venerdì 23 marzo 2018

La porta di casa (dove tra gli altri si parla anche di Musil, Dante e Gide)



La porta di casa, intesa come soglia che mette in contatto due mondi, quello intimo e protetto con quello universale e avventuroso dell'esterno, mi ha sempre affascinato, come mi affascinano in genere tutte le porte. Non so per quale motivo adoro mettermici di traverso, con la schiena contro lo stipite, a guardare di qua e di là, nei due locali, nelle due porzioni di spazio che lì s'incontrano e separano, cercando sempre, dove si dà, di cogliere con l'occhio l'infilata degli altri locali.

Più di vent'anni fa Renata Colorni, da poco ex-adelphiana e direttore dei Meridiani Mondadori, sicuramente sopravvalutando la mia esperienza di traduttore/editor mi affidò la revisione della traduzione che Ada Vigliani stava facendo de L'uomo senza qualità di Musil. Il libro, che avevo già letto appassionatamente a diciott'anni nella splendida traduzione di Anita Rho, mi catturò ancora, e ben più a fondo. Forse dalle prime pagine, dove Ulrich compare alla finestra, osserva un incidente stradale (mi sembra fosse un uomo messo sotto da una carrozza, o una macchina, che a ripensarci oggi mi pare un incipit grandioso e premonitore come quello di un classico greco, mettiamo Plutarco). Nel libro mi colpì la forte presenza di particolari architettonici (era la Vienna di Loos in fondo) e cominciai ad annotare su un quaderno tutte le ricorrenze nel testo di parole e situazioni indicanti porte e finestre. Si trattava spesso di descrizioni rapide, ma a volte incorniciavano momenti affatto importanti. Avrei voluto farne un saggio, in stile inconsciamente benjaminano-magrisiano, dal quale - ero ancora impregnato di strutturalismo - risaltassero aspetti rivelatori della narrativa musiliana. Mi arenai. Alla revisione, messo di fronte mia inadeguatezza, fui costretto a rinunciare, ed entrai in una delle fasi di depressione più profonde della mia vita (non solo per quello, ci mancherebbe).  
Da allora non ho perso l'abitudine di osservare  porte e  finestre, fotografarle, raccontarle in annotazioni sparse, finite in diversi cassetti, veri ed elettronici (proprio come il secondo volume de L'uomo senza qualità, disseminato in ventimila foglietti ingovernabili; pur non essendo il mio, con le mie poche righe, minimamente paragonabile al grande e malinconico, geniale fallimento di Musil).

Ora vedo che in quell'attitudine alla contemplazione di porte e finestre si celava forse una ritrosia che semplificando posso chiamare indecisione a varcarle ed entrare in un mondo che fosse solo mio (e uscire da un altro in cui mi ero trovato fino a quel momento). Cosa che fu poi costretto a fare l'anno dopo, dopo la morte di mio padre quando, a 36 anni, steso su un lettino, fui spinto attraverso la porta di una sala operatoria, per un intervento a cuore aperto. Varcare quella soglia fu un'esperienza iniziatica (io ne vedevo soprattutto il rischio esiziale), certo uno dei maggiori tremori della mia vita. Lì mi si riparò questo difetto di flusso circolatorio e carica vitale. Uscitone risanato, il sangue riprese a scorrere con il giusto vigore e io imparai ad afferrare la mia vita, meritandomi finalmente il mio cognome, senza più restarne sulla soglia (o facendomi timorosamente accompagnare per mano da altr*). Forse anche Dante, m'accorgo ora, pativa della mia stessa sindrome, viste le molte soglie presenti nella Comedia, viste le guida cui spesso ricorre, e in particolare la donna, schermo di una vita vagheggiata e non vissuta. Fatto sta che dopo essermi fatto squarciare il petto e riassettare il cuore (più prosaicamente potrei dire: dopo aver capito che la vita è una e conviene viverla), nel giro di qualche mese presi decisioni drastiche che mi aiutarono a inaugurare una condotta che, pur tra persistenti difficoltà ed errori, decisi di riconoscere per esclusivamente mia.
Come? Separandomi da una compagna, carissima ma con cui non riuscivo a stare al passo, e comprando un appartamento in città (con l'eredità paterna e un bel mutuo), tornando nel ventre di Milano, in un appartamento vuoto di mobili ma di cui ricordo con estrema precisione le diverse porte, stipiti e  finestre.

