martedì 12 novembre 2013

Bollettino d'ombra


Anzi  (a distanza di una settimana ho riletto e corretto) meglio così: 

Bollettino di luce e di penombra

È successo verso mezzogiorno, dopo un mattinata di vento e pioggia furiosi è andata via la luce, prima una volta, per pochi minuti, poi a singhiozzo per un po' (estenuante, stavo lavorando su internet, e non avendo batterie tampone il mac ogni volta si spegneva), e poi definitivamente. Ho aspettato un minuto, cinque, ho capito che sarebbe andata per le lunghe. Un paio di volte è tornata ma per pochi istanti. Doveva essere caduto un ramo sulla linea, o la linea stessa, chissà quanto ci avrebbero messo a riparare. E quindi? Niente luce, niente computer, niente lavoro. Inattività forzata, vacanza. Va detto che faccio ancora parte di quella generazione un po' stakanovista che quando, per dire, c'era uno sciopero dei mezzi, o si bloccava la città per un guasto, a scuola ci arrivava a piedi, camminando magari un'ora, pur di non fare un'assenza: roba del secolo scorso. E ora che dovevo spedire a una rivista tre recensioni, quasi pronte, e non potevo? Ho iniziato a friggere - ma già una parte di me iniziava a rilassarsi, causa forza maggiore. Ho controllato  la termocucina, privata della pompa che fa girare l'acqua nei termosifoni, che non andasse in ebollizione, e mi sono messo a cucinare. Polenta e lenticchie, visto che l'inverno bussa alla porta, con le raffiche di pioggia finalmente fredda sospinte dal tramontano. Guardando verso occidente vedo gli scrosci d'acqua che si riversano sulla valle, come un'interminata tenda di tulle che si agita e lentamente vola nel cielo,  portata dal vento. Ho mangiato, e poi dormicchiato una mezz'ora, con un occhio aperto alla lampada sul comodino, sperando che la luce tornasse. Intanto dentro di me si allargava quella penombra uggiosa delle giornate cupe di novembre, quando sulle foglie ancora verdi si stende quella patina leggera di luce bianca opalescente, oleosa, e sembra di galleggiare in una laguna liquida (sarà che sono stato da poco a Venezia). Succede questo, quando manca la luce non si può più fare niente - di utile intendo. Fuori pioveva a dirotto, e non potevo ascoltare musica, scrivere al computer, guardare film o telefonare (anche il cellu era quasi scarico, bene mantenere la carica per le emergenze). Nessun contatto col mondo, solo pioggia e silenzio. In queste situazioni Montaonda diventa veramente isolata,  nessuno si avventurerebbe da queste parti, un eremo arroccato alla roccia, umida, scivolosa, battuta dai venti, a raffiche, percorsa da rivoli trasformati in torrenti. Una tana dove rincantucciarsi. Allora, contento comunque di starmene al caldo e protetto, mi sono messo in attesa (sempre per la questione del lavoro da concludere che premeva, mi secca terribilmente non rispettare i tempi), ho letto un po', sfogliando una rivista, e poi ho suonato il mandolino (sarebbe ora che imparassi per bene la melodia della mazurca dell'amante fantasma, pezzo trascinante e insieme sfuggente. E qui, poiché la le finestre del salottino sono finestre da topi, senza sole si fanno più piccole, ho sentito davvero salire la penombra, e per leggere lo spartito sono andato a prendere i primi lumini e un paio di candele (ne ho ancora la casa piena, ma non li uso mai). Decido di fare una foto. Mi alzo, vado a prendere la Nikon. Ho suonato ancora un po' (suonare in acustico non richiede elettricità, e pare un miracolo antico!), ma questa volta la chitarra folk, perché in uno scambio di mail con un collega (lo dico, e perché no? Marco Montemarano, che con il suo romanzo ha appena vinto il premio letterario Neri Pozza) abbiamo rievocato e scoperto la comune passione per John Fahey (un mito della chitarra acustica post-blues americana) e Davey Graham (un mito assoluto). Mi sono infilato le unghie di metallo e ho assaggiato le corde, come si dice, ma la chitarra ha il si e il cantino che si lamentano, devono essersi consumati i tasti, chissà se si può sistemare (e quando, soprattutto). E così mi sono fermato un po' a riflettere sul peso che ha qui e ora l'assenza della luce elettrica. Per il congelatore non mi preoccupo, ci sono solo dei fagioli cotti, sospesi nel loro brodo sembrano piccoli feti vegetali ibernati nel ghiaccio proveniente da un'epoca lontana - posso consumarli stasera o domani. Ormai il mio è un frigo quasi interamente vegano, resta una mezza bottiglietta di jogurt che per debolezza ho comprato settimana scorsa. Posso bermelo stasera, d'altro nulla rischia di andare a male. Anzi sorrido, perché so che tra poco, non appena la temperatura sarà scesa ancora di qualche grado, potrò spegnere il frigo fino a marzo - una liberazione, perché il suo ronzio, amplificato dal mobile che lo contiene, m'innervosisce (terrribilmente).
Riscopro - eccoci al punto - le ombre persistenti, quelle che non spariscono scacciate dalla luce elettrica, che quando gli punti addosso la pila fuggono soltanto in un altro lato della stanza, diventato più buio, ombre buzzatiane, avrei detto una volta. E mentre cala la sera - e sono solo le 16.30! - senza la difesa della luce elettrica, sento che prendono possesso di tutta la casa, anche della stanza dove sono, e agitano le fiammelle delle candele, mostrando tutta la precarietà della mia luce (potrei pure citare Moresco?). Che faccio? Guardo fuori dalla finestra a valle: a Cerreta, meno di un chilometro in linea d'aria, c'è una luce, anche a Imocasale, sulla provinciale. Casa di Toni è buia, ma forse lui e Daria non sono ancora tornati.
