli sbancamenti, chiara e semplice, e mi congratulo, gli chiedo di poter usare le sue immagini per le nostre presentazioni. Naturalmente, tutto a disposizione. Ore di lavoro, se non giornate, regalate, va da sé – noi siamo così, il tempo per noi non conta... tutto in questo mondo dei comitati vive, come dire, su un’altra scala…
Tocca poi a Michele Vignodelli, del WWF di Bologna. Ha portato un documento sui pipistrelli, i celebri chirotteri. Bastano due parole, “sterminio diretto” e colgo immediatamente la dimensione nazista (è la mia sensibilità di specialista) di questi impianti. Man mano che parla la misura del disastro si allarga, come una macchia d’inchiostro. Dice che bisogna fare qualcosa, ci sono gli allarmi e le risoluzioni europee, produrre un documento nostro condiviso dalle più varie associazioni perché la situazione per il suo impatto per l’ambiente, e non soltanto su questo genere di volatili, che dalle pale vengono attratti come le falene dalla lucerna, bastano pochi dati, è drammatica. Ma perché diavolo mai – scusate l’interrogativo che non è per nulla retorico – l’uomo si trova sempre a insistere su progetti e tecnologie che portano allo sterminio? Sbagliando si impara? E prevedere? Dove andremo a finire, quindi? Tanto non c’è un fondo, finché ci siamo noi, no?...
Lo stesso discorso viene sviluppato e approfondito dall’intervento di Roberto Tinarelli, dell’ASOER, ornitologo emiliano e tecnico che studia gli impatti ambientali delle pale sull’avifauna. Non c’è alcuno scampo (qui, al convegno, mentre fuori non c’è proprio nulla, solo l’aria fresca e limpida, trasparente, della mattina di maggio): già al convegno di Comacchio del 2005 erano parsi evidenti i risultati, corroborati dagli ultimi anni di ricerca e monitoraggio (e spiega come sia difficile raccogliere i dati, non solo perché questo tipo di studio non viene finanziato, si sa i costi... ma anche per motivi pratici, perché gli uccelli abbattuti vengono portati via dai predatori del territorio, quando non sono le stesse società degli impianti a pagare uomini per eliminare le carcasse – è successo in Spagna, chissà se magari anche da noi…). Ecco qua, riferito a senso: “se costruiscono anche solo buona parte e non tutti gli impianti progettati sul crinale appenninico è assolutamente certa l’estinzione di tutti i rapaci dell’Appennino italiano nel giro di pochi anni”. Questo è il dato che bisogna presentare, il lancio per le agenzie, la misura di tutte le cose. Ovvero: ci si ripropone di alterare in maniera irreversibile l’equilibrio naturale anche nelle zone di riserva. Il problema, per me che della comunicazione mi sono assunto il compito, è che è un dato inaccettabile, fuori proporzione, il fuori scala non si vede più - per cui nessuno ci crede. Perché lo sappiamo tutti, se togliamo aquile, gheppi, poiane, falchi, li togliamo e poi non ce ne sono più. Fine del discorso. Come è successo per le foche. Chi parla più delle foche nel Mediterraneo? Non ci sono, fine del discorso. Un discorso non può presentasi come finito. Muore anche lui e quindi scompare. Non è roba umana. Sta nelle biblioteche, nelle lapidi dei cimiteri. Come potrebbero gridarlo i giornali, le televisioni? Il fuoriscala è la negazione della rappresentazione - indicibile.
Come la storia dei 500 000 anni di decadimento radioattivo del necronio – il mondo, l’umanità è già finita - solo che dobbiamo dimenticarlo, per vivere. In questi termini sopravvivere diventa vivere. Quindi: accettazione, silenzio.
Pausa pranzo, si va in una trattoria del posto (noi ospiti, grazie ai San Benedettini!). Mi trovo di fianco Antonella Marchini, che è un po’ la coordinatrice del comitato, quella che firma i comunicati, come faccio io per l’Ariacheta, e di fronte Simonetta e Franco. Ci raccontiamo le nostre storie, come si è scoperto il progetto tenuto ben nascosto agli interessati (che birichini, quelli del comune, eh? Involontari, sia chiaro!), come si è capito di cosa si trattava, e quindi l’allarme si è sparso tra le case. È questo, ancora una volta: nei comitati si trovano persone decise, “volontari”, determinate e sicure della propria scelta, disposte ad essere derise e accusate di disfattismo, che hanno davanti a sé un obiettivo concreto contro cui lottare, questi maledetti mulini a vento giganti. Gente di sinistra, in genere, ma decisa a muovere le cose. Disposta a votare a destra al comune, anche se non l’ha mai fatto.