Tutto questo sproloquio forse perché ora mi sono accorto che a breve corrono i vent'anni di quell'intervento (22 di aprile), e per introdurre la consueta riflessione su Montaonda, nella fattispecie, come anticipato nel titolo, sulla porta di casa.
Nei condomini moderni ci sono nato, e ho abitato anche quelli di cemento prefabbricato, le Betonplatten di Berlino e poi, di nuovo a Milano, una casa vecchia d'un secolo e quasi di ringhiera. Lì la porta non dà sull'esterno: prima c'è un corridoio d'uscita, di lunghezza variabile, sorta di antro imbuto intestino e utero del palazzo (alla Fritz Kahn, alla Franz Kafka, alla Louis Kahn), che dalla porta dell'appartamento, dietro la quale possiamo starcene "in mutande", sbocca in uno spazio intermedio, ombroso, che risalta così bene (oppostamente abitato) nei film anglosassoni o napoletani, dove succedono cose (o non succedono), e rappresenta una società di convivenza assimilabile in qualche modo alla famiglia allargata, al borgo, al piccolo paese, tutte strutture sociali che nelle metropoli - per esempio Milano o Berlino - non esistono. Nella metropoli la gente non si conosce, e tutt'al più, ma non sempre, scambia un saluto sul pianerottolo o in ascensore (e poi silenzio a guardare le porte, la plafoniera o pulsantiera in alluminio satinato). Il singolo è gettato contro la massa (come in Autodafé di Canetti, non sarà certo un caso).


Ecco: qui a Montaonda, la porta di casa, senza corridoio ma anzi con una bella lastra di vetro trasparente (prodigi della tecnica inimmaginabili ai tempi di Musil) la porta-finestra dà su un prato: per terra due lastre di pietra appena oltre la soglia, su cui battere i piedi infangati, da spazzare preferibilmente la mattina, e poi il prato, i muretti, l'essiccatoio, gli alberi. Vi rendete conto? Il prato! Senza soluzione di continuità. Il singolo è gettato, ma direttamente alla natura! Niente società! Proprio come la capanna di Thoreau, libero! (Certo, di sgrondarsi bene i piedi dalla mota!) 
Per questo nei miei post ci sono sempre tutti questi animali, grandi e piccoli, striscianti camminanti o volanti, c'è questa prossimità biodiversamente sorprendente. Non con altre famiglie di umani ma con esseri che davanti a casa - un metro! - passano e vivono (e cagano), immersi nel loro mondo, wow-wow-wow, la wilderness! Accidenti. Non devo andarla a cercare: ci sto nel mezzo, è il mio palazzo, la mia famiglia, la casa di tutti. (Già, ma io ho la porta, e almeno quella posso chiuderla o aprirla, e la tengo sempre chiusa, con l'aria che tira quassù, sul crinalino!).


p.s.
Ogni porta è un varco, indubbiamente, e come non ricordare quella Porta stretta di Gide? 
E poi: in fondo anche la valvola mitrale è una porticina del sangue, che si apre e si chiude a ogni battito del cuore: la mia si era allentata sui cardini e non chiudeva più bene, il sangue indugiava, avanzava e ritornava indietro. L'hanno riparata, e funziona come un orologio, perché sempre avanti bisogna andare. (Un pensiero, solo un pensiero, rileggendo, corre per fratellanza e simpatia a Gesualdo Bufalino).


martedì 13 marzo 2018

Cincia e la scoparsa degli animali dalle città

Buongiorno, buon anno e buona primavera, anch'io mi rifaccio vivo: la voglia è di riprendere a dire parole mie. Non sarà facile, dopo un anno passato a confezionare parole altrui. Lasciamo parlare per primi gli animali, allora, che sempre più spesso esprimono parte dell'animale che tutti noi siamo. Cominciamo con Danko, che è passato a conoscermi, mentre i suoi cugini lupi nei giorni di gelo si facevano ammirare alle Calle, nella valletta di fianco, proprio sotto il passo del Muraglione (pare che gli appassionati dalla terrazza del Cavallino li osservassero a proprio agio con il binocolo). Danko sembra a proprio agio con i libri Montaonda, sembra avergli trovato un buon impiego.


La mattina qui a Montaonda, quando dopo colazione vado in bagno a lavare i denti, vedo di fianco a me alla finestra una cincia che cerca di entrare. Non so se negli anni sia sempre la stessa o siano altre, ma sembra proprio bella decisa, a cercare un varco nella parete trasparente. Sembra una cinciarella, se wiki non mi inganna. Il tempo di andare di là a prendere il cellulare per fotografarla, e non c'è più. Tornerà domani. Anche quando stavo ad Aizurro, la casina nei boschi della Brianza dove abitavo negli anni '90, c'erano regolarmente degli uccelletti del bosco che cercavano di entrare dalle finestre, ma lì la casa era ricoperta d'edera, per cui le finestre davano proprio l'impressione di antri grotteschi. Dopo averne trovati un paio stecchiti sul davanzale, per avere cozzato con troppa violenza con la testa, ci eravamo procurati delle sagome nere di predatori, quelle che si vedono sui vetri delle autostrade, per tenere lontano gli uccellini.
Qui accosto ci sono un paio di cipressi, e la casa è di pietre, quindi forse ciò basta a fargli credere di poterci fare il nido. Comunque non cozzano, cercano di entrare frullando le ali. --->


