lunedì 18 gennaio 2010

Bollettino di Montaonda n. 24 bis: Seconda giornata (Annapurna Sanctuary II)


6 dicembre

Oggi si entra davvero nel santuario dell’Annapurna, mi fa capire Surya. Per cominciare da Jhinu dobbiamo arrivare a Chhomrong, due ore di salita secca, dice, e mi fa guardare in alto, proprio sopra di noi, in cima alla ripida dorsale che si innalza si intravedono dei tetti, ecco il punto in cui dobbiamo arrivare. Ci muoviamo, e subito il sentiero si trasforma in una scalinata di pietra pressoché continua, che attraversa campi a terrazzo e bosco verticale (sissignori, in Nepal la vegetazione è talmente rigogliosa che cresce anche in verticale - credo che capti l’umidità dalle foglie). Bisogna moderare passo e fiato, è la rampa di un tempio atzeco, continuo a ripetermi, mentre entro in quello stato di leggera catalessi che caratterizza questo tipo di sforzo, ripetitivo, ritmato, che favorisce lo svuotamento mentale. Il fiato, il passo sempre uguale, e niente altro, lo sforzo si mantiene costante e tutto il resto si ferma, si perde la cognizione del tempo, insomma, una vera e propria forma leggera d’ipnosi. Si può pensare, ma con davanti una giornata intera pare superfluo. Meglio assorbire l’aria del mattino, aprirsi e lasciarmi entrare dentro il mondo così come si presenta. Non ho bisogno di guardare l’orologio, anche perché sarebbe deprimente. Lo sguardo è chino, fisso sui gradini irregolari su cui poggio i piedi. Vedo e non guardo, pietra dopo pietra, la scalinata scorre sotto di me, la sento resistere sotto i talloni, sale nelle ginocchia, nell'articolazione del bacino, sulle mani e nei fianchi, nei polmoni, mi compenetra in ogni parte. Decine, centinaia di passi in salita. I gradini sono irregolari, massi di pietra grigia, compatta e pesanti, incastrati si tengono gli uni con gli altri, il sopra tiene il sotto e viceversa. A volte sono così ripidi e alti che viene da salirli di sghembo, quasi da appoggiarci una mano per tirarsi su. Penso a chi nei secoli ha costruito queste strade, a chi le mantiene in efficienza. I nepalesi spaccano la pietra a colpi di martello, l’ho visto, ne fanno ghiaia, gradini, mattoni. Ogni tanto, ovunque vi troviate, si sente risuonare la punta di ferro, il martello che batte.
Di fianco al sentiero passano dei fili che portano elettricità, sono quattro, paralleli e uno sopra l’altro, sembrano di acciaio intrecciato, e la cosa strana è che sono ad altezza d’uomo: se volessi basterebbe sporgermi sul bordo dal sentiero, alzare una mano e toccarli. Non ci sono cartelli, nessuno tipo di dissuasione. Sui pali di metallo vedo soltanto il simbolo della spirale, che sarebbe poi il terzo occhio. Noi ci mettiamo il teschio con le ossa incrociate, e visto da qui, da questa prospettiva nepalese, sorrido, mi sembra la bandiera dei pirati. L’elettricità ho visto che la ricavano dalla caduta dell’acqua, abbiamo superato un paio di piccoli impianti a turbina. Con tutta l’acqua e i dislivelli che hanno potrebbero fare opere grandiose – grandi dighe e sbarramenti - ma per fortuna ancora non li fanno. E a Kathmandu ogni giorno c’è il blackout, tra le 5 e le 7 di sera la luce può andare via da interi quartieri. Non ne hanno abbastanza, sembra. Visto l’orario sembrerebbe che l’uso dell’elettricità sia prevalentemente domestico: e in effetti nei miei spostamenti per il paese non ho visto che due o tre fabbriche o aree industriali. Nulla che consumi elettricità, e anche di treni non ne esistono. Qualche laboratorio, officina, al più cementifici, fornaci di mattoni. Ho l’impressione che il Nepal importi tutto (dall’India): tessile, plastica, meccanica e ovviamente tecnologia. I giovani nepalesi vanno all’estero a fare gli operai, in Thailandia o Korea; sei mesi, poi tornano con i soldi. Ne ho incontrati in aereo che tornavano dagli emirati. Anche Surya l’ha fatto.
Dove non passano ruote per noi quelle non sono strade, ma sentieri. E invece qui sento che non è giusto chiamarli così, i sentieri qui sono strade e meritano il nostro rispetto (se sappiamo amare i sentieri) perché mettono in comunicazione villaggi e città, sono il vero reticolo delle vie di comunicazione, come sono sempre state nei secoli. Ogni giorno queste strade strette, storte e piene di gradini, con angoli pittoreschi che mi fanno pensare a Gauguin, vengono percorse da centinaia di persone, movimentano merci, attraversano paesi, dove su di esse si affacciano negozi, osterie e locande. Si affacciano ed entrano nell’aia delle case, passando di fianco a bambini vestiti di stracci che giocano nella polvere, a galline imprigionate sotto le ceste, a bufali neri che ruminano accovacciati guardando la gente che passa. Non sono affatto come i nostri sentieri (segnalatissimi, per l’amor di Dio, ma ormai ridotti al fiacco e sporadico uso turistico, con cartelli e segni bianchi e rossi, ma sempre a rischio di sparire): qui la strada è viva, pisciata d’acqua, segnata d’impronte, e dove c’è uno smottamento presto si appiana, dove una pietra esce di sede viene sistemata da una mano invisibile. La strada è un bene prezioso, uno strumento di lavoro, non di svago. Se ci si siede a prendere fiato, tempo qualche minuto e passa qualcuno. Namastè, namastè.
Che fatica scrivere tutto questo quando, anche a a distanza di un mese, è ancora così vivo negli occhi! Gradino dopo gradino ci innalziamo, e neanche tanto lentamente: a un bivio, in mezzo al sentiero, vedo una strana congerie di piccole cose, foglie, un fiocco di lana rossa, due peperoncini con due piume bianche piantate al centro di una barchetta fatta di foglie. Surya dice bad bad, very bad, e d’improvviso non mi sembra più quel giovane moderno e spiritoso, che camminando ascolta la hit del momento dal cellulare (gli costa solo 1 rupia al minuto), di colpo ecco un indigeno che dice buana cattiva magia nera, storce tutto il viso e quasi si mette a piangere (ecco, ora capisco che in questo mondo siamo tutti mascherati dietro vestiti e accessori, e solo a tratti viene fuori il legno vero di cui siamo fatti). Sì, ho capito, è un accrocchio magico, un malocchio, una fattura, chissà, non penso di farmelo spiegare, Surya vuole solo allontanarsi. Lo fotografo, ovviamente, e intanto penso ah ah, quella roba lì può fare del male!? E ora aggiungo, non c’è nulla da fare, puoi studiare quanto vuoi le religioni, gli usi e i costumi, quando poi è il momento l’impatto con la realtà non si può spiegare, o ci sei dentro e la vedi, o ne sei fuori e resti cieco, questo mi dice la barchetta magica.