Nel pomeriggio parla l’avvocato Federico Gualandi, docente a Venezia, che sta cercando di lottare contro muri di gomma. Il suo intervento è interessante e preciso, ma purtroppo rientra in quel tipo di cose che mi sono note, che sono note a tutti. Queste società riescono a imporre la propria forza esiziale agli assessorati, agli uffici che dovrebbero valutare i progetti dal punto di vista della tutela della salute e del benessere. La legge. Le società appellandosi alla “pubblica utilità” (presunta ma mai dimostrata, è questo il giochetto che si dovrebbe smontare!) riescono in tutta leggerezza ad aggirare normative regionali, nazionali ed europee. Mah. Una commissione di scienziati che smentisca la pubblica utilità di questi impianti devastanti, ecco un compito per l’On. Alessandri, chi glielo gira?
Angelo Farneti cede quindi la parola ai politici. Il Comitato ospite, dice, ha fatto deliberatamente questa scelta, visto il clima elettorale, di invitare i candidati sindaco a prendere posizione. La sinistra, e la destra. Sul manifesto c’è scritto che avranno 15 minuti a testa. Il sindaco uscente, sostiene che le pale si faranno se e solo se non contravvengono alla normativa di tutela (proprio come il nostro di San Godenzo, evviva la sinistra! - ma nel caso degli uccelli non esiste ancora alcuna normativa di tutela! Purtroppo sul momento nessuno glielo ricorda, ci sono talmente tante cose da tenere a mente!). La sua avversaria dice noi non le faremo. Le crediamo? Mah - a San Godenzo le cose stanno peggio, tutti e due i partiti sono favorevoli, anche se le ragioni del no – vicinanza parco, area sic, ecc.ecc. – sarebbero più forti. Di fatto i politici parlano a lungo, troppo (il primo 35’ - poi perdo la voglia di cronometrare), è questo il mio rimprovero personale agli organizzatori, tra consiglieri provinciali belli grassi e/o impomatati, se ne vanno quasi due ore. Uccidono in comvegno. Dicono che della lotta contro le pale gliene frega, ma io non ci credo molto. Loro stanno dalla parte della politica, i giochi sono fatti, e alla politica le pale fanno comodo. Certificati verdi, quote di Tokyo, si sa, insomma. Anche altri soldi, probabilmente, non dimentichiamo. Poi prende la parola l’assessore regionale – come si chiama, Bursi? -, che chiaramente è qui per dare una mano al sindaco uscente, ed è la persona a cui si dovrà, in breve, se il progetto passerà o no. Lui dice: io mi do da fare per costruire nel rispetto della normativa. Tutto quello che si può costruire lo costruisco. Lui non ha dubbi, non può averne, lui è la legge. L’avvocato Gualandi lo interrompe si appella alla coscienza, alla sproporzione (un altro fuoriscala?) del contezioso, che vede da un lato società immense e dall’altro piccoli comitati – Bursi sorride comprensivo: lui non è tenuto ad usare la coscienza, deve applicare la legge. Ha ragione, è un burocrate. È la banalità del male dico io, sempre dal mio punto di vista di specialista del nazismo. Lui non deve chiedersi, solo eseguire, così funziona la giustizia, giusto?
E qui irrompe il Romanelli. Romanelli è la forza della natura! Giovane, magro, muscoloso, una t-shirt bianca e lisa, compare sul fondo, sta in piedi a lato e a gambe larghe, il petto verso il pubblico, prende la parola come una furia e vomita ingiurie sull’assessore, sei tu il responsabile della mia rovina, dice, tutto rosso, il braccio teso a pugno le vene sporgenti, sei tu che mi hai fatto costruire la pala dietro casa, io non dormo più la notte, gli animali stanno male, le galline non fanno uova, la mia vita è un inferno! Tutti, o almeno tanti, finalmente ci lasciamo andare a un applauso, ci esce spontaneo, eccola la voce della verità, il danneggiato, ecco chi con le pale ci si deve confrontare davvero, la fine delle menzogne, hai voglia a leggere articoli e studi, la rabbia non si può scrivere, Romanelli a passi lunghissimi si avventa sul palco e prende il microfono, non salta addosso all’assessore come molti di noi temono, si limita a gridare la sua rabbia davanti a tutti, è una persona sicuramente in gamba, e nemmeno poi così giovane, sembra soltanto, e spiega la sua rovina disperato - mi hanno spiegato che prima non era così, che ha un’azienda biologica – vent’anni di lavoro, grida, a farmi un culo così - già vedo in lui i miei amici di San Godenzo, come diventeranno dopo un anno di pale – e le pale gliel’anno massacrata la sua vita, a lui, che dovrebbe essere un cavaliere del lavoro e dell'agricoltura (lo dico io e lo dice l'americano Michael Pollan) che ha recuperato una campagna umana, naturale, già devastata e poi abbandonata. E nessuno invece, altro che medaglie, nemmeno gli si riconosce il danno, aggiungo sempre io, non sono previste indennità, aiuti, sostegni per cercare un sito alternativo dove trasferirsi, nulla: Romanelli è abbandonato a se stesso, a una nevrosi che aumenta giorno per giorno. Nessuno ancora parla ufficialmente della sindrome da pala eolica, disturbo ormai conosciuto, diffuso, che si comincia ora a studiare seriamente e che colpisce gli sventurati che si trovano nel raggio di disturbo delle pale! Altro che sindrome di Nimby, qui si parla di casi clinici, di gente che non dorme la notte e a cui si spezzano i nervi, che scoppia a piangere per un nonnulla, la sindrome di Nimby se la sono inventata i comunicatori, i furbi, per screditare chi vuol soltanto far valere il proprio diritto a vivere una vita decente a casa propria! Io m'incazzo ma invece Romanelli pian piano si calma, si è sfogato, svuotato, fa ancora due chiacchiere sconsolato, fuori dalla sala, risale in moto, se ne va, qui non ci resiste.
