mercoledì 6 gennaio 2010

Bollettino di Montaonda n. 24 Speciale: In pellegrinaggio alla base dell’Annapurna


5 dicembre, prima giornata

Surya, il marito di Kalimaia che si è offerto di farmi da guida, per passare a svegliarmi alle 6 si è mosso a piedi dal suo villaggio, dall’altra parte del lago, un’ora prima. Ha 32 anni, e sta dando gli esami per diventare guida. Mi ha detto che potrebbero richiamarlo da un giorno all’altro per il colloquio finale a Kathmandu, e allora dovrebbe tornare in fretta e furia. A me va bene accettare questo rischio: è simpatico, e preferisco restare solo piuttosto che trascorrere le giornate insieme a uno sconosciuto. Ho anche seri dubbi di riuscire davvero ad arrivare all’ABC, Annapurna Base Camp: sono 4150 m, abbiamo 7 giorni in tutto, non posso affrontare sforzi eccessivi e non sono mai salito così in alto in tutta la mia vita. Ma devo tentare, col passare del tempo, da che sono qui, mi sono reso conto che ci sono soprattutto per questo, vedere un ottomila, avvicinarmici quanto mi è possibile. Me ne sono accorto facendo una passeggiata con Pier a Pame, quando mi sono girato e in quel paesaggio tropicale ho visto l’Annapurna che era sbucato da dietro la collina, una mole improbabile, irreale come un fondale dipinto fino a metà del cielo.
Scendiamo in strada che è ancora buio, prendiamo un taxi (le minuscole Suzuki si aggirano tra le strade deserte di Pokhara alla ricerca di gente che come noi deve raggiungere la stazione dei pullman); siccome sono 40 minuti di cammino non esito nemmeno un istante, avremo già abbastanza da camminare dopo. Poi un’ora e passa in corriera, su e giù, fino a Navipul, un paesone di fondovalle orribile, provvisorio e sporco, da cui si entra nella valle del Modi Kohla, un taglio diritto nelle montagne che porta fin sotto alle grandi vette dell’Annapurna.
Si comincia così, camminando su un largo sterrato pianeggiante, tra chioschi e negozietti, carovane di asini, su quella che è una delle più percorse autostrade del trekking himalayano. Presto davanti a noi, sul lato destro della valle, compare azzurrino il Machhapuchhre, con la sua elegante siluoette sembra il fratello maggiore del Cervino. È ancora lontano, ma svetta da un’altezza per me ancora inafferrabile, celeste, 7000 metri. Lo chiamano anche Fishtail, perché le sue due vette, congiunte da una cresta aerea costellata di canaloni quasi verticali che pare una membrana, assomigliano alla coda di un pesce. È una delle montagne sacre dell’Himalaya, non si può scalare, non vengono dati i permessi.
Dopo una ventina di minuti a Birethanti si passa il fiume e il posto di controllo, che appone un timbro di entrata al mio permesso, sancendo l’ingresso nell’Annapurna Sanctuary Conservation Area. Questo fatto del santuario non credo faccia riferimento al fatto che Annapurna è un altro nome di Parvati, la potente e bellissima dea compagna di Shiva; o forse sì, ma non cercherò di scoprirlo nemmeno nei giorni a seguire. Osservo solo che non è abituale che una dea venga identificata con una montagna (le uniche altre montagne-divinità che conosco, nel Tibet, sono maschili, guerrieri, al più associati in una diade a un lago, un principio femminile). E a pensarci mi sembra proprio adatta a me, che anni fa, sulla suggestione del pensiero di Walter Friedrich Otto, ragionavo e sragionavo sulle montagne intese come volti del divino. Ma a tutto questo stamattina non penso: camminiamo veloci, l’aria è ancora fresca e la strada da fare lunga. Per via si incontra tutta la vita della valle, come doveva essere una volta anche da noi. Poiché non esistono altri mezzi di trasporto, tutto passa a piedi: incrociamo i bambini che vanno a scuola, le comari che vanno a far spese, chi va al lavoro.