Ieri ho visto anche il merlo, ritorna dopo l'inverno; quando fa freddo qui intorno di volatili si vedono quasi solo il pettirosso, le ghiandaie (belle le loro planate autunnali) e le cornacchie. In primavera ed estate si vedono anche l'upupa, col suo bel pennacchio arancione e bianco da clown, e il picchio verde. Ogni tanto passa qualche gazza, e in alto, nel cielo, gli aironi che abitano al laghetto e le poiane, dirette su rotte aeree al Falterona.
Piano piano, col passare degli anni, sto cominciando a riconoscerne qualcuno degli uccelli. Le cincie sono facili, col capino nero e la livrea verdina. Ci sono anche dei micropasseri, che non so cosa siano. Li vedo dall'altro lato, a mattino.
La riflessione è che un tempo gli uccelli erano parte importante del mondo delle relazioni animali dell'uomo, era anche diffusa l'abitudine di tenerli in casa, spesso li si addomesticava.
La straordinaria storia del passero Filippo (www.youtube.com/watch?v=UfM2Iy9X-z0) me l'ha raccontata Sasha, nel 2011 (credo) ho avuto la fortuna di sedere di fianco a lui a un pranzo di un convegno di animalisti dove presentavo il mio libro sul roadkill, Danni collaterali. La sua, di un uccellino che da cinque anni condivideva ogni momento della giornata con i suoi due amici umani, mangiando e dormendo appiccicato a loro, ci sembra una storia incredibile perché non siamo più abituati a pensare gli animali come individui con un cervello, una rete relazionale e sociale, ma principalmente come figurine e personaggi di cartoni, o come cibo o specie da tutelare. Siamo diventati proprio scemi. 


Invece tutto questo si riconnette a una tradizione minoritaria ma ancora viva, quella di persone che condividono la propria vita affettiva con animali liberi, che ora esiste soltanto in maniera sporadica, nei cosiddetti rifugi o presso gli amanti degli animali, mentre una volta era diffusissima. Molti bimbi della campagna avevano un animaletto di compagnia, tipo un coniglio (salvo ritrovarselo nel piatto, come è capitato ad Ange), mio padre mi raccontava che da ragazzo aveva addomesticato (si diceva così) un merlo.
Dove volevo arrivare? Al fatto che in città gli unici animali che si vedono liberi sono: piccioni, cornacchie, zanzare, topi. Quando invece ero ragazzo al QT8, periferia appena strappata alla campagna, c'era una quantità di vita pullulante che faceva impressione. Nel prato del condominio (foto sotto) era pieno d'insetti, e quando pioveva anche sul campo giochi e sulle strade d'asfalto bisognava fare lo slalom tra i lombrichi  grossi lucidi e rosei che comparivano dappertutto. Oggi è il deserto. Non si vede una formichina, non una farfalla non una mosca. Non so se siano le irrorazioni contro le zanzare, fatto sta che la biodiversità in città è un sogno dell'uomo, la primavera è del tutto silenziosa. Tolti gli insetti, restano solo gli animali che si cibano di rifiuti. Quando ero ragazzo ogni volta che scuotevo la tovaglia dalla finestra (della cucina, da cui ho scattato la foto qui sotto) arrivava subito una frotta di passeri, come se avessi sventolato la bandiera "pranzo servito". Ora di passeri non se ne vede più da anni.


L'amico Paolo Faccioli, insieme a diverse entità tra cui l'Università di Bolzano, sta dando vita a una iniziativa assai articolata sulla vita selvaggia in città (nome: Selvaggio Urbano). Lui, mi piace immaginare, ha iniziato diversi anni fa liberando una trota viva che aveva comprato dal pescivendolo (un episodio che  racconta in Dall'altra parte dell'affumicatore).  Io dalla città, non silenziosa ma rumorosa ormai solo di mille motori, sono scappato - non per stare in mezzo agli animali ma per essere animale io (recuperare anima, in questo senso). Qui gli uccellini continuano a bussare alla finestra, e gli scorpioni mi fanno la posta sui muri. Tante ragnatele, formiche, mosche, ma anche tanta vita, senza dover far nulla per andarla a cercare, tutto avviene con naturalezza, anche sui miei jeans, mentre leggo all'aperto.
(A seguire)