giovedì 23 maggio 2013

Maggio, s'imbottiglia. Una storia di famiglia



Perché parlarne a Montaonda, visto che lo faccio a Milano? Perché imbottigliare è una vecchia tradizione di un mondo che, anche se cittadino, come nel mio caso, resta ancora vicino e, proprio per via di simili pratiche, legato alla campagna. È questo che mi permette di tirare un filo diretto, fino a qui.
L'altro ieri, trovandomi in città, e visto che il tempo reggeva, ho deciso di passare da mia madre e imbottigliare la damigiana che mi era stata consegnata.
A imbottigliare ho iniziato da ragazzo, alla metà degli anni '70, quando mio padre iniziò a comprare il vino insieme al suo collega Montoli, un ingegnere più giovane, di Limbiate (se non ricordo male, comunque, vicino a Vanzago, uno di quei paesi un tempo dispersi tra i campi di grano, che si incontrano lasciando Milano in direzione di Novara), che a sua volta lo ordinava ad Alba, insieme alla cooperativa di consumo del paese.
Ricordo qualche volta di essere andato a prendere le damigiane insieme a lui, con la nostra Citroen GS (era una macchina futuribile, azzurro metallizzato scuro, quando ancora il futuro esisteva e aveva un senso e ci faceva sbattere gli occhi). Ricordo che l'ultima volta, quando mio padre era già malato, quindi credo nel 1995, siamo passati a salutare la sua famiglia, e mi ha fatto vedere la villetta: mio padre era geometra, gliel'aveva disegnata lui.

Quando ancora abitavamo tutti assieme si portava il vino a casa e poi, quando era la giornata giusta, io e mio fratello venivamo precettati, e in un paio d'ore di traffico in cantina si imbottigliava (in genere prima di cena). Mio padre (aveva due fisse alimentari: la carne di Vanzago, sempre tramite i buoni uffici di Montoli, e il vino) si era addirittura procurato la vaschetta con tre beccucci che, quando tutto funzionava a dovere, permetteva di imbottigliare a una velocità impressionante. Quel vino lo bevevo da sempre (cioè, ho iniziato a bere vino a tavola a 14 anni), è sempre stato lì disponibile, una delle vere ricchezze della mia famiglia. Di vino ce n'era comunque, bastava andare giù in cantina a prenderlo. Per la tavola ma anche per le mie feste clandestine negli anni dell'università (quando i genitori andavano via, nel weekend o in vacanza), o anche dopo, il vino era garantito.
Il dolcetto (solo dolcetto!) lo produceva il signor Paolo Bracco, di Dogliani; ma a un certo punto si ammalò (siamo già alla fine degli anni '80 credo), perse una gamba. Ormai ero cresciuto, andato via di casa, e quando tornavo in Italia per maggio mio padre continuava a precettarmi; il signor Bracco era stato sostituito dalla figlia Mariella, e poi era mancato. Quando poi anche mio padre morì, nel 1996, continuare ad acquistare il suo vino è stato forse da parte mia il maggior segno di continuità (e questo la dice lunga in un senso o nell'altro), una lunga fedeltà che non mi sono sentito di interrompere (forse ho saltato un anno, ma ricordo che l'anno dopo ho telefonato a Montoli, sono andato a Limbiate a ritirare la mia damigiana, e per suo gentile tramite negli anni a venire mi sono arrangiato per la consegna direttamente a casa dei miei).
Per qualche anno il giro di consumo milanese si era anche allargato ad alcuni amici, i famigliari del Checco, che però lo scolavano troppo in fretta, e allora non era più una benedizione, e poi Stefano e Niccolò (quest'ultimo ha poi proseguito nel percorso su binari suoi, e ora insieme a sua moglie ha aperto una mescita di vini, davvero buoni, all'Isola, via Confalonieri, si chiama "Vinario 11", e tra le loro bellissime sedie di formica rossa, originali, tratte dalle cucine dei nostri genitori, ce n'è anche una di queste).