Tutto passa sulla groppa degli asini o sulle spalle della gente, che usa una specie di gerla appesa alla fronte con una fascia, bilanciandosi con il torso leggermente piegato in avanti. Dentro questa cesta di listelli di bambù intrecciati ci vedo di tutto: legna, vestiti, sacchi di riso, una tazza del cesso e una nonnina, montagne ben impilate di uova, addirittura 5 gabbie di ferro rettangolari piene di polli vivi, una sopra l’altra, per un totale di una trentina di bestie. Deve essere il cibo per i turisti, mi dico. Eccoli dunque i portatori, i camion dell’Himalaya, la prima cosa che vedo della grande montagna sono i suoi servi. Giovani e vecchi, donne e ragazze, magri ma muscolosi, tenaci, come tante formichine instancabili. Col tempo imparerò a riconoscere i professionisti, quelli che portano per mestiere: il loro carico spesso sono due, tre, quattro zaini di trekker o alpinisti, borsoni impermeabili con le attrezzature per scalare, tende, cartoni di cibo, legati uno con l’altro e appesi alla fronte, come un carico qualsiasi. Camminano spediti a gruppi di due o tre, vedo che sudano e che si fermano spesso, scaricando il peso su apposite panche di pietra ai lati del sentiero. Portano in teoria 20 kg, ma in pratica molto di più, gli permette di guadagnare più soldi. Fanno una fatica boia, certo, semplicemente sono abituati a portare pesi. Ai piedi hanno ciabatte di plastica, raramente scarpe da atletica. Di pelle sono abbastanza scuri, non tanto piccoli; non sono sherpa, questa è regione dei gurung, dice Surya. Il loro è un lavoro logorante ma ben pagato, in una giornata prendono 6-800 rupie, 6-8 euro, che è davvero tanto. E del resto, dentro di me capisco cosa mi colpisce di questo paesaggio umano, il mio occhio ricorda un simile passaggio quando ero bambino, negli alpeggi estivi delle valli dell’Ossola, la gente si muoveva nello stesso modo, al posto degli asini i muli, e trasportava gerle e barcui pieni di fieno, di legna, formaggio, capretti, pane e vino, radio, tutto il necessario, proprio come qui, uomini e donne. I bambini avevano le gerle piccole, qui hanno delle miniceste. La mia memoria risorge in Nepal…