A Chhomrong arriviamo poi in un’ora e mezza, sono fiero di me. Girando dietro il contrafforte che nasconde la conca ripida in cui sorge il villaggio, l’Annapurna Sud ci appare proprio di fronte, in tutto il suo bianco splendore (è la foto in apertura, e come al solito non rende niente). Solo sulla carta scoprirò che la vetta dista dai noi 10 km!
A Chhomrong convergono dalle vallate circostanti i diversi sentieri che si riuniscono e proseguono in un'unica traccia fino all’ABC. Anche per questo aumenta il numero dei turisti e quello dei portatori. Chi va su, da qui deve ritornare lungo la stessa via. Ci fermiamo a bere una lemon water (è la mia scoperta del giorno, ho visto che la beveva Surya e ho voluto provarla anch’io, sono stufo di bere sempre tè, e mi nego le bottigliette). Dalla terrazza si può scorgere la parte più alta della valle in cui dobbiamo proseguire, da qui in due o tre giorni si arriva al Campo Base. È una valle stretta e brulla, l’erba e gran parte della vegetazione è secca per la stagione invernale, il fondo è una gola da cui si levano bastionate di roccia che si innalzano oltre i 4000 metri e nascondono le vette, lunghissima – si intravvedono la traccia del sentiero e i tetti delle varie tappe.
Beviamo rapidamente e poi via, si scende una scalinata vertiginosa e lunghissima, attraversando villaggi e campi, perdendo praticamente tutta la quota conquistata, si arriva a un ponte e poi di nuovo, dovremo risalire. Durante la lunga discesa ho capito che mi conveniva imitare la tecnica dei nepalesi, praticamente gli scalini si scendono di corsa, come da ragazzi, perché in questo modo non si deve scaricare il peso a ogni passo – per fortuna non ho problemi di ginocchia e di gambe, solo lo sforzo della velocità mi obbliga a fermarmi ogni tanto a riposare. Avere rinunciato agli scarponi in favore delle scarpe da atletica mi aiuta considerevolmente.
Il villaggio è grosso e sparpagliato, l’ultimo con telefoni, negozi, l’ultimo abitato per fini non turistici. Da qui in poi troviamo soltanto case isolate di contadini, con il bufalo che pascola poco distante, l’orto, i cespugli luminosi di tagete, i lodge per turisti. Le case lungo le quali passiamo sono bellissime, in parte hanno il tetto in paglia, altre in lastre di pietra, altre in stuoie intrecciate. E tanti fiori colorati, dappertutto.