Riprende la parola l’assessore, una volpe della politica, non ha fiatato per tutto il tempo e ora paziente riannoda i fili. Io lo so che probabilmente quell'uomo dentro si sta massacrado, è persona capace e intelligente, so che crede di dover fare quel che fa per una causa di giustizia e legalità. Voglio crederlo. Ma sbaglia comunque, perché una società che permette che un solo individuo venga ridotto come ho visto il povero Romanelli non è una società civile, è una società omicida. E allora? Facciamo la rivoluzione, andiamo a espropriare i negozi del centro, andiamo a vivere la peste che c’è dentro e fuori di noi?!? Perché dovremmo lasciarlo fare soltanto a chi indossa occhiali neri e blackberry? Perché l’ombrello di Altan se lo pigliano sempre i soliti? Allora diciamolo, evviva l’anarchia, buttiamoci all’assalto con la scimitarra guainata, sangue nel sangue, evviva il santo culto di Mitra!
A tavola ho bevuto un po’ di vino, e ora sonnecchio, preso da visioni apocalittiche, i politici e i ravioli mi hanno ammazzato. Intanto pian piano il convegno si spegne, si affrontano piccoli argomenti tecnici, interessanti, ma che insomma... ancora tentiamo di gettare le basi per un coordinamento, ma non abbiamo più forza, bisognerà trovare un’altra occasione. Saluti, si parte. Ma prima Simonetta e Antonella ci accompagnano a vedere i luoghi dove sorgeranno le pale. Il Monte dei cucchi è bello come un parco, con la serenità pomeridiana, le rondini (!) e l’equilibrio tra cielo, pascolo e incolto che solo l’alto Appennino riesce a dare. La casa degli avi di Simonetta ha un’aia di pietra naturale che è uno spettacolo. Un monumento del paesaggio, di integrazione di elemento naturale ed elemento umano, pietra contro osso duro. Qui si dovrebbe venire, toccare il cielo, guardare il silenzio. Eh, ma che senso ha? Appunto… fermare anche il senso per trovare il senso…

Da tutte le parti si dice che il convegno è stato di alto livello, che ci ha arricchito molto, ne sono convinto anch’io, e sottolineerei che è stato organizzato da un comitato di, perdonatemi, banalissimi cittadini: che io sappia è il primo convegno sull’impatto dell’eolico industriale sul paesaggio e sulla popolazione dell’Appennino che ci sia stato (tolto il recente convegno internazionale di Palermo, ovviamente! Ma, Onorevole Alessandri, Lei c’era, almeno, a Palermo? E perché non l’organizza Lei un convegno del genere con l’alto patronato ecc.ecc.? O il Ministro! No: tocca alle vittime, ai piccoli cittadini, e a proprie spese – questa la proporzione delle cose!).
Ed è un vero peccato che la parte migliore, quella dei relatori della mattina, abbia avuto un pubblico scarso (si era tra noi), mentre al pomeriggio, i politici, che non hanno aggiunto alcun valore positivo ma solo fornito riscontri su come la politica non sia in grado di dare risposte – anche l’intervento del candidato dei verdi, mi dispiace dirlo - pratiche e concrete, abbiano trovato un uditorio più numeroso. E prosciugato, risucchiato le nostre energie, come vampiri.
Insomma, io avrei voluto fare un discorso sulla comunicazione, su come è difficile trovare accesso ai media, volevo farmi bello e citare Blow-up di Antonioni (la fatica di mostrare quel che non c’è!), e come la gente infili le dita nelle orecchie quando si parla di pale, come si debba continuamente ripartire dall’ingenua domanda che ci piove addosso da tutte le parti: “ma non erano un’energia pulita, alternativa le pale? Allora volete le centrali nucleari?”. Le pale sono un mito di salvezza (soteriologico, come la croce), quello delle energie alternative, forse l’unico a disposizione sul momento, faticosamente costruito negli ultimi trent’anni dalla comunicazione pubblica e dall’educazione culturale - mentre si continuava a scialaquare il petrolio. Una bolla d’aria, senza sostanza, ma anche una delle poche speranze che il cittadino oggi può avere – e noi no, gli si va a togliere anche questi funghi bianchi, uniche magre promesse di libertà e giustizia. La gente vuole credere che le pale siano belle e buone, lo fa con tutte le proprie forze, oltre ogni possibile ragione. Ho un bel dire "Basta un'ora di attenzione per convincersi", verificare i dati dei parametri fondamentali. Non lo si fa, punto. Bisogna sbatterci il naso, contro il palo. Ci vorrebbe una campagna pubblicitaria miliardaria, mi dico, quando ero milanese ho lavorato nel settore, un biscotto “mulino nero”, per chi capisce, che con la sua pala uccide il gattino affettandolo a metà, che fa diventare neri e tristi i bimbi e le famiglie, che fa rumori orribili e strida agghiaccianti, coprendo la luce del sole. Ecco, mi date alcuni milioncini di euro, chiamo Tim Burton, magari mentre si lavora strapagati ci si diverte pure. E invece, per fortuna, sono fuori dal meccanismo, e mi ritorna vivo davanti agli occhi il furore di Romanelli, fortissimo, l’unico brechtiano eroe di tutta questa vicenda, martire e testimone, sissignori: carne e sangue, come diceva Woyzeck! L’ho invitato alla nostra passeggiata, spero proprio che venga, è lui che sa – con la sua incazzatura che non si può incatenare – dire e mostrare cosa ci aspetta, è lui che ha la forza della ribellione, coltivata in vent’anni di zappa, di scure e sudore di cavallo. Lui lotta per la vita, ecco dove dobbiamo tornare, imparare, ognuno il suo, pure io il mio, certo, come no.