Allora esco, e provo gli interruttori del vicino (che non c'è), niente. Decido, visto che ormai sono fuori, con stivali e ombrello, visto che il vento si è un po' calmato e la pioggia non è troppo violenta, di fare due passi e andare a guardare il fiume. Perché stamattina è passato da qui Daniele, che aveva bisogno di scaricare dei file dell'assicurazione e rispedirli firmati, e mi ha stupito che lui, che abita queste valli da trent'anni e ha una jeep Nissan Terrano, una di quelle alte e grosse, non si sia fidato ad attraversare il guado del fosso di Casale, e sia venuto su a piedi.
Per strada vedo acqua che scende a doccia dappertutto, e  prima del ponte è caduto sulla strada un albero secco, con tanto di ceppo e zolla, che era da tempo pericolante, lo vedevo e dicevo ogni volta devo toglierlo. Domani prendo la motesega e lo levo di mezzo, che senza "non ci si fa" (questo è vernacolo toscano). Rami ce ne sono sparsi ovunque, e foglie, pigne di cipressi. Il fiume è grosso, davvero grosso, come non l'ho forse mai visto in sette anni. Colore del cappuccino, ribolle di schiuma, e si sentono i tonfi sordi dei sassi trascinati dalla corrente. Arrivo fino al guado e capisco perché Daniele si è fermato. Il rischio di essere trascinati via con l'auto è concreto, il fosso è un fiume in piena e ruggisce indemoniato, cerca di azzannare la passerella pedonale che gli passa sopra.
Ritorno, che comincia a far buio davvero.
E ora che faccio? Inizio a leggere un libro nuovo (ne ho tanti che mi aspettano sugli scaffali!); lo scelgo con voluttà, a Venezia, alla libreria Bertoni (calle dei Fabbri, dietro San Marco) ho trovato I mangia a poco, del mio amato Bernhard, che ancora non ho mai letto. Anzi, credo sia una decina d'anni che non leggo un Bernhard, fa parte quasi di un altro mondo (chiusosi forse con la lettura in tedesco di Estinzione? Mah). Vado in studio, al buio, allungo la mano sul ripiano dove l'ho appoggiato, riconosco la carta Adelphi al tatto. Ah, che soddisfazione, aprire un libro di un autore amato. Die Vorfreude, dicono i tedeschi, la pre-gioia che è la miglior gioia. Leggo a lume di candela - dopo quanti anni? La collana Fabula è scritta grossa, Berhard scrive senza dialoghi e punti a capo. Traduce Eugenio Bernardi (Bernhard - Bernardi, che strano caso - io dovrei tradurre Vidal, allora), di lui mi fido ciecamente. Tolgo gli occhiali, miope, e m'immergo, per una mezz'ora (quando leggo così mi torna sempre  in mente il nonno vicino al focolare, che leggeva il giornale  a pochi centimetri dal volto -lui è dentro di me e io sono nato da lui). Smetto di leggere, mi guardo attorno.
Alle sei sono di nuovo in salotto e che faccio? Comincio a scrivere appunti per questo bollettino, a matita e sul taccuino: "la luce di candela per forza rallenta il tempo. Quasi lo sequestrasse e prendesse su di sé, sul suo consumarsi bruciando, nel tremolare della fiammella". Il tempo come incenso, come sabbia della clessidra, come la candela che si consuma. "Poiché la fiamma trema, fatica, il resto", il mondo che illumina, e il suo converso, la sua ombra, "acquista consistenza, stabilità e forza. Tutto si rallenta. Anche perché molte cose diventano più difficili, addirittura pericolose. Quando si vuole muoversi, per esempio. Cercare qualcosa nella penombra diventa difficile, come nel caso della pila." Già, perché tornato dalla passeggiata al fiume ho iniziato a cercare la pila rossa, quella ikea a manovella coi led, che fa una luce migliore e stabile - le altre hanno una frizione che si esaurisce subito e bisogna continuare a smanettare per avere una luce d'emergenza. Frugare per la mia casa, piena di roba all'inverosimile, roba gettata e sorpresa dalla tenebra in luoghi normalmente dominati dalla luce, cercare la pila al quasi buio, è un'impresa non da poco. Paradossale, significativa. L'ho girata (non la manovella, la casa) tutta senza trovarla. La casa senza luce è un labirinto, senza devices sono disarmato, come la scrittura. La pila non è piccola, eppure: "dove l'avevo poggiata?" Niente, scomparsa, s'infittisce il mistero dell'ombra! "...il rumore del fiume e la penombra si espandono il silenzio". Mi insegnano a rassegnarmi, a un non qui ora e subito tutto da imparare. "La fiamma della candela sta alla luce elettrica come il ronzio di una mosca sta al batter d'ali di una farfalla." Penso che passerò la serata a sviluppare questi ragionamenti, mi piace, ormai al buio "la lucina" si è ritagliata un suo angolo discreto. In ogni stanza ho messo un lumino, in modo da potermi muovere per casa senza dover continuamente usare la pila (quella scassa a frizione). Sono pronto a una serata d'ombra, andrò a cercare il libro di Tanizaki, e chissà cos'altro uscirà, e verrà a tenermi compagnia.
E invece niente, all'improvviso, tutto il mio progetto svanisce in un istante: alle sette torna la luce, e resta. Per sempre. Che scorno. Con la luce trovo anche la pila: era nella tasca della giaccavento... ssst...