La risalita è micidiale, anche perché ora è giorno pieno e il sole picchia (quelli della foto sono due turisti, ma siamo passati proprio di lì anche noi). Procedendo così piano, conquistando il proprio cammino metro dopo metro, si incontrano tante piccole sorprese. Una ad ogni passo, praticamente, e si ha anche il tempo di assimilarle, di inghiottirle, mentre la saliva, quella mi manca. Anche se poi, per la mia soddisfazione, basterebbe tenere presente, percepire il fatto che a pascolare nei prati, ruminando erba ormai secca, ci sono bufali neri, e non mucche; che ogni pianta, ogni fiore, è diverso da quelli cui sono abituato. Alcuni alberi, isolati, sono giganteschi e coperti di liane. Le bastionate di roccia sopra di noi sono di dimensioni immani, e si aprono verso l’alto in valloni improbabili e misteriosi, raggiungendo quote improbabili.
Mentre ci sta sfilando incontro una comitiva di una ventina di giapponesi ecco che dall’alto, sopra il sentiero polveroso, piombano giù tra di noi quattro ragazzi, vociando, da una scarpata coperta di cespugli di bambù che a me pare impraticabile, fionde alla mano, stanno braccando un uccello che sarà grosso – lo vedo quando esce disperato da un cespuglio in cerca di scampo – come un merlo. Sembra una scena di Rashomon, e in un fulmine spariscono. Naturalmente hanno jeans e magliette colorate, in stile globalizzato, ai piedi ciabatte di plastica. Non erano bambini, ma ragazzi che stavano cacciando sul serio. Con la fionda. Un uccelletto. E io? Io che ci faccio qui, in questa scenario? Interdetto, riprendo a camminare, commentando l’apparizione con Surya.
Attorno a noi, una volta fuori dal coltivato, nonostante le pendenze spesso proibitive, regna la giungla, con felci, alberi rigogliosi, bambù. Gli chiedo degli animali selvatici e Surya mi dice che ce ne sono di tutti i tipi, dai cervi, alle scimmie alle tigli. Tigri? Sì, certo. Ogni tanto rubano qualche animale e di notte, per paura della tigre, nessuno se ne va in giro. In effetti sì, me la immagino benissimo una tigre che si aggira per questi boschi. Serpenti anche, ma ora fa freddo e non se ne vedono. D’estate, mi dicono, è pieno di sanguisughe. Accidenti. Ma ora la giungla è fredda, perché copre il sole e mantiene tutta l’umidità della notte. Quasi una nebbiolina. Davvero, dove sono, che razza di passeggiata è questa (eccovi, in massimo compendio, la mia teoria che siamo quello che passeggiamo).




