(Iniziato il 18
novembre 2012, finito oggi...)
Montaonda2,
ormai siamo alla fine: domani vengono a fare gli ultimi ritocchi alla casa,
dopo potrò solo pulire i pavimenti, finire di pitturare e arredarla. Ci sono
voluti quasi quattro anni dal momento in cui ho deciso di cominciare i lavori
(febbraio 2009, cfr. bollettino n. 16). Dal punto di vista della cronologia
esistenziale è stata durissima, perché ha comportato un rallentamento mostruoso
nei miei ritmi. E nel frattempo sono successe cose importanti: ho perso il mio
lavoro di produttore, fondato la casa editrice, ecc. ecc. I lavori sono
iniziati che era ancora viva la zia, dopo di lei se ne sono andati altri (non
altrettanto vicini per fortuna), e ci sono stati altri e diffusi decadimenti,
emergenze non indifferenti (nella cosiddetta vita privata). Anche alcune
frequentazioni si sono sfilacciate, e se ne sono aperte altre. Alcune sono
ibernate, perché comunque la scelta di stare qui sul cucuzzolo, se non ha
allontanato me dal mondo (grazie ai nuovi e vecchi legami con Milano), ha
allontanato il mondo da me. Praticamente a trovarmi non viene più nessuno, e io
ho anche smesso di invitare a vuoto. Non faccio colpe, no, so bene che
l'intenzione ci sarebbe, ma resta in un limbo trasognato, la distruzione di
risorse ed energie propria della vita contemporanea lo impedisce. Così va il
mondo: appena uno toglie il piede dall'acceleratore il motore si spegne e la
paura, la grande paura di questi anni, che mangia il cuore a tutti, è che non
riparta più. Sarà che ho davanti agli occhi esempi estremi, sarà che nella mia
vita di scelte di cambiamento ne ho fatte più d'una (anche se non quanto certi
altri! - stavo comunque meditando di incidere sopra la soglia di casa "life
is change", da White rabbit dei Jefferson).
Pare
che pochissimi riescano a fare quello che vogliono - anche se poi a ben vedere
in fondo ogni giorno facciamo quello che decidiamo, cioè vogliamo (orsù!). E
quindi forse devo semplicemente accettare l'idea non vogliano venire a trovarmi
(non abbastanza: è questo che, per tutti noi che abitiamo un altrove, è
strano). Va bene così: in fondo sono io che ho scelto di rintanarmi. E poi so
che c'è un'altra possibile spiegazione, che io non sia abbastanza accogliente,
attraente, invogliante. Bah, vedremo come va a finire.
La
devoluzione (a lungo annunciata, anche solo ai miei tempi e in musica dai Devo ai Joy Division)
- e qui allargo il discorso - sta raggiungendo livelli di evidenza che solo
qualche tempo fa (e non dico anni) non avrei ritenuto tollerabili. Quando si
chiacchiera con amici la sensazione è quella di trovarsi su una scialuppa
sovraccarica di naufraghi, che esprimono a turno incertezza, paura, speranza.
Si vede già che stanno finendo i viveri. E lascio alla fantasia coloristica del
cinema di Ang Lee (Vita di Pi, mi sembra che si chiami, visto in un 3D un po'
farlocco) la possibilità di cibarsi in mari pescosi, o sbarcare in un mondo
sostenibile: ormai la realtà ci dice che anche i mari sono popolati solo di
naufraghi e agglomerati di rifiuti plastici, le spiagge devastate dagli
tsunami. E quando qualcuno, stremato o disperato, cade o si getta in acqua, lo
guardiamo tutti con un misto di orrore ("toccherà anche a me?") ma
anche di sollievo ("ora c'è più posto, c'è più cibo, io resisto”). MI chiedo se questa moda cinematografica non ammicchi un po' all'arca di Noé, il sogno di ricominciare, la ritrovo in tutta una serie di
film tipo Up, Madagascar, ecc.ecc. Io credo siamo più prossimi alla zattera della Medusa (ma perché si chiama così? Nonostante i nudi ancora neoclassici, sotto c'è ben altro. Chi volesse leggere la sua storia su Wiki, qui, è piuttosto interessante)...
