La porta di casa, intesa come soglia che mette in contatto
due mondi, quello intimo e protetto con quello universale e avventuroso
dell'esterno, mi ha sempre affascinato, come mi affascinano in genere tutte le
porte. Non so per quale motivo adoro mettermici di traverso, con la schiena
contro lo stipite, a guardare di qua e di là, nei due locali, nelle due
porzioni di spazio che lì s'incontrano e separano, cercando sempre, dove si dà, di cogliere con l'occhio l'infilata degli
altri locali.
Più di vent'anni fa Renata Colorni, da poco ex-adelphiana e direttore dei Meridiani Mondadori, sicuramente
sopravvalutando la mia esperienza di traduttore/editor mi affidò la revisione
della traduzione che Ada Vigliani stava facendo de L'uomo senza qualità di Musil. Il libro, che avevo già letto
appassionatamente a diciott'anni nella splendida traduzione di Anita Rho, mi
catturò ancora, e ben più a fondo. Forse dalle prime pagine, dove Ulrich compare alla finestra, osserva un incidente stradale (mi sembra fosse un uomo messo sotto da
una carrozza, o una macchina, che a ripensarci oggi mi pare un incipit
grandioso e premonitore come quello di un classico greco, mettiamo Plutarco). Nel
libro mi colpì la forte presenza di particolari architettonici (era la Vienna
di Loos in fondo) e cominciai ad annotare su un quaderno tutte le ricorrenze
nel testo di parole e situazioni indicanti porte e finestre. Si trattava spesso di descrizioni rapide, ma a
volte incorniciavano momenti affatto importanti. Avrei voluto farne un saggio,
in stile inconsciamente benjaminano-magrisiano, dal quale - ero ancora impregnato di strutturalismo - risaltassero aspetti rivelatori
della narrativa musiliana. Mi arenai. Alla revisione, messo di fronte mia
inadeguatezza, fui costretto a rinunciare, ed entrai in una delle fasi di depressione
più profonde della mia vita (non solo per quello, ci mancherebbe).
Da allora non ho perso l'abitudine di osservare porte e finestre, fotografarle, raccontarle in annotazioni sparse, finite in diversi
cassetti, veri ed elettronici (proprio come il secondo volume de L'uomo senza qualità, disseminato in
ventimila foglietti ingovernabili; pur non essendo il
mio, con le mie poche righe, minimamente paragonabile al grande e malinconico, geniale fallimento di
Musil).
Ora vedo che in
quell'attitudine alla contemplazione di porte e finestre si celava forse una
ritrosia che semplificando posso chiamare indecisione a varcarle ed entrare in
un mondo che fosse solo mio (e uscire da un altro in cui mi ero trovato fino a quel
momento). Cosa che fu poi costretto a fare l'anno dopo, dopo la morte di mio
padre quando, a 36 anni, steso su un lettino, fui spinto attraverso la porta di
una sala operatoria, per un intervento a cuore aperto. Varcare quella soglia fu
un'esperienza iniziatica (io ne vedevo soprattutto il rischio esiziale), certo uno dei maggiori tremori della mia vita. Lì mi
si riparò questo difetto di flusso circolatorio e carica vitale. Uscitone risanato, il
sangue riprese a scorrere con il giusto vigore e io imparai ad afferrare la
mia vita, meritandomi finalmente il mio cognome, senza più restarne sulla soglia (o facendomi timorosamente accompagnare per mano da
altr*). Forse anche Dante, m'accorgo ora, pativa della mia stessa sindrome, viste le molte
soglie presenti nella Comedia, viste le
guida cui spesso ricorre, e in particolare la donna, schermo di una vita
vagheggiata e non vissuta. Fatto sta che dopo essermi fatto squarciare il petto
e riassettare il cuore (più prosaicamente potrei dire: dopo aver capito che la
vita è una e conviene viverla), nel giro di qualche mese presi decisioni
drastiche che mi aiutarono a inaugurare una condotta che, pur tra persistenti
difficoltà ed errori, decisi di riconoscere per esclusivamente mia.