Dopo 8 ore di marcia in leggera salita, addentrandoci nella valle lunghissima e diritta (capo e coda si perdono in distanze azzurrine), la strada sterrata, comunque impraticabile ai mezzi a causa delle molte frane, cede il posto alla mulattiera, e si comincia a fare su e giù per scalinate ripide e lunghissime, superando balze vallette e ponti, frane, scarpate e villaggi, boschi e terrazzamenti, prima di riso poi di fieno, arriviamo finalmente a Jhinu, quasi 1800 m, dove dormiremo. In linea d’aria abbiamo fatto circa 10 km, sui 30 che ci separano dal Campo Base. Jhinu è formato da una decina di lodge, in buona parte di recente costruzione. Sta su uno sperone che abbiamo dovuto risalire e da qui si entra nella parte più alta della valle. Il nome non può non farmi pensare a Janus, e così per me diventa il villaggio-porta: di qui si entra, per haec ad aspera. Guardo la valle percorsa, lunghissima, e di fronte, il pendio della montagna è terrazzato in una maniera impressionante, ci vorranno almeno due ore per risalirlo - sul nostro lato ne è bastata una.
Sono parecchio stanco. Faccio una doccia, mi riposo un po’ poi, alle 19, finito in fretta di mangiare, dopo aver bevuto con Surya una mezza bottiglina di Whisky nepalese, gli dico che per me ognuno di questi istanti è talmente sensazionale che non posso permettermi di sprecarlo al tavolo con gli altri clienti del lodge, a sparare cazzate: lui faccia pure - ho scoperto che conosce tutti, è in buona compagnia. Mi ritiro in camera per raccogliere le idee.
Il lodge mi offre una stanzetta con muri a secco di pietra squadrata e pannelli di legno, due letti, imbiancata di calce. È gelida ma c’è la luce e un pagliericcio abbastanza imbottito. Questa prima notte, lo sento, è una notte d’iniziazione e trasferimento: non sono più in città, ma nemmeno sono ancora arrivato altrove, sono su una soglia. Mi sento solo come capita sempre quando si deve oltrepassare una porta (altro che i metaldetector dell’aeroporto), e capisco che sono qui totalmente per me, per mia unica ed esclusiva volontà (mi confronto con questa cosa, e mi fa uno strano effetto che non so piegare meglio). Questo è il vero obiettivo del viaggio in Nepal, la mia iniziativa. Ecco perché non ho cercato guru, indovini, santoni: mi accorgo ora che sono qui per la montagna. L’ho cercata fin dai primi giorni, quando a Kathmandu si diradava la foschia umida della città e apparivano lontane le vette imbiancate, o quando a Duhlikel scrutavo più vicino, ma sempre lontanissimo, il Langtang. Da sempre, ovunque vado, cerco le vette bianche dei monti.
Stanotte inauguro il sacco a pelo di piumino “-20°”, appena comprato a Pokahra da un commerciante che dopo un lungo tira e molla mi ha detto (certo per blandirmi) che non ne aveva ancora venduti a prezzo così basso; ci entro vestito ma poi e progressivamente mi spoglierò del tutto. È giallo girasole, con l’interno verde muschio, bombato come se fosse gonfio d’aria, e quando ci entro mi trasmette una sensazione di morbida protezione, di calore e relax sconosciuti. Prima di addormentarmi ancora un rito: leggo (altrove ho già concluso che leggere per me è una porta alla meditazione, aprire uno specchio interiore). Entro nel vivo della lettura di Annapurna, di Maurice Herzog, comprato a Pokhara: è il resoconto scritto dal capo della spedizione francese che nel 1950 conquistò la vetta del primo 8000. Scopro un’epopea incredibile, avvenuta solo 60 anni fa (ma sembrano secoli!) in un Nepal ancora medievale, senza strade (nemmeno tra l’India e Kathmandu), con attrezzature e tecniche rudimentali; non abbiamo idea di cosa significasse allora arrivare sotto e poi in cima a un 8000, non c’erano carte, strade, tutto doveva essere scoperto e deciso lì per lì. Era un alpinismo interamente d’esplorazione, più emozionante di qualunque impresa pensabile. Una conquista pagata cara, con mutilazioni e sofferenze lunghissime. Penso a Herzog come a un eroe fuori dal tempo, un Giasone senza nave, e al posto del vello solo una visione interiore – oro puro, che gli è bastata, scoprirò poi leggendo, a farne un uomo fortunato per tutta la vita (ovvero: la felicità di una vita può davvero essere un istante, purché la sua luce continui a brillare…).
La mia notte è lunga, piena di risvegli e pensieri, tra il sogno e la veglia. Il sacco a pelo mi ha coccolato e riscaldato come una chioccia, è chiaro che mi ha procurato uno stato d’incubazione: lo spirito del pioniere francese e dei suoi compagni mi è rimasto vicino tutta la notte. Alle 6, ora concordata, Surya bussa alla mia porta. Albeggia, e prima di far colazione mi spinge sulla terrazza del lodge, per mostrarmi l’Annapurna– ieri era coperta dalle nubi. La cima è enorme, ci sovrasta come la testa di un elefante, tutta rosata. Impressionanti i ghiacciai sulla vetta, come morbida panna sulla roccia nera che emerge tra lo sfilacciato velo delle nubi sottostanti. Sono carico di energia, ma anche intimorito: mi sento proprio come se stessi per affrontare un’iniziazione. (1 - continua?)

2 commenti:

  1. L'ABC è stato il primo trek che ho fatto in Nepal più di dieci anni fa...È là che mi è venuta la malattia...anch'io in Nepal non cerco altro che le montagne....ciao aspetto con ansia il resto...sbrigati chiara

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  2. E' un bel diario, questo, mi parla di interni ed esterni, di grandiosità e intimità comunque
    strettamente conness. Si, continua, grazie...
    Cosetta

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