Tornando indietro Andrea (altro nuovo amico!) ci propone di passare da Casoni di Romagna, a vedere le pale di un impianto appena terminato, sono un po’ piccoline, alte solo 70 metri (le nostre 105!). Arriviamo appena dopo il tramonto. Sono una decina. La piazzola di servizio di una pala è grossa come il parcheggio di un supermercato. La pala è lì, nelle luci dell’imbrunire, una serata splendida, colori magrittiani. Grigio chiaro, metallica, una via di mezzo tra un aereo-razzo, un frigorifero e un ventilatore. Le pale girano. Piano, mi dice Andrea. Sento un rumore diffuso, non altissimo, pensavo peggio. Ma io, si sa, sono parecchio sordo, non faccio testo. Affascinare affascina. È l’effetto del fuoriscala. Sono colossali. Ci sarebbe da esserne orgogliosi, cribbio. Cazzacci. Come mi avvicino per toccarla – lo scimmione che è in me – si accende una luce, ci sarà anche una telecamera. Antipatica. Liscia, gigantesca, davvero immensa. Facciamo le nostre foto, inutili, perché fuoriscala. Prima di andar via non resisto. Giro sul retro, nell’ombra e ci piscio contro - sarà il contagio di Romanelli. Mi arresterà, la psicopolizia? Si riparte verso casa, è notte. Ancora per una pizza, alle 11, a Vicchio. Arrivo alle 12.15, c’è ancora Mauro alzato, gli altri a letto, cotti dalla bella giornata passata in mezzo alla natura.




E ora ragionando, a una settimana di distanza mi dico: perché le pale non le si mette nei centri cittadini? Che bei fouriscala, sotto gli occhi di tutti! Davanti ai centri commerciali (così possono continuare a sprecare elettricità!). Ci sono tante aree dove potrebbero starci come gendarmi, a tutela del progresso. Nelle periferie, negli svincoli autostradali, negli scali ferroviari e nei depositi container, quante aree degradate già ci sono?! Invece no, vanno a scegliere i parchi, i crinali, le zone integre. Per non rompere le palle alla gente. Aha, allora le rompono le palle, lo vedi?... Perché c’è più vento? Ma va, se non basta nemmeno lì, ormai lo sappiamo tutti!
No, io credo sia qualcosa di ancora più profondo, un desiderio inconfessabile di spingere oltre il massacro in atto, di piantare pali di umanizzazione (ahahah!) più alti dei tralicci, di sferrare un altro, mai definitivo a quanto pare, attacco, al mondo non umano, alla wilderness, il mondo degli dei, quello dove il fuoriscala non era una prerogativa umana ma appunto, della natura indistinta, inclassificata e continua, viva, dove il dio era nel sasso, nel filo d’erba, nelle ninfe dell’acqua e nell’aquila, nella tempesta, nel fulmine e nel terremoto – sostituire il tridente di Poseidon, ecco il sogno di Prometeo che si avvera. Ricercare la sintonia coi miti antichi, quelli veri, non barthesiani, mi dico: se l’aquila di Zeus è la giustizia, e gli divora il fegato, forse allora c'è davvero una ragione. Prometeo lo stronzo, altro che Gesù Cristo. Distruggere il sacro e sostituirlo con il feticcio, il vitello d’oro (finto). Ma i cattolici! I cattolici, che cazzo fanno? Possibile che non prendano posizione contro il traliccio? Loro non sono materialisti, non credono nell'elettrone! Ancora una volta eccoci in ginocchio davanti al solito dilemma, il cattolicesimo sente la natura come un possesso inanimato da piegare e violentare o, se si deve guardare, opta per l’autoimmolazione masochista… Non fatemi dire altro… che triste e misero giudizio.