Pranziamo a Niwara, dopo un piattone di spaghetti con le verdure mi sparapanzo col sole sul coppino, i piedi su una sedia di plastica uguale a quella dove sono seduto, e resto a sonnecchiare. Il Machhapuchhre appare ora molto più vicino, i nevai della vetta-pinna risplendono al sole. Guardo in dentro nella vallata, Syria mi indica una macchiolina azzurra: lì c’è Bamboo, la nostra meta per oggi (nella foto in alto sullo sperone in primo piano si vedono dei puntini bianchi: sono uomini…). Altre tre ore su e giù, up and down…
Poi, dopo una lunga rampa in discesa di fianco a un campo di fieno secco, arriviamo quasi all’improvviso a Bamboo Lodge, 2600 m, che sorge in mezzo a un verdissimo bosco di grandi bambù. Wow, fermi. Anche oggi è stato molto faticoso, anche se Surya ormai mi ha persuaso e lui porta il mio zaino e io il suo, è solo un modo per distribuire meglio le nostre forze. Ho fatto fatica ad accettarlo, all’inizio, ma poi il sollievo è evidente. Lui è soddisfatto di me, dice che cammino bene (lo credo, con tutte le montagne che mi sono scammellato nei miei 40 e passa anni di camminate!)
Abbiamo fatto in due giorni tre tappe, si va in fretta perché ancora non sappiamo quanti ce ne restano, possono richiamarlo da un momento all’altro a Katmandù per l’esame, ma da bravi nepalesi aspettiamo che la cosa accada, e intanto andiamo avanti come se non fosse. Forse sto esagerando, penso, la sera sono parecchio provato, e forse comincio anche a sentire un po’ la quota. Ma sento forte il desiderio di andare avanti, perché ogni svolta della strada è la scoperta di un nuovo mondo: il paesaggio (che termine insulso, qui, neanche natura va bene, perché il dominio è totalmente suo, quindi meglio dire: quello che incontro) cambia continuamente, le prospettive si aprono e le montagne invece di abbassarsi s’innalzano.
Basterebbero altri due pernottamenti e, se reggessi la quota, sicuramente potremmo arrivare alla meta, Annapurna Base Camp, 4100 m - ma dubito di riuscirci. Surya mi spinge a proseguire, e io mi impegno. Il presentimento è di essere vicino al limite delle mie capacità fisiche, di camminare su uno spartiacque, da un lato una valle tempestosa e buia, la sofferenza e il male, dall’altro l’aria rarefatta e la luce, il ghiaccio e il paradiso. Io ho scelto che voglio il paradiso e allora, me ne accorgo qui, in questo pellegrinaggio, devo accettare oltre al giorno anche la sua notte: quante volte accettiamo rischi anche maggiori, semplicemente andando in macchina al lavoro, in bici, prigionieri della nostra cazzutissima “società del rischio”? E perché non dovrei accettare il rischio di sciupare la mia vita, magari con un infarto, un malore più che plausibile per un uomo di mezza età, uomo che proprio ora che è in vista di un’esperienza intensa, che in fondo è tutta la vita che sto aspettando? (senza aspettarla, ma mi covava dentro!)
È strano, penso ancora di notte, quanto forte sia il contrasto tra il giorno, caldo immenso e luminoso, e la notte, fredda buia e angusta come le camerette dei lodge, come il mio sacco a pelo. Anche questa diventa una scansione forte, di giorno cammino senza sosta, dimentico di me, di notte sto immobile a pensare.