Mi sono ritrovato solo. Una, due, a volte anche tre damigiane, a seconda. Il vino a casa mia non deve mancare mai, e quando esco a cena porto sempre una bottiglia. Risparmio, e quasi sempre è cosa gradita. Ora imbottiglio da solo, con un tipo di cannetta che ai tempi non c'era, davvero comoda. Un'ora, o poco di più, una damigiana. Anche i tappi sono cambiati: ai tempi ricordo mio padre li impregnava d'olio di vaselina (!) il giorno prima, ora ci sono di conglomerato e paraffinati. Per qualche anno ho usato i tappi martello (quelli di plastica da piantare dentro a martellate), ma sono scomodi da tirare fuori, e poi usare la plastica mi dispiace.
Ora che sto in Toscana funziona così: la signora Bracco ad aprile mi chiama, mi dice come è andata l'annata, mi chiede quale e quanto ne voglio; spesso non ci vediamo, perché alla consegna non ci sono (provvedono mia madre, e il gentilissimo portinaio Pasquale). E mi dispiace, perché sono quei rapporti che anno dopo anno danno continuità alla vita, una continuità che non è come andare a far la revisione dell'auto, ma legata a un mondo antico, che si risolve in una "presa in consegna", un affido del buon frutto del lavoro di un anno, che diventa  promessa di serate corroboranti; dieci minuti di chiacchiere, e poi via.
Un tempo lo facevano moltissimi, ordinare il vino a damigiane e imbottigliare, in contile, in cantina, al circolino, era una delle grandi risorse del consumo diretto, filiera e km0. Poi certo, c'erano anche le bottiglie speciali, quelle con l'etichetta per le occasioni. I baroli, i nebbioli, il barbaresco! Ma il vino in tavola era questo. Ricordo il nonno materno, che prima di pranzo andava a prendere il bottiglione da due litri di Sizzano (vino mitico e asprigno, mai più assaggiato) dalla cantina (e che cantina la sua, con le volte, e vecchia di secoli! Una volta posterò una foto - e ancora, quante bottiglie, e fiaschi! Ancora soffiate a mano, pesantissime e irregolari, molte ancora mezze bottiglie...), e con uno strano alambicco di leggero vetro azzurrino, impagliato (da qualche parte ci deve essere) aspirava l'olio (di vaselina...), e travasava il vino in tre bottiglie, che teneva nell'armadio della cucina.
Insomma, con la signora Bracco, anche se parliamo al cellulare, e ci scambiamo euri, anche se parliamo di fianco a un furgone Mercedes lucido e nuovo nuovo, il vino è sempre lui, quello della vigna di suo padre. Dolcetto, barbera, grignolino, nebbiolo, vino fatto all'antica (e in tutti questi trenta e più anni non siamo mai andati a trovarla, nonostante gli inviti!), non filtrato, che alla fine lascia sulla bottiglia una camicia scura, o un fondo di granella... Lei mi racconta che sta perdendo i clienti - non che comprano di meno, non è la crisi il problema, è che muoiono, sono anziani, smettono di bere... E in effetti si sa, a bere tanto sono i più giovani, se guardo me, fino ai quaranta bevevo senza pensarci, senza pensare al giorno dopo, il vino è schietto e non fa male, mentre ora, un bicchiere e poco di più, e poi con queste nuove gradazioni, che arrivano a sfiorare e superare i quattordici gradi... Capisco, le rispondo, è sempre meno la gente che imbottiglia, è un'operazione che si considera una menata, uno sbattimento, ci si sporca - odore di polvere e vino, mani nere, traffici di bottiglie!) - ma un tempo era una festa!, mi risponde lei accorata, e in effetti, ricordo, anche con gli amici, una festa virile, anche nella nostra cantina di via Pergine, che pure è un budello in cemento armato (questa che vedete), o da Niccolò, quando bisognava innescare la cannella, si tiravano delle golate che andavano giù diritte in gola, e si tossiva e si rideva. E poi l'ordine delle bottiglie piene, schierate come un'armata di soldati, pronte ad affrontare la tappatrice e infine: munizioni per un anno! Eravamo come  artiglieri sul pezzo, passa il proiettile, apri la culatta, premi, togli il bossolo, di nuovo, un'operazione di squadra, un po' etilica, ma senza perdite... (giusto una volta ogni dieci anni scoppiava una bottiglia, o cadeva, spandendo sangue e schegge di vetro sul pavimento).


