Stamattina mi risveglio a Paterno di Vaglia, una frazioncina di un paese sperduto nell'Appennino alle spalle di Firenze, ospite di una casa di amici (in questi giorni in vacanza) per accorciare il percorso tra me e un luogo che mi trovo a frequentare quotidianamente per un mesetto (si chiama Careggi, e chi sa sa). La casa è anni '80, ampia e padrona senza sfarzo, nata da un benessere che ancora rimanda alcuni bagliori, come di ottoni non lucidati e ormai fané; sento quell'umidiccio, quegli anni accumulati, che ricordo di aver vissuto altrove, e mi confronto così con gli stessi anni di altri, di cui intrappolati nella ragnatela del tempo restano frammenti sonori e sgargianti di vita. Nel grande salone, insolitamente quadrato, con un soffitto alto, traversato da un arioso arco di mattoni a tutto sesto in stile fiorentino, si annidano ombre, mentre sul pavimento in cotto poggiano arredi di colore severo (quasi spagnoli) e strumenti musicali (il padrone di casa è chitarrista classico e concertista); snelli armadi a vetrina colmi di bicchieri di cristallo, e un divano immenso, ricoperto di coperte invitanti e cuscini. L'hanno acquistata così, questa casa, semiarredata, corredata di una sua storia che affiora discretamente dai muri, accettando di mescolare la propria vita a quella di c'era prima, gli uni e gli altri estraei e accoglienti a un tempo, come dev'essere in una casa viva, nelle camere, nelle cantine, nei molti disimpegni, conservando tracce, segni d'uso prolungato, insieme ai piccoli fiori di salnitro...
Ieri sera, trovandomici solo e godendo della temperatura austera (i 15 gradi mi hanno riportato a tanti grandi freddi incontrati e amati con tranquillità nella mia vita, rivolta a nord fino alla mia seconda rivoluzione), ho cercato qualcosa da leggere nello scaffalino da studente della camera di Federico, il figlio ormai grande e fuori casa. Ci ho trovato Shining, di King, uno scrittore che ho imparato ad apprezzare solo in anni recenti (si fa per dire, nella gran messe di quelli trascorsi). Sono sceso dall'ampia e comoda scala (una rarità in Toscana, per nulla contadina) e mi sono accomodato sulla poltrona Poang (quanto la conosco, la seduta di Poang! Ne ho ereditata una 25 anni fa, e i miei coetanei ricordano bene come ai tempi, nelle sedi Ikea, c'era un robot che la stressava, dimostrando che poteva cullarvi "un milione di volte avanti e indietro"), ho acceso un caminetto compatto e accogliente, alimentandolo con la legna di recupero che ho trovato ben impilata nel suo ripostiglio. Mi sono versato mezzo bicchiere di vino dal bag-in-box e mi sono messo a leggere, aspettando Andrea, che alle undici mi ha portato le paste avanzate dalla sua giornata al bistrot (Demidoff, se posso fargli un po' di pubblicità) salutando per la buonanotte. Ecco, un poccolo Overlook, mentre fuori dalle vetrate scorre tranquillo il fiume umido, nella notte nera. "Uno sguardo dall'alto", è questo che ci dona il diventare anziani, un miele tardivo della vita, ricco di profumi e compatto, come quello dell'edera, l'ultimo dell'anno e difficile da raccogliere, che mangio in questo periodo assaporandolo con gusto e calma. Fa paura, certo, guardare dall'alto, dalla pancia, dal plesso si muove il senso di vertigine, ma conviene accettarla, come fa il piccolo Danny, che ha voglia di vivere la sua vita, non si chiede certo se sarà lunga lui, importante è viverla, quale che sia. E' Jack, lo sconfitto, che vuole morire. Jack, ceh sprofonda nella rabbia quotidiana, lui non supererà l'inverno, trasformandosi in una maschera di ghiaccio.
Leggo poco, il Re del thriller riesce a inquietarmi è proprio bravo a toccare i tasti del suo lugubre strimento. Ma non mi lascio impressionare, un po' Danny anch'io, mi scaldo per bene e vado a dormire avvolto in due piumini, uno sull'altro, in un letto regale. Re del mio mondo, re per un giorno, perché mi dico che ogni giorno abbiamo la possibiltà di diventarlo, anche se, sia chiaro, non sempre si riesce.
E stamattina, dopo essermi pasciuto del budino di riso e della treccia con crema di ieri, regali dolci d'allegrezza, mentre lavoro a distanza sbrigando in mattinata piccole cose per la mia casa editrice, prima di scendere al mio "appuntamento con la macchina" (sembra lì di essere in un altro film di Kubrick dove però non è il protagonista a girare dentro la macchina, come in Odissea - film mi accorgo ora dalla vocazione geometrica, circolare e rettilinea - ma la macchina che gira attorno a me, in una penombra tracciata di lucine verdi che entrano nel cuore della materia e mi dimostrano che siamo fatti di atomi, molecole, particelle, la stessa carne dell'universo intero), con la calma che mi dà sapere le feste imminenti, guardo fuori dalla finestra il bosco. Finalmente nudo, umido, verde di licheni e di edera, giallo delle foglie superstiti, qui davanti dell'albero di giuda, e degli sterpi. Guardo il pendio della montagna che sale, e poi l'asfalto, la panchina, i funghi di cemento sgabelli attorno al tavolino, la panchina e il fondo del torrente, luccicante dell'acqua che vi scorre sopra frettolosa, anch'esso tinto da alghe rugginose, autunnali, mentre l'aria si condensa e gocciola sugli steli dell'erba verde-per-sempre, perché siamo pur sempre in Toscana, e la vita qui sonnecchia d'estate ma non muore mai, nemmeno d'inverno. Il chiarore del sole, diffuso dalla nebbia come da un ombrello in uno studio di posa fotografica, fa rispledere il bosco bagnato, pieno di muschi, piccole piante e foglioline variegate, già pronte, come gemme dischiuse, alla primavera. Fiocchi di nebbia segnano la distanza e l'immobilità dell'aria. Uno dei tanti, mille volti del bosco che ho sempre amato, sempre guardato e ammirato. Questo è tutto, e tutto è.