Mi vengono in mente persone e cose dell’Italia ed è come se vedessi tutto con maggior chiarezza, dall’alto. Scorci dell’infanzia, luoghi, persone. Dopo un breve riposo andiamo a cena, e osservo Surya che mangia con le mani, come fanno tutti i nepalesi, prendono con la punta delle dita un po’ di riso e lo pucciano nel sugo. Potrei provarci anch’io ma non mi viene, sento che non è mio, sarebbe solo un modo per scimmiottare lui. Restassi più a lungo, arriverebbe anche questo, ne sono certo. Ma fare le cose per finta, questo no.
Tutto qui sembra più vero, più autentico, genuino, immediato. Guardo la cameretta in cui mi ritrovo: divisori di legno, mattoni imbiancati di calce, tende, una lucina. Appena l’indispensabile. Forse sono la fatica, forse il posto, le condizioni di privazione ed essenzialità che mi ispirano questi pensieri. Forse l’avere attraversato villaggi dove si batte il raccolto sull’aia, dove si usano i bufali e un aratro primitivo per arare, calcandolo coi piedi nudi. Chissà. Da tutto questo viene voglia di provare il Tibet (anche se poi ho capito che è diverso, non solo agricolo ma anche pastorale, e anche per questo molto più vicino alla Mongolia).
Ecco, credo che buona parte del fascino di questi posti venga dall’essere quello che noi non siamo più e non potremmo mai tornare ad essere, uomini naturali – se capite cosa voglio dire, persone, appunto, persone che vivono in diretto contatto con la natura, che non hanno bisogno di lasciare il loro villaggio, non hanno bisogno di nulla di quello che abbiamo noi. Che non hanno nessun bisogno di noi.
La notte è lunga, perché mi infilo nel letto verso le 7 e ci resto fino alle 6; piena di sogni, e ogni volta che mi risveglio sento cadere ininterrotta la pioggia. Il caldissimo sacco a pelo mi avvolge in un involucro quasi amniotico: dormo in totale abbandono per ore e ore, ma la notte è lunga e lunga e lunga, lunga quanto il giorno. Al mattino, poiché sento ancora la pioggia scrosciare, sono convinto che dovremo tornare indietro per il brutto tempo. Invece quando alle 6.30 arriva Surya per svegliarmi mi dice che è bellissimo, e immediatamente capisco che ho sentito tutta la notte il rumore dell’acqua che trabordava dallo scolmo della cisterna, proprio dietro la mia stanza. Il mio udito difettoso ha fatto il resto.


4 commenti:

  1. Ciao Luca, sapessi il piacere che mi fa leggere il tuo bollettino nepali style...quei gradini, li ricordo perfettamente...e so cosa vuole dire prendere un ritmo amniotico, passo dopo passo...ma passare dai 1000 di Pokhara ai 400O e passa dell'ABC in quattro giorni è da deficienti...quest'agosto, in Dolpo, ho visto morire un porter di edema cerebrale perché i suoi clienti (una coppia di coreani)avevano perso dei giorni in attesa del mountain flight ma volevano a tutti i costi fare il circuito previsto...dopo due settimane, sempre in Dolpo, un altro sherpa stava schiattando per edema polmonare a neanche 5000 e si è salvato per miracolo grazie al fatto che al campo, verso sera, era scesa una spedizione francese che aveva il cassone iperbarico...L'hanno messo dentro per un'ora e mezza e poi l'hanno sceso in quattro, di brutto, a quota tremila....

    RispondiElimina
  2. hai grandissimamente ragione - ma non hai ancora letto come va a finire la mia storia... abbi pazienza!
    ciao l.

    RispondiElimina
  3. Ciao, ho fatto il trekking nel marzo 2012, faticoso, con tutti quei gradini. Meravigliosi però, pensare che sono stati costruiti dagli sherpa. Stasera tengo una proiezione a Monza, vicino a dove abito, proprio su questo trekking. Mi piace leggere il tuo racconto.
    Io ho scritto praticamente un libro, sono circa 90 pagine.
    Se ti può interessare ti mando un link.
    Bravo. E' stato un bel viaggio. arrivare fin lassù. Noi abbiamo fatto 9 giorni.
    Prema Luna

    RispondiElimina
    Risposte
    1. grazie Prema,
      è davvero una bella avventura. Ci tornerei anche oggi, guarda. Anche perché il giorno dopo - che non ho mai scritto - sono dovuto tornare indietro, per mancanza di tempo e di guida.

      Elimina