Ora mi ritrovo a passarmi le bottiglie da solo, dallo scaffale a terra, a riempirle, a tapparle, a rimetterle su. Non è affatto triste, solo una cosa diversa, più meditata, i rumori e i gesti sono gli stessi, mi faccio in tre, e tre volte penso, ricordo. La mente gira, quando girano anche le mani (mi viene in mente Volponi!). In conclusione, io non mollo, anno dopo anno mi ritrovo a fare le stesse operazioni che faceva mio nonno, che faceva mio padre, che facevo io (ormai ho una lunga memoria anche di me stesso), e continuo a bere il vino della signora Bracco. Voglio dire, non si tratta di un rito nostalgico, di una sopravvivenza, ma di qualcosa di molto vivo: il vino lo bevo e lo faccio bere, tutto l'anno, senza lesinare. Mi piace, e ha lo stesso sapore che aveva tanti anni fa (no, è più buono), e anche se non piace ad alcuni piace ad altri, è schietto, e in Toscana fa un buon ricambio al solito chianti di buona beva. Qui troverei anche dei soci che si unirebbero all'imbottigliamento, e magari si farebbe anche festa e canti e musica, durante e dopo, ma non mi risolvo, a trasferire il rito quaggiù. Lassù sono in qualche maniera in loco, in contatto con lo spirito di famiglia (i Vitali di Rovescala, da cui veniva mio nonno paterno, sono stati a lungo vinai, e forse lo sono ancora, di bonarda, mio padre ricordava che da ragazzo andava alla vigna di Poggio Pelato). Il filo, dicevo: mio padre era già nato a Milano, ma da ragazzo tornava al paese, fino a che il nonno è stato vivo (anch'io ho un cupo e vago ricordo del paese anni '60). Una volta, dopo la morte del nonno, eravamo stati a trovare suo fratello più giovane, Guerino, che aveva fatto il taxista, abitava a Rozzano, e ci aveva regalato una decina di bottiglie della sua bonarda. L'ultimo succo della nostra terra d'origine che ho bevuto...
Non ricordo prima, ma dopo mio padre aveva trovato questo nuovo fornitore, e continuato a comprare il vino in damigiane. Oggi questo tipo di consumo ritorna, con il tramite però della mescita (tipo quella di Niccolò e Valeria). E allora, combinazione, mi viene in mente che il mio altro nonno piemontese era sceso dalle valli a Milano perché "el so' pa'" aveva deciso di far studiare i figli, e aveva aperto una mescita di vino, in via Canonica 98 (ora non c'è nulla di simile). La prozia ricordava che loro stavano nel retro a fare i compiti, e servivano in negozio (attorno al 1910, fino alla guerra credo). Il nonno andava al Parini con gli zoccoli, questo me lo raccontava... Allora non so come funzionava, forse come ancora ho visto da Scoffone (è stata l'ultima vecchia  mescita di vino milanese, in via Spadari credo, ho fatto in tempo nelle ultime serate degli anni '70 a berci qualche bicchiere da capellone...). Un certo assortimento di vini sfusi, o di bottiglie aperte (questo era più lo stile di Moscatelli, e lui l'ho conosciuto bene, come non ricordarlo, con il suo abito di taglio anni '60, color tabacco, la cravatta sfrontata e il cipiglio a sostenere il suo nasone rosso, mentre versava il vino nei bicchieri, sempre fino all'orlo, come si usava una volta! Passavamo da lui, in varia compagnia, nelle lunghe serate da universitari...).
La mescita oggi funziona anche per ragioni economiche: nessuno ha più il tempo (né credo la memoria rituale) per imbottigliare, quindi porta i suoi due-sei vuoti nel negozio sotto casa, e li riempie al tino di acciaio inox, spendendo la metà che a comprare bottiglie. Non si sporca, può scegliere volta per volta che vino prendere, è ecofriendly, e col tempo sviluppa un rapporto con il rivenditore che, anche se non è proprio il contadino (Nic e Valeria sono psicologi - tre lauree in due - davvero!) è se non altro è un selezionatore serio (non un rivenditore da scaffale).
Vorrei tentare di fare un altro passo, spingere Nic e Valeria a vendere il vino della signora Bracco...  o forse dovrei davvero trasferire qui il vino e fare la festa dell'imbottigliamento, magari dal Mauri, che ha una bell'aia, o da chi altro ha lo spazio... devo informarmi, chissà come funzionava qui in Toscana (abbiamo in repertorio un canto intitolato Trescone degli zipoli), nelle case sparse per la valle... tra l'altro, guardate l'ultima foto, per chiudere in bellezza, anche a Montaonda c'era la vigna, ci sono ancora delle viti (su questa ci sono anche due mini-grappolini), le facevano salire sugli alberi... dovrei trovare il modo di recuperarle...