Eppure,
la campagna insegna, il ritmo cosmico (e il significato di kosmos è innanzitutto "bell'ordine") mi permette di
staccarmi da questo magnete, di fermare lo sguardo. Sui ritmi delle stagioni
ovviamente. Sul costruire oggi per oggi, senza pensare troppo a domani, che
vuol dire non eccedere e navigare a vista fragandosene, ma restare sulla misura dell' "eccoci". L'altro giorno raccoglievo fascine,
poco sotto casa. Prima ho ripulito i gradini del sentierino che porta alla
strada, era più di un anno che dovevo farlo. Erano invasi d'erba ed erbacce, i
gradini di castagno sepolti dalle nuove erbe e dalle piccole frane di terra
causate sul ripido pendio dal movimento notturno degli animali. Con la zappa ho
ridisegnato lo spazio del piede, pulito il legno infradiciato d'umidità. Un
lavoro che dovrei fare tutti gli anni, anche due volte l'anno. Ebbene, facendo
questi lavori uno si chiede "ma a che serve? Non ci passo quasi mai di
qua." Serve a creare ordine (e a passarci più spesso, anche se è
tautologico). Ma questo ordine costa caro, tanto lavoro ed energia che io non
possiedo (non parlo poi dei lavori veri, quelli più impegnativi). È il discorso che io sento alla base
del giardinaggio e dell'orto, serve a legarci alla terra, come se dalla zappa,
quasi fosse un ago, uscisse un filo magico che ci lega e cuce, colpo dopo
colpo, al terreno. E non tutti lo vogliono questo legame. I nostri genitori, ancora i
fratelli maggiori, sono scappati a gambe levate, mollando tutto. Ma ora noi che
siamo ritornati lo rivogliamo, e rimettere a posto, in ordine una casa in un
podere abbandonato significa scavare nel profondo, rimettere a coltura richiede
reintrodursi in un mondo pieno di muffa, spifferi e difficoltà.
Io
lavoro in punta di dita, non con la zappa (anche se ci provo). Ma sono convinto
che per tutti sia utile (non obbligatorio, ci mancherebbe!) imparare a frequentare il proprio giardino, starci, un
po' come facevano i vecchi una volta. E invece, spesso, resto legato alla
scrivania (il sole mi fa svanire le immagini sullo schermo del portatile, come
nebbia), dentro casa, ma tanto più sento che stare fuori, anche nella brutta
stagione, dovrebbe essere una presenza quotidiana (quando non piove troppo), che
per molti sbocca naturalmente nell'orto, in mille altre cosette.
L'amica
Nat, che sta costruendo una casa di paglia su Monte Giovi (un progetto pilota), e sta terminando gli
studi da naturopata mi ha raccontato che esiste (e praticherà, mi sembra) una orto-terapia
(forse il termine non è quello ma ci siamo vicini), e mi pare di aver già letto
su qualche illustrato che ci sono workshop di meditazione nei giardini delle
aromatiche e simili. Certo, ben vengano. Respirare vicino alla lavanda in fiore, chi non l'ha fatto? Ma nella sostanza niente di nuovo
(solo più avanzato?), in fondo lo si è sempre saputo. I monaci coltivavano per
nutrirsi e curarsi, praticavano erboristeria, trasformavano e rivendevano
rimedi e specialità. C'era già tutto, ma ora, che fatica riscoprirlo! Oggi servono i
corsi, per far stare certa gente atrofizzata in un orto. Siamo nell'era
dell'esplicitazione (e ridondanza - quello che fa la differenza è la capacità
di interagire col tutto?). Ma d'altro canto, sono nuove vie, veramente nuove,
perché abbiamo consapevolezze e conoscenze che i frati non avevano.
E
come che sia va bene, fa sempre parte del rinnovamento in una direzione, del
rinunciare alla plastica e agli alimenti industriali, anzi, smettere di
comprare il più possibile, purificarsi non solo lo spirito ma pure le budella
(che altrimenti non si scampa). Trasformare anche il giardino: i giardini sono
cambiati, non più l'angolo del piccolo autocrate ma luogo di incontro e dialogo
con il mondo botanico e animale.
E
allora? Faccio poco, ma quello che conta è fare, non fare tutto. Alla curva del
sentierino, dove questa primavera ho tagliato la branca bassa della quercia,
c'erano ancora tutte le fascine ammonticchiate. Le ho divise, legate e portate
su. Non ho grande bisogno di fascine, anzi, ho da smaltire ancora quelle
degli anni passati. Avrei potuto, e forse dovuto, in termini di economia
rurale, bruciarle sul posto e amen. Ma non mi piace bruciare, non riesco a
rassegnarmici. Così le ho portate su, sudando sotto il sole di quest'estate di
San Martino (era circa l'una e a un certo punto mi sono dovuto mettere a torso
nudo). E mi sento mio nonno, lo ricordo a settant'anni, la sua pelle bianca
come un sudario, impegnato a faticare e comandare noi ragazzini attorno alla
baita di montagna (Val d'Ossola).
