venerdì 14 novembre 2025

Vivere in un quadro

 

Tutto il mondo è paesaggio, ovvero viviamo tutti in un quadro immenso.

Una digressione legata alla pittura di Silvestro Pistolesi

 


Forse è capitato anche a voi, un giorno, un istante, di percepire il paesaggio attorno alla vostra persona come un quadro in cui per qualche magia della vita vi trovate inseriti a muovervi, come personaggi in un dipinto fiammingo - o surrealista, impressionista o iperrealista, non importa lo stile con cui il pittore vi guarda, modula e si esprime, quel che conta è l’intuizione romantica, quella del Mann in der Landschaft ‘Uomo nel paesaggio’, anche se il titolo del quadro di C.D. Friedrich è Der Wanderer über dem Nebelmeer, ‘Il viandante sopra il mare di nebbia’. E quanto ha meditato l’umanità e la storia dell’arte e della cultura su questo quadro, che ha germanicamente sostituito il sorriso della Gioconda con un maschio, pare fosse un ufficiale, ritratto però con un vestito da gagà e girato di spalle, in posa spavalda al di sopra di un paesaggio roccioso immerso in un mare di nebbie, senz’altro un tormentato paesaggio interiore… Un proclama da parte dell’uomo volitivo e razionalista, e i romantici lo erano eccome, che lui è il pittore del proprio mondo, della sua tela. Io sono nel paesaggio, il paesaggio è attorno a me e dentro di me, entrambi siamo dentro a un quadro dipinto da un pittore.

Per chi invece a due secoli di distanza cerca come me di dominare il dominante e disinnescare le dinamiche interiori che da occidentali inconsciamente mettiamo in atto verso l’interno e l’esterno, dinamiche di domino, come si dice in termini più attuali, per costui vale invece salvarne la prospettiva ottica di apertura, accettazione e partecipazione al quadro fantasmagorico della realtà. Onore dunque a Friedrich - ma quanto tempo è passato, appunto, noi siamo qui e ora, e tutto, mondo e natura, lo guardiamo attraverso uno schermo luminoso.

E’ questo il mio impulso, gravato da un siffatto zaino mal sopportato, che mi raggiunge come sentimento, come emozione e non certo nella forma del pensiero arzigogolato che sto dipanando qui, è quello che provavo stamattina, sorseggiando il mio golden-milk a colazione e guardando fuori dalla finestra. Il senso della bellezza e la gioia che suscita in me. Cosa voglio dire? L’irrompere della natura, anche come paesaggio, che non è altro che un costrutto culturale, una realtà immaginale, una finzione, pur buona, per la barba di Platone, è precedente e a priori da tutto questo. Un viver d’arte, e pongo l’accento sul vivere, che da Puccini e Oscar Wilde si è trasformato in un arte della vita, in cui gioia e bellezza siano il frutto a cui mira il lavoro quotidiano. E non so immaginare impegno più serio, farlo e trasmetterlo.

A me questo sentirmi nel paesaggio capita molto di frequente, non dico tutte le mattine ma spesso. Di più da quando ho scoperto questa prospettiva, questa corrente di vita che si chiama bioregionalismo, che è un incrocio di ecologia, estetica, estatica, poesia e filosofia, che ciascuno modula alla sua maniera, ben evitando la pretesa di arrivare a una sistematica o summa. In fondo è anche quel che ho sempre cercato, da quando ragazzino andavo a camminare in montagna da solo, a quando dopo alcune peripezie e periegesi mi sono trasferito a Montaonda, come ancora testimoniano i post di questo blog dove in tutti questi anni ho raccolto, senza averne l’intenzione esplicita, le mie impressioni: di, da, nel paesaggio.