martedì 14 maggio 2013

I dolci frutti della primavera

Ci sono frutti che maturano tardi, altri che hanno bisogno di stare a lungo nascosti in cantina, addirittura seppelliti nella sabbia, prima di trasformare i loro aspri succhi in polpe zuccherine.
Spostando questo discorso alle persone, io propendo a credere che sia un vizio della mia generazione, anzi, proprio del mio anno, e spero che prima o poi toccherà pure a me, di profondere questo miele estratto dalla vita. Oggi però mi sembra il turno del mio vicino di casa Toni, è un musicista piuttosto conosciuto, anche perché è stato uno dei pionieri del reggae italiano.
Che vuol dire, e perché ne parlo qui? La scusa è che Montaonda grazie a lui sta entrando nel mondo dei video musicali, ovvero, per dirla in maniera meno autocelebrativa, Toni ha girato un video nei dintorni di casa (sua), per lanciare il nuovo disco (mi auguro lo vedranno e ascolteranno i patiti del reggae di tutto il mondo, fino in Kamchatka). Il disco è senza dubbio bello, e se andate su fb, in visita a “toni moretto”, trovate un link per ascoltarlo. Che è bello lo dico convinto e in tutta tranquillità: perché dischi ne ho ascoltati e ne ho visti fare, e perché non direi bugie solo per far piacere a un amico.

E quindi eccoci, volevo provare a ricamare un po’, se mi riusciva d’intessere una ghirlanda di parole per salutare la sua lunga fatica, e offrirgli così, nel mio piccolo, un con-tributo molto nel mio stile…  Mi spiego: ho rubato alcune immagini al suo video ancora inedito (ce l’ho perché lui ha dovuto farlo mandare a me, e venire qui a vederlo perché ha il computer infetto), l’ho scaricato e visto, e quindi ora posso appunto presentarvene alcune immagini  rubate, rubate addirittura prima che le vedesse lui… e raccontarvi il filmato in anteprima.

La storia è semplice. Si vede questa ragazza in riva al lago (il laghetto è sotto casa di Toni e lo vedo pure io dalla mia) e, se come ci indicano Jung e Hillman la donna è il simbolo dell’anima (io insisto sempre su questo punto, mi ci sono incistato, come Dante e tanti altri), si può dire che il quadro nell’insieme è un’immagine di malinconia (sempre Jung, ci siete?), forse perché distante da “casa”, forse perché sola, forse perché il libro che legge non le dà alcuna risposta, forse perché, anche se c’è un po’ di sole, la primavera ancora non arriva…



...(è inutile cliccare sulla freccina, è solo una foto della schermata)...

…Si vede poi Toni, in una posizione strana, sopra una rupe, in un bosco, che si agita e canta, sembra una specie di folletto, con un bastone in mano, quasi una bacchetta,  un po’ un grillo musicale, uno spirito dei boschi, e pare che la inciti e dica “su, dài, Anima! Guarda in che bel posto sei, alza le chiappe, muoviti, va’ incontro alla vita”…
 



… e infatti lei si alza, e inizia a camminare, anche se certo non sorride, diciamo pure che pare intorpidita (mah, potrebbe essere lei la Primavera?), cammina e dal lago prende la strada che viene verso Montaonda (voi non lo sapete ma è proprio così), passa il ponticino di legno del guado – ma in mezzo, intanto, ci sono tante immagini di Toni che continua a suonare, e quando arriva il ritornello si vede anche un altro posto, dove ci sono altre ragazze, e ragazzi, e anche gente più grande – gli amici di Toni: perché è a casa sua, c’è una specie di festa, sembra tutta gente piuttosto normale (con la bellezza della gioventù certo), come potremmo essere tutti, ma sorridente, con l’onda di una musica che dice qualcosa, e parla di sole (nel primo ritornello compare una bella bambina, ma proprio bella, con un sole scintillante attorno,  anche se pure gli altri mi sembrano tutti belli), e Toni che salta e si agita, suona strumenti, quasi facesse un qualche rito stregonesco, un marabutto africano, uno sciamano dell’Appennino, per svegliare quest’Anima malinconica…





…Insomma Anima arriva fino al secondo ponte (quello di cemento, dal filmato non sembra ma è alto, un ponte quasi da paura (affacciatevi con cautela sul canyon del fiume sotto, perché la sponda è bassa e il salto saranno quasi venti metri), e non so cosa le passi per la testa, sembra proprio svogliata – sminchiata… poi si gira, si fissa…