Insomma,
per farla breve, ero lì a riposare un attimo, seduto sui talloni come fanno gli
orientali (ho una strana memoria stagionale, erano proprio questi i giorni di
novembre, quattro anni fa, in cui mi trovavo in Nepal), e mi chiedevo cosa me
ne frega di fare questi lavori, che li fai e l'anno dopo li devi rifare. Potrei
vivere questa terra nella sua maniera selvaggia, lasciare tutto al suo corso
(ma sono convinto che sia una catena che porta ad abbrutimento e
sopraffazione)? E - ora ritorno all'incipit - mi chiedo se questo non distingue
l'atteggiamento del cittadino, che non ferma il suo tempo, non lo spende per
seguire i tempi non suoi, o del conquistatore, che coi suoi mezzi piega e doma
il selvatico (l'ho vista l'America dei bianchi, è tutta nel segno di questa
lotta). Certo si può fare anche qua, la città che conquista la campagna:
trattori, motozappe, motoseghe, sono i suoi loschi quanto irrinunciabili
ambasciatori - se è poi possibile dominarli (e se non ti sbranano loro, giusto per
dire da che parte stanno oggi i mostri).
Invece,
ecco una differenza: se ti adoperi, se sudi e fai per cose che non sono altro
che un modo per innestarsi, per intrecciarsi con il mondo naturale e selvatico,
ecco che devi tenere curati i vialetti, le scorsaline, la soglia di casa, le
gronde, le tegole, e tutte le mille altre incombenze non sempre di evidente necessità che ben conosce chi abita
la campagna con cognizione. È un lavoro infinito, e da cui nei secoli è nato il
paesaggio europeo. I selvaggi romantici invece (mi sia consentito chiamare così
chi dà priorità all'intimità con la Natura), rinunciano a tutto questo,
accettano la vita in tenda e le brinate notturne, così come in Europa facevano
e fanno gli eremiti, santi e meno santi. Ridursi allo stato di selvaggio ha il
suo fascino, ma richiede una dedizione totale.
Riassumendo,
non vedo altre possibilità che queste: sottomettersi, o dialogare
(faticosamente), o sottomettere.
Posto
che per sottomettermi ho ancora troppe velleità (la mia cittadinità di cui
resto fieramente pervaso), solo così, accettando il sudore e l'idea del dialogo
laborioso, posso vivere in campagna, tra mugugni e magagne. Altrimenti, come si dice, in campagna ci dormi e basta,
non ci vivi. Ma poi questa scelta, se da un lato risulta costosa e
difficile, dall'altro è estremamente remunerativa, perché senza toglierti il
confort (concetto da noi sconosciuto fino agli anni '50, in Italia c'erano solo
agi e ozi, roba da ricchi!) ti dona le stesse aperture (anche se di molto
ridotte) dell'eremitaggio: solo così vivi in vicinato (invece che con le
fabbriche e i magazzini) con gli animali, anche quelli minuscoli (e dentro casa, dagli scorpioni ai polverini vari), i funghi e le
erbe, i sassi e i muschi. Solo così vedi le stagioni le foglie e le nubi,
prendi l'acqua, il sole e l'umido, incontri esseri che vivono nudi (allo stato di natura, si diceva anche), in breve ti
dimentichi della tua pretesa d'eternità e rientri nell'ordine del mondo. Ordine
(cosmico) laico, il mio, sia chiaro. Siamo qui e domani non ci saremo, è poco ed è
sicuro, ma il senso delle cose, l'unico, possiamo trovarlo nel farle, il gusto
i cibi ce lo danno quando li abbiamo in bocca, sulla lingua. Eppure spesso
quando si mangia ci si dimentica di assaporare. Come se mangiassimo prima, con
gli occhi, o con la mente. La mia ricetta è molto semplice, e per nulla nuova:
se fai fatica, se la cosa ti richiede impegno, alla fine la gusti. Niente a che
vedere con il famoso bicchiere d'acqua bevuto da Celentano (lì sta l'errore
della generazione dei nostri padri, politici ecc., dire cose facendone altre),
su un palcoscenico davanti a milioni di telespettatori: quell'acqua non ha
sapore, è una degustazione psichica, ideologica. Buonissima (voglio essere
paradossale) invece quella di Messner, per lui che ha affrontato cose che non
riusciamo nemmeno a immaginare (ma non per il consumatore, per il quale è soltanto un invito alla
suzione abbagliante e smodata, lo so). O invece, per tornare a noi, alla degustazione del
contadino (anche dilettante); quando si rientra in casa, pieni di terra graffi e ragni, dopo aver conquistato il piccolo senso della propria giornata, la bocca riarsa e la maglia
sudata. Tutto si scioglie, in quel bicchiere d'acqua.
(Le foto sono di novembre - la cucina da campo con servizi è della Nat, come la parete di paglia, nel giorno della chiusura invernale)
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