lunedì 22 giugno 2015

Bollettino d’estate: 22 giugno 2015

 





E in men che non ci si accorga ecco l’estate, celebrata da un sussegguirsi di giornate strepitose. Le fioriture sono cambiate (quest’anno le fiorture sono pazzesche,  si vede, no? Ve ne siete accorti  anche giù nel mondo civile? Epperò qualcuno mi ha detto che le piante tendono a fiorire molto quando sono sotto stress, per cercare di riprodursi prima di morire, e questo sarebbe un  segno un filino angosciante) passeranno agli annali della botanica, dopo l’orniello abbiamo avuto di tutto, ora siamo coi tigli gravati dal peso dei fiori, hanno tutto un altro aspetto, sembrano alberi ornamentali, e l’iperico che rifà il bis, dopo la follia gialla dell’anno scorso). Nel pratino davanti a me, a due metri dall'iperico, vedo ancora tre orchidee, a fine giugno.
Proprio ora, prendendo un po’ di sole per scaldare le ossa intirizzite dal fresco del mattino mi chiedevo che senso ha dire che è bella questa natura, dove in realtà vige la lotta per la sopraffazione, l’affermazione e la prosecuzione, dove il singolo quando muore è meglio, che la stirpe si rafforza. Belle le farfalle, ma mosche e pappataci, scolopendre e altri esseri fastidiosi non hanno pari dignità? MI sono trovato la processione delle formiche fin sul cuscino! E qui è tutto un ribollire d'insetti e creaturine mostruose. Uscendo al mattino sento forte l’odore selvatico – chissà che festini celebrano di notte i caprioli, che danze crudeli inscenano gli istrici e le faine coi rospi, mentre i gatti sbattono qua e là topolini e lucertole come fossero cuscini al lunapark, e poi li buttano, come sacchetti di popcorn schiacciati sulla strada. 
Chissà. E intanto, ieri sera una falce luna con impronte di nuvole, luci sparse nel bosco e stelle spettacolari; grazie alle luzzole (qui si chiamano ormai così) sembrava di essere dentro Avatar. Insomma, si fa fatica a credere di non essere al cinema, stando qui. Problemi di realtà sfuggente.



Alla mia tenera età le cose s’inanellano come ciambelle appena levate dal tegame, fatico a starci dietro, non c’è posto dove metterle - è già finita la carta assorbente? Libri vecchi e nuovi (si preparano novità) una suonatina a Pisa, con tanto di bagno, una presentazione a Bergamo del libro sul treeclimbing, i lavori di smielatura (15 kg di ciliegio, e siamo all’inizio, ora arrivano acacia e castagno - spero), mentre quelli sulla casa languono (in programma per l'estate: sostituzione tegole tetto, gronde, decespugliamento serio, antitarlo e finire di pitturare dentro, olio di lino sui serramenti fuori, anche sul pavimento della cucina che fa schifo, intonaco tra le pietre fuori...) e talmente tanto d’altro che non riesco nemmeno a fare l’elenco. Non parliamo di vedere gente, se non in condizioni attive. Ogni tanto mi accorgo di avere il fiatone.  E naturalmente uno vorrebbe anche andare al mare, a trovare un amico in Salento che con quest’estate chiude e si trasferisce altrove, o in Sicilia, dove manco da vent’anni, o sui monti, l’anno scorso ho preso solo acqua, o qui o là, e soprattutto tornare a Berlino (la mia, o invece: perché non visitare una buona volta la Galizia, o la Romania?). Insomma ritornare alle estati spensierate (???) in cui pareva che ci fosse il tempo di fare tutto. E non facevo niente. Ora faccio di tutto, e mi pare di far nulla. E soprattutto, più sento il ticchettio dell'orologio e più nulla vorrei fare: leggere (ho scoperto I. B. Singer), prendere il sole, suonare, cazzeggiare in compagnia, scarabocchiare.



Come si fa? Boh. Non si fa. È diventata un po’ così la vita, non si può fare tutto quello che si vorrebbe (forse bisognerebbe guardare meno internet, ricevere meno imput a favore degli output). Forse basterebbe riuscire a godersi quel che si fa, e sarebbe abbastanza no? Come le lucertole. Avere il tempo di ripensare e rigustare il già fatto. Immobili a prendere il sole, digerire il divorato; e poi, quando sono cariche di energia solare, con un guizzo spariscono, e chissà dove sono. Ed ecco (in un mix di speculazioni e osservazioni dalla scrivania) lì di fianco, alle lucertole (foto da oltre il vetro, quello della foto d'apertura, senza alzare le chiappe), il secondo fiore di una pianta di papavero: impaginando un testo di Marianna Merisi (scritto per il libro di Antonio sull’apicoltura urbana, Edizioni Montaonda, c’è anche un minitesto mio) ho letto che se il fiore dura un giorno solo (e la mia foto è di ieri ma oggi è ancora lì) la pianta riesce a produrne fino a quattrocento in una stagione. Dico, ha un caricatore quasi infinito, spara fuori i boccioli, li innalza, li raddrizza e bum! E oggi ne è sbocciato un altro, e credo che domani ce ne saranno altri tre o quattro pronti (e quanti ancora a raffica ne sta preparando?). Fiori, miriadi di selvatici, del tutto spontanei. Che forza, la natura. Come la gatta, che sembra eterna (siamo attorno ai sedici anni e ha figliato anche quest'anno due teneri micini): le è esplosa mezza faccia per una ascesso, una settimana fa, e ora, nonostante la ferita ancora brutta e in via di rimarginazione, sembra non le sia successo nulla (forse basta non guardarsi allo specchio, per non saperlo? Anch'io cerco di ignorare i dolori al ginocchio, na non funziona granché), allatta e salta qua e là. Insomma, vorrei riuscire anch’io a fiorire e figliare e saltare altrettanto…. anche voi, no? Festina lente, affrettati ma con calma, diceva Seneca (no, nientemeno che Augusto mi dice Wiki), e l'ho sempre trovato un detestabile formalismo retorico, ma forse serve - e se serve, perché no? Alla prossima, allora.


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