… in mezzo al ponte a guardare la rupe di fronte (qui il regista ha seppiato l’immagine e ha fatto bene, e anch’io questa rupe, che vedo tutti i giorni quando vado via da casa, l’ho fotografata al meglio in bianco e nero. Vista così non spicca tantissimo, ma vi giuro, potrebbe davvero essere la rupe dell’impiccato, sopra c’è un alberino torto e secco che nelle giornate cupe fa una discreta impressione…)
Qui mi soffermo, perché si ferma pure lei, Anima. È arrivata a metà strada tra casa di Toni e casa mia, qui succede qualcosa, nella contemplazione del baratro, del sublime direbbe Kant,  è il momento dell’agnizione, ma anche il punto più basso del sentiero,  di qui può solo sprofondare o risalire, in termini più terreni sembrerebbe che il messaggio, la musica di Toni, le sia arrivata (a noi invece arriva il leone che Anima ha tatuato dietro, sotto il collo: sarà vero, sarà una simbologia aggiunta ad hoc?). Ora ecco che Anima torna indietro. Cammina decisa, sembra sappia dove andare, risale dal lago e arriva da loro, dove stanno gli altri, alla festa: le si fanno incontro ad accoglierla due ragazze (sono tre, sempre tre? Le ninfe, le dee di Paride…) insomma, si ricompone una triade, lei sorride (anche se un po’ mesta – va detto comunque che sono tutte e tre molto spontanee, si vede che non stanno proprio recitando, non sono professioniste, e questo è bello, sappiamo apprezzarlo no?), e poi vanno a unirsi alla festa.




Ecco, il fotoromanzo del video è questo.
Nell’ultima foto qui sopra (che non è il finale del video) si vede sulla ds in alto Montaonda, il ponte e il lago invece restano sotto, ormai invisibili (brrr). Vi dirò, fa un po’ impressione vedere la propria casa in un fotogramma del cinema. E mentre guardo la mia casa che Anima non ha raggiunto (anzi, si potrebbe dire che le volta le spalle) mi viene un dubbio: se non ci fosse stato Toni, Anima sarebbe arrivata da me, e saremmo vissuti felici e contenti (siamo sempre su un livello simbolico)? O si sarebbe buttata nel fiume? Io sono Hades (l’invisibile!), lei è Marinella/Persefone (sei mesi di qua, sei di là)?
Ahah, scherzo. Anima avrebbe potuto prendere l’altra strada al bivio, e andare da Paolo, oppure proseguire per chissà dove. E poi è tutta una finzione, non dimentichiamolo.
Ma comunque: niente affatto, anche perché io a casa non c’ero, e se anche non appaio ero proprio lì, alla festa a casa di Toni, seduto sul prato. Quando Anima si va a sedere di fianco a lui, sono nascosto proprio dietro a Toni che suona: chi c’era può testimoniarlo.
Per concludere, un’ultima osservazione, per chi non ci conosce: Anima è giovane, la bimba di cui ho parlato è addirittura una bimba (la figlia di Jaka, per chi lo conosce), Toni, si vede, ha qualche annetto in più (ma sempre qualche mese meno di me!), anche le ragazze sono giovani. Ebbene, voilà, due di quelle bellezze che si vedono nella festa sono le figlie di Toni! E tutte queste altre belle ragazze sono le amiche delle figlie di Toni, o le figlie dei suoi amici. Questo mi premeva spiegarlo, per dire che le ragazze non sono qui presenti per lanciare – ma proprio per nulla! - un messaggio seduttivo sessuale (almeno: io la vedo così dalla mia prospettiva, diciamo ziesca, poi è chiaro che un altro ha tutti i diritti di vedere le cose diversamente), ma soprattutto ci sono proprio per essere se stesse, e anche questa coincidenza della Primavera, vorrà pur dire qualcosa! E le danze di Toni, che di primavere ne ha viste assai, è una danza d’invito – quella di una figura – lo dico e lo nego! – che potrebbe essere paterna, insomma non il solito maschio con in testa solo quello. E anche i maschi presenti, hanno tutti un viso rilassato, sorridente, sembrano in pace col mondo (ma quando mai succede? solo a casa di Toni?!). Cosa simpatica, no?
Da queste foto mi colpisce anche l'effetto straniante su un paesaggio per me quotidiano della presenza di Anima - che non è del posto si vede -  e del grande formato. Ma aggiungo ancora che per me c’è una buona corrispondenza estetica tra luogo, video e musica di Toni, che è una delle poche cose tra quelle che oggi ho sott'occhio che potrei chiamare genuinamente “positiva” e “carica”. Il video mi sembra riuscito (ad altri poi chissà come sembrerà). E so anche come tutta questa solarità musicale sia una conquista sudata, non un regalo piovuto dal cielo (capiranno i musicisti).
Tutto questo a Toni non gliel’ho chiesto né sottoposto, né lo farò – resta a mia totale responsabilità. Carico subito il post sul blog e spero non gli dispiaccia, e mi limito a salutare gli amici che c’erano (insieme alle due mamme – forse anche più di due, non ricordo? - nel video ben mimetizzate tra le loro figliole…) e poi massì, anche quelli che non c’erano: saluti a tutti, da Montaonda!