(per il logo: grazie a Mauro Galbiati)

mercoledì 8 aprile 2009

Bollettino n.18: Riso e ortiche (morte e rinascita)


Oggi è stata una buona giornata. Mi sono svegliato un po’ tardi, quando ho sentito i rumori sul tetto: sopra di me gli amici che mi danno una mano (è un eufemismo, in realtà fanno tutto loro) hanno iniziato a stendere l’intonaco sul pezzetto di muro esterno della stanza che sporge più alta del resto del tetto. Ho fatto colazione e sono salito a guardare. È bello stare sul tetto di una casa, è come stare sulla tolda di una barca, lo stesso equilibrio precario, inclinato. Già, perché i lavori al secondo appartamento, quello da sistemare sono iniziati: sul tettuccio piccolo, già in ordine, si è messo l’isolante, la guaina, si sono pulite e rimesse le tegole. Con un po’ d’interruzione, perché ha piovuto, tanto per cambiare, mentre sono dovuto salire a Milano prima del previsto per tornarne solo dieci giorni dopo, e provato da un lutto improvviso. Tornato è tornato il sole, ed è esplosa la primavera. I muri delle stanze future ora sono tutti a nudo, come ossa di uno scheletro. Sono bellissimi, di pietra, diritti e precisi. Piangerà il cuore a ricoprirli.
Di giorno ora si sta proprio bene, la vegetazione è partita alla grande. Ieri era passato il geometra a guardare un po’ i lavori, stamattina sono stato dalla commercialista per capire come muovermi per gli sgravi fiscali, e poi sono andato da Beppe per vedere un po’ come organizzare la sequenza dei lavori. Giugno, luglio, si dovrebbe finire a settembre con i pavimenti di legno. Oggi ci sono state anche telefonate verso il resto del mondo, il cremasco, Milano, ora anche un’amica dalla Svizzera, e poi tanta internet, per chiundere la contabilità del trimestre, per verificare in po’ la situazione del comitato contro le pale eoliche (si chiama Ariacheta, mi sono impegnato ieri sera a farne un blog, se tra un po’ cercherete sui motori qualcosa ci sarà). Una guardata al lavoro a venire, arriva il testo di una traduzione per l’amico Helmut (ormai traduco per lui da quasi dieci anni…), che sta preparando un altro libro con i suoi nuovi quadri. Quindi ho chiamato Elisa, su all’eremo, che mi ha invitato domattina a fare una passeggiata sul crinale insieme a due esperti di rapaci, per verificare la dislocazione delle pale (li tagliano a metà, come una ghigliottina, cercate le foto su internet). Sveglia alle 7. Mi porterò, ho deciso, Roberto Mussapi, Volare, non l’ho ancora aperto ma mi fido.
Poi ho salutato Papero e Daniele, ci rivedremo dopo Pasqua. Nel pomeriggio sono sceso passo passo dalla scarpata sotto casa fino alla strada, quella che, tagliato da Michele l’ultimo ailanto in autunno, Patrick e Nyima avevano ripulito da rovi e sambuchi. C’è qualche rovo che butta, qualche vitalba, tegole rotte, mattoni bruciacchiati e tutta una serie di reperti della civiltà contadina, tra cui: una scarpa da donna con un cespo d’erbetta al posto della fibbia, tappi di plastica e metallo, una boccetta di vetro dissotterrata a metà da un animale, collant di nylon che tiro per contenderli alla terra, in una parodia di macabro striptease, diversi frammenti di vetro della damigiana che Chiara a gennaio aveva urtato ed era rotolata giù, sfracellandosi, con sua costernazione, e poi qua e là brandelli di plastica sfilacciati, un tempo sacchetti, sommersi dagli anni. Cercavo di capire dove far passare i gradini di legno che formeranno una scaletta, tra cespugli profumati e colorati di fiori e piante – trasformerò spero questa scarpata di cocci in un piacevole giardino (bosso, ortensie, ribes, gigli, uvaspina e chissà). Ho raccolto gli ultimi rami sparsi, strappato un po’ di rovi, non sono riuscito a capire se dovrò costruire sotto, a bordo strada, un muretto di contenimento del terreno franoso o meno. Il passaggio degli animali di notte ha già creato un sentiero, ma di terra smossa, e non va bene. Vorrei evitare di mettere la rete, di fare il giardinetto. Vedremo.