Come? Separandomi da una compagna, carissima ma con cui non
riuscivo a stare al passo, e comprando un appartamento in città (con l'eredità
paterna e un bel mutuo), tornando nel ventre di Milano, in un appartamento vuoto
di mobili ma di cui ricordo con estrema precisione le diverse porte, stipiti e
finestre.
Tutto questo sproloquio forse perché ora mi sono accorto che
a breve corrono i vent'anni di quell'intervento (22 di aprile), e per
introdurre la consueta riflessione su Montaonda, nella fattispecie, come
anticipato nel titolo, sulla porta di casa.
Nei condomini moderni ci sono nato, e ho abitato anche quelli
di cemento prefabbricato, le Betonplatten di Berlino e poi, di nuovo a Milano, una casa vecchia d'un secolo e quasi di ringhiera. Lì la porta non dà sull'esterno: prima c'è un
corridoio d'uscita, di lunghezza variabile, sorta di antro imbuto intestino e
utero del palazzo (alla Fritz Kahn, alla Franz Kafka, alla Louis Kahn), che dalla porta dell'appartamento, dietro
la quale possiamo starcene "in mutande", sbocca in uno spazio intermedio, ombroso, che risalta
così bene (oppostamente abitato) nei film anglosassoni o napoletani, dove
succedono cose (o non succedono), e rappresenta una società di convivenza
assimilabile in qualche modo alla famiglia allargata, al borgo, al piccolo
paese, tutte strutture sociali che nelle metropoli - per esempio Milano o Berlino -
non esistono. Nella metropoli la gente non si conosce, e tutt'al più, ma non
sempre, scambia un saluto sul pianerottolo o in ascensore (e poi silenzio a guardare le porte, la plafoniera o pulsantiera in alluminio satinato). Il singolo è gettato contro la massa
(come in Autodafé di Canetti, non
sarà certo un caso).

Ecco: qui a Montaonda, la porta di casa, senza corridoio ma
anzi con una bella lastra di vetro trasparente (prodigi della tecnica
inimmaginabili ai tempi di Musil) la porta-finestra
dà su un prato: per terra due lastre di pietra appena oltre la soglia, su cui
battere i piedi infangati, da spazzare preferibilmente la mattina, e poi il prato, i muretti, l'essiccatoio,
gli alberi. Vi rendete conto? Il prato! Senza soluzione di continuità. Il singolo è gettato, ma
direttamente alla natura! Niente società! Proprio come la capanna di Thoreau, libero! (Certo, di sgrondarsi bene i piedi dalla mota!)
Per questo nei miei post ci sono sempre tutti questi animali, grandi e
piccoli, striscianti camminanti o volanti, c'è questa prossimità biodiversamente sorprendente.
Non con altre famiglie di umani ma con esseri che davanti a casa - un metro! - passano
e vivono (e cagano), immersi nel loro mondo, wow-wow-wow, la wilderness! Accidenti. Non devo andarla a
cercare: ci sto nel mezzo, è il mio palazzo, la mia famiglia, la casa
di tutti. (Già, ma io ho la porta, e almeno quella posso chiuderla o aprirla, e la tengo sempre chiusa, con l'aria che tira quassù, sul crinalino!).
p.s.
Ogni porta è un varco, indubbiamente, e come non ricordare
quella Porta stretta di Gide?
E poi: in fondo anche la valvola mitrale è una porticina del sangue,
che si apre e si chiude a ogni battito del cuore: la mia si era allentata sui
cardini e non chiudeva più bene, il sangue indugiava, avanzava e ritornava
indietro. L'hanno riparata, e funziona come un orologio, perché sempre avanti
bisogna andare. (Un pensiero, solo un pensiero, rileggendo, corre per fratellanza e simpatia a Gesualdo Bufalino).