Ecco, era un po' che sentivo di dover aggiornare il bollettino, visto che qualcuno ancora lo legge e mi chiede un seguito. Sono passati  mesi, come sempre con tante cose dentro - forse troppe, vivo in una centrifuga (lenta), e non riesco a prendere fiato e metterle nero su bianco. Novità di rilievo? Boh? Sono tornato una settimana a Berlino, a ferragosto, dopo cinque anni; ho tradotto il libro The power of breathing, yoga in uscita per RED,  partecipato alla fiera di Lazise (coi libri d'apicoltura),  terminato il libro sul tree-climbing (presto maggiori infos), fatto qualche articoletto qua e là. Ho un mandolino nuovo (quello della foto), comprato su ebay, ma vecchio e difficile da suonare (l'altra cosa strana che si vede nella campana di vetro è un cucù di Matera). E come sempre ho la testa piena di cose, di progetti, di iniziative piantate a metà (come la casa di MO, per chi la conosce...). E poi ho letto, un po' di tutto, e spesso a letto...

2 commenti:

  1. Ciao Luca,
    è sempre bello leggere i tuoi post da Mo, mi fai venir voglia di venir su a farti visita.Ricordo quando andammo su la prima volta partendo da campicozzoli.Un abbraccio
    Paolo san

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  2. grazie Paolo, sì anche a me piacerebbe rivederti da queste parti. Certo che ricordo, se sto incastrato qui - è anche per il tuo assenso all'esplorazione di allora...

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