Daniele è andato via a testa bassa, perché domani deve ammazzare gli agnelli. Non so quanti ne ha, penso una decina, ed è uno di quegli omaccioni che sembrano orchi ma dentro hanno il cuore tenero. Odia ammazzare gli animali, lo dice chiaramente, eppure lo fa, disperato, perché ha fatto questa scelta di allevare. Lo capisco, sapete che sono vegetariano ormai da anni. Ieri aveva detto se porto il fegato da mangiare per me e Papero me lo lasci cucinare? Ho fatto un po’ fatica a dire di sì, e ho accettato perché quel fegato fresco aveva il sapore quasi sacro di un rituale antico. Mi fa senso, ma merita il mio rispetto (e in fondo due anni fa a Campicozzoli avevo pure ammazzato io un gallo in sovrannumero). Poi non l’ha portato, almeno, diciamo che oggi sono andati a mangiare in paese (ho il sospetto siano andati a mangiarselo da un amico). Insomma, mi rendo conto ora che Daniele è ancora uno dei pochi che macellano gli animali – per altro lo fa solo per sé e gli amici, che altrimenti per venderli dovrebbe portarli al macello con un furgoncino a norma ecc.ecc., un delirio, mi aveva spiegato, quanto basta per scoraggiare il piccolo allevatore non specializzato - e per di più gli agnelli, per Pasqua. E soffre come un cane, perché i piccoli sono proprio carini: Paolo, all’eremo, mi ha fatto vedere i capretti, sono dei bimbetti con gli zoccoli (Gurù!). Guardateli qui sotto, sembrano tanti piccoli satiri, innocenti-saccenti. E dunque: Daniele (ha pure un nome biblico!) che si incaponisce a macellare gli agnelli che ha visto nascere pochi mesi prima è – almeno per me che lo conosco – l’ultimo pastore che affronta con spirito umano questa cruenta operazione. Dieci giorni fa a Piadena, il sabato pomeriggio, prima della tradizionale festa della Lega di cultura popolare, Giuseppe Morandi ha proiettato un documentario sui bergamini, i contadini della bassa (e ci ha fatto l’onore di usare per la colonna sonora uno dei nostri pezzi, “I ministri”, e il nostro gruppo si chiama emblematicamente “Suonatori Terraterra”). In chiusura parecchi minuti dedicati alla macellazione in serie dei vitelli. Daniele, che guarda davvero il caso, è ottimo cantante (il suo gruppo cugino è “La leggera”, loro hanno fatto diversi dischi) per fortuna non l’ha visto. Dice comunque che, pale o non pale, è l’ultimo anno che tiene le pecore, vuole darle via. Non ce la fa più ad ammazzare.


Che cosa succede? La società sta cambiando, non sarà mica una novità: uccidere gli animali sta diventando sempre di più un massacro nascosto, segreto, al chiuso di stalle e macelli consortili. È un caso - e forse non è un caso - che stia leggendo proprio in questi giorni Il dilemma dell’onnivoro, di Michael Pollan (Adelphi), un libro che conferma i timori più cupi sull’industria alimentare. Me l’ha consigliato Livia durante una discussione sul carnivorismo in lista, malista. Non aggiungo nulla, leggetelo. Per me sono passati più di dieci anni da quando, in uno dei miei mai pubblicati “Reportages dell’impossibile” (divertissement, si diceva una volta), raccontavo una mia inchiesta interiore sul mangiare il rognone (ce l’ho ancora il reportage, chi lo volesse me lo può richiedere per mail).
Macellare l’agnello, il capro espiatorio, il sangue, la purificazione. Tutte cose oggi ascritte ad ambiti diversi, non comunicanti, una volta invece era tutt’uno: il maiale era per i bambini un compagno di giochi come il cane, il capro era il pharmakos, per i greci, Gesù per i cattolici. La medicina, diciamo noi, l’igiene e la purificazione. L'innocente ucciso per espiare il male incombente, un modo per toglierlo di torno. Oppure: guarire per ricominciare, tra i singhiozzi, desiderosi e persuasi di non peccare più, mai più. Ucciderne uno per aprirci al bene, al sole, al bello e alla vita. Uccidere subito, per non vederne morire dopo, seppellire con lui il dolore quotidiano, ho fatto, ho dato. E ogni altra morte sarà vissuta come ingiustizia.

Un’altra cosa, e poi chiudo il discorso: oggi sgombravo le croste del formaggio dal marmo del tavolo di cucina (ogni tanto mi piglia vaghezza di mangiare senza tovaglia) con le mani. Qui in campagna ormai mi sono abituato a fare come chi è abituato a trattare con gli animali, dentro e fuori casa, il pollaio o l’orto. Delle mani si fa un uso diverso: si sporcano, si screpolano, si feriscono, le si usa per prendere direttamente gli avanzi dai piatti; si fanno cose per cui il cittadino, anche operando con la punta della forchetta, prova disgusto. Qui le mani le si usa e poi, quando si è finito le si lava, proprio come gli attrezzi. Si ingrossano e diventano nodose, dure come legno stagionato. Le stesse mani uccidono, tagliano e nutrono, accarezzano. A pensarci è cosa arcaica e strana, da brividi: le mani in campagna le si usa per fare tutto, non come in città (ma sono distinzioni ancora valide?), dove ci sono le protesi tecnologiche, dove le “mani” restano sempre “pulite” anche quando si maneggia la peggio monnezza, dove ormai si mettono i guanti in lattice anche per spolverare, o si compra tutto già fatto, e non si tocca nulla, non ci si contamina. Berürhungsangst, angoscia da contatto, chiamano i tedeschi la timidezza verso le persone, ma vale anche in senso lato (in quest’ambito non esiste metafora). E le pattumiere, con l’incubo di distinguere i nostri scarti, diventano foibe e fobie del quotidiano. Ebbene, per chiudere in allegria, in questo clima di corruzione diffusa sono sempre di più quelli che scelgono la cremazione. E il campo santo, il giardino di pace, sparisce, diventa un paradiso insustanziale (lo dico e osservo, sia chiaro, con compassione, non oso criticare - si fa quel che si può per vincere le paure), invisibile e traslato, lascia il posto alla materica discarica. Al marcio e al pattume, al gabbiano al topo e alla larva, all’incubo della civiltà fallita. Il giardino più bello e meglio esposto, il più fiorito e il più elevato, cede al brutto e all’infimo. Sic transeat.



Daniele è un poco più basso di me, ma le sue mani, fin da quando l’ho conosciuto, mi hanno sempre affascinato. Non sono tanto più grandi delle mie ma… a confrontarle noto la stessa differenza che corre tra un bastone di nocciolo e uno di bosso. Eppure ci suona la chitarra, con uno stile tutto suo, lui dice da zappatore, ma di grande efficacia, pur nella grande semplicità. Io forse suono meglio – ho più tecnica e distanza – ma sono destinato, lo so, a restare a mezza via: con le mani non faccio lavori pesanti, e ricorro sempre ai guanti (di pelle). Mi graffio su nulla, e mi si spaccano continuamente le unghie. Le sue, a guardarle, sembrano artigli d’aquila.
Oggi, coi guanti, ho colto le punte delle ortiche che crescono vicino allo scarico del depuratore Imhoff (un cittadino manco sa cosa sia…). Sono bellissime, tenere dritte e ancora trasparenti. Nel sole caldo del pomeriggio emanavano il loro odore caratteristico e pungente. Quando le ho lavate e lessate hanno riempito la cucina di un profumo che odorava d’infanzia. Le ho mangiate col riso.
E quindi niente, tutto scorre, era giusto per dire che qui da noi non esistono i rifiuti, e la vita forse, almeno per certi versi, è ancora una sola, dura e indifferenziata.


sabato 21 marzo 2009

Bollettino 17: Neve a primavera



Stamattina, dopo la lunga riunione di ieri sera in consiglio comunale, che ha segnato la fine di una settimana di sbattimenti per il comitato contro l’impianto industriale eolico che vogliono costruirci sopra le spalle, nevica di brutto. Marzo pazzerello, davvero: dopo avere già preso il sole e lavorato in maglietta nel campo, quando già accendevo la stufa solo la sera per avere l’acqua calda, eccoci ripiombati nell’inverno. Due giornate di tramontano che continuano a portare vento gelo e neve. Guardo fuori dalla finestra il sambuco con le prime foglioline, e l’alloro, tirati e piegati dal vento come alghe dalla corrente di un fiume, e vedo davanti a me miriadi e miriadi, miliardi e miliardi di fiocchi di neve che scendono dal crinale verso valle, passando davanti alla mia finestra, al tetto del vicino, rapidi e veloci come l’acqua di un fiume impetuoso in piena, inesauribile, la corrente che gira attorno a un masso.
Proprio ieri si è discusso tre ore col sindaco e la giunta, accanitamente, da una parte e dall’altra, spazientiti, noi, senza però perdere il controllo. Ormai ho capito, grazie anche agli scambi con gli amici che non sono qui, bisogna avere una grande pazienza, davvero molti non si rendono conto che queste grandi pale sono soltanto una grande e orribile speculazione, che gli unici veri vantaggi che portano sono alle aziende che le costruiscono, e che distruggono il terreno e la vita dove vengono impiantati. Non è pessimismo cosmico, mi sono documentato, su internet è facile, ma non lo fa nessuno fino a che non si trova alle strette, come è successo a noi, con la minaccia delle pale sopra la testa. Ormai si ragiona per categorie acquisite, eolico buono, baluardo contro il nucleare. Non è vero, affatto, andate a controllare. Digitate sui motori, fate come vi pare, ma cercate, e capirete. È come guardare la guerra al telegionarle – o trovarcisi in mezzo.
E così in paese, pensando di aumentare il benessere comune – voglio crederlo con tutte le mie forze - accettano questo mega progetto da 81 milioni di euro che gli servono su un piatto d’argento, e non si accorgono di possedere già la ricchezza suprema, quella biblica, la pace e la tranquillità, la prosperità di un ambiente intatto, dove di notte non i senzatetto ma i cervi vengono a frugare nella spazzatura, dove di notte sulle strade deserte bisogna stare attenti a non stirare i tassi; vogliono svendere l’integrità della nostra valle per 300 000 euro l’anno (forse), un piatto di lenticchie, nel bilancio dell’amministrazione comunale, a un colosso della speculazione nazionale. A San Gondenzo non ci sono poveri, né vecchini che fanno la fame. Ma la smania, in questo mondo, è grande.
Dall’altro lato il comitato mi ha portato nuovi amici, ho imparato strade e case che non sospettavo nemmeno. Ho ritrovato una vecchia amicizia, con Danielone, ho conosciuto gente che come me è venuta qui per lottare e conquistarsi il paradiso in terra. Discorso mio e lungo, mille volte accennato e destinato a restare mai compiuto, ritornare alla mia generazione, scoprire gente che è nata un mese, sei mesi o un anno prima o dopo di me, confrontarsi con chi ha figli adolescenti, rughe sul volto, famiglie e case, radicati, dico, qui da più di vent’anni, e che magari han visto davvero tutto il mondo, perché vengono quasi tutti da fuori, ecco dov’erano finiti, con esperienze e vite autentiche, non trascorse davanti alla televisione (o sui libri?), ma al di là dello schermo, inviati da e per se stessi.
Lo aspettavo, forse lo cercavo, come aspettavo il mio inserimento in questa comunità – ed è significativo che ieri, mentre spiegavo davanti a tutti le mie ragioni con ritrovata voce, la mia, così stentorea da intimorirmi e indurmi di solito a reprimerla, la sindaca, al centro del bancone, come un giudice o un presidente di commissione, mi abbia chiesto come mi chiamo, e l’ho potuto dire, con una certa fierezza, son Luca Vitali, faccio il traduttore, schon ein Bekenntnis (parole d’aiuto: confessione, professione, dichiarazione, ammissione).
Don Chisciotte, in reltà lo sappiamo tutti benissimo e dobbiamo solo dircelo, perdendo vince sempre, perché la sua vittoria è già il balzare in sella, lo scegliersi eroe di romanzo - visto che poi, tanto, il delirio è la realtà collettiva. Eccoli lì i mulini a vento, ora son alti 155 metri, 100 metri il diametro dei rotori, altro che Ronzinante, più nella misura di guerre stellari…
Guardo la neve che corre in orizzontale, sento il freddo che filtra dalla finestra come una coperta diaccia e si stende alla ricerca dei miei piedi. Ho messo i calzerotti, credevo non doverlo fare più fino all’autunno. Non importa, questa coda d’inverno non è sgradita, non durerà, la sento piuttosto come una forma di congedo, di ultimo morso di quest’amante dura e implacabile che è la stagione, la regina Falterona, figura mozartiana dallo scintillante manto nevoso…
Quante cose non ho scritto, detto, di questi ultimi due mesi. Un paio di volte ci ho provato, ho iniziato, poi il filo si è interrotto e riannodarlo non è cosa da due minuti…
La neve tirata dal vento, me ne accorgo fissandola, ci dà modo di vedere l’aria che si muove: i fiocchi diventano tanti piccoli segnalini, che trapuntano come una coperta il percorso della corrente da cui son portati. Qui, davanti a me, finalmente visibile l’aria scorre in orizzontale, mentre le folate s’impennano, s’abbattono, una diversa dall’altra, contemporaneamente, girano intorno al tetto della casa, scuotono gli alberi, ristagnano attorno ai comignoli e dietro ai tetti, come bimbi in fuga, appiattiti dietro un angolo per riprendere fiato. Lo sapevo già, l’aria è un fluido, una corrente, dentro cui nuotiamo sospesi, respirando. Ora la vedo, l’invisibile è diventato visibile.
Noi del comitato non siamo contro l’eolico, abbiamo continuato a ripeterlo ieri sera, siamo contro la speculazione, e ora mentre guardo la neve sto pensando a dove metterò i miei piccoli rotori verticali savonius, alti 70 cm o un metro e mezzo, elicolidali, se sul tetto o dietro, se metterne uno due o anche di più, sono, come mi diceva un ingegnere di Prato che li installa, poco più che nani da giardino. Non abbattono uccelli, perché a differenza delle pale si vedono sempre, e poi prendono il vento da tutte le parti e non da una sola, e quando il vento è troppo forte continuano a girare e semplicemente l’aria in eccesso gli si apre attorno, come davanti a un qualunque ostacolo. Non è vero che bisogna accettare il male minore, come diceva ieri un consigliere in giunta, anche perché non sempre riusciamo a capire quale sarà l’entità del male che causiamo. Il male non si può scegliere, occorre rifiutarlo e cercare più forte il bene. I savonius gireranno, li immagino già vorticare ora sul comignolo del vicino, mentre vedo l’aria tirare diritta, e sto meditando se colorarli d’oro, trasformarli in rulli di preghiera tibetana, che riversino sulla mia casa, sulla valle, ondate di preghiere meccaniche, di salute e prosperità, golem senza dio né padroni, altro che nani di gesso.
Il vento è cambiato e per un attimo la neve mi viene incontro, un po’ come le stelle in Star Trek, quando si buca l’iperspazio. E così mi sento odisseico, nuotare in questo mondo amniotico, placentare, diceva Sloterdjik, mi accorgo che siamo tutti presi e impennati da venti e correnti - ogni tanto si butta fuori la testa per guardarsi attorno e poi via, di nuovo, fino al prossimo bollettino… nuotare nuotare nuotare, una bracciata dopo l’altra, padroneggiando la nostra corta apnea.
l.
Immaginate la danza del cipresso in fiore