Anche prima di uscire di casa, basta che mi guardi attorno, per le mie stanze, fuori dalle finestre, questo incredibile diaframma tra dentro e fuori che sono le ventanas, punto di dialogo tra realtà e visione (almeno fino a prima che arrivasse windows). Ho sempre sognato e scritto delle finestre, un mio motto potrebbe essere “ex fenestra lux”. Questa mattina l’esterno mondo che vedo dipinto e incorniciato dalla finestra è un quadro di Pistolesi, evidentemente. E’ anche una finestra temporale, perché questa finestra della cucina per me che siedo a far colazione è un’inquadratura fissa, cambia con le stagioni e il meteo, certo, ma il paesaggio resta: un cinema naturale (cos’è altrimenti il paesaggio, se ne consideriamo la temporalità palpitante?) uno schermo luminoso, con il suo vetro, la sua cornice di legno di castagno, rovere e il muro giallino, la maniglia di ferro che apre i battenti – quante volte l’ho aperta in questi diciott’anni compiuti e ormai maggiorenni che ogni giorno mi ritrovo a vivere qui.

Il cipresso, il tetto della casa di Ueli (con la sua betulla svizzera importata da Winterthur, la cittadina che si chiama ‘porta dell’inverno’) in pietra serena, le linee sinuose delle tante vallette che corrono verso il panettone del monte sopra Casale e, sopra ancora, Cielo Azzurro, il signore di tutto, il Sole, il suo nipotino diurno, mentre stanotte c’era una splendida Luna, nipotina notturna - ah già, Cielo Azzurro: anche lui ha tanti nomi, per esempio Uranos, marito di Gea, coppia degli dei primordiali, genitori tra gli altri di Kronos, il tempo.

Vivere nella natura significa anche vivere nel paesaggio (anche se poi pure in città si è immersi in un paesaggio, basta essere un po’ artisticamente rinascimentali, futuristi, costruttivisti…), e standoci immersi è questo che sembra volerci ricordare l’autunno sfoderando i suoi colori sgargianti, manco fosse la spadona di san Michele che disarticola e frantuma ogni pretesa d’eterno, ci ricorda nel suo fulgore dove dobbiamo andare, tutti (già, ieri era il due novembre, compleanno del mio fin dalla nascita ironico primo cognato, svizzero pure lui). Fuori dalla mia finestra c’è un quadro immenso, che non ha misure, il suo limite è la mia capacità di percepirlo. Il sublime: da ragazzo mi mettevo di notte sdraiato su un prato a guardare un altro quadro smisurato, le stelle, e mi concentravo sulla forza centripeta, o di gravità, che ci tiene come incollati al suolo per la schiena, calamitati: se venisse meno ecco che cadrei nello spazio infinito che vedo sopra di me, come in Odissea 2001, come John Difool… l’alto diventerebbe un basso, una voragine nera punteggiata di luci come un cielo stellato… un abisso in cui cadere diventerebbe galleggiare nel nulla che è il tutto dell’universo… cos’è il corpo, la vita in termini spaziali… cos’è il tempo in termini vitali…

 Oggi il calendario indica uno splendido lunedì di novembre. Non una bava di nuvola, e l’aria talmente pulita dalla pioggia notturna da offrirci una giornata che impone di fermarsi, qualunque sia l’incombenza che ci tocca affrontare e fare. Fermarsi, semplicemente obbedire al richiamo dei raggi del sole sulla pelle. Fermarsi per rendere grazie, non a qualcuno ma per qualcosa, la grazia dell’esserci… vivi, e in questo paesaggio per esempio, tableau vivant, autoritratto vivente che noi siamo. E il Sole che arrivando e inondandoci continuamente ci scatta una foto, miliardi di foto, in ogni istante: è sua la luce, photos, e ce la invia.

Mi viene da dire la Svizzera è un paese paesistico, poi mi correggo, pensando alle mie Alpi ossolane, a un tiro di schioppo dal confine: lo sono anche loro, come mi diceva ieri mia sorella, tornando da là, dalla sua solitaria visita alla madre addormentata nel tempo (il fratello è partito pochi giorni fa per la Cambogia, io malato sono rimasto a Montaonda), in un msg whatsapp: ci sono dei colori fantastici, diceva, e me li immagino, anche lì pieno betulle, quante volte l’ho fatta quel giorno di ieri quella tratta, scendendo nel sole, in macchina con i miei, il giorno dei morti, quando i morti ancora non erano loro.

E poi mi dico, tornando alla mia finestra, ma anche qui, ma anche dappertutto, l’autunno è un vestito smagliante che le piante indossano per l’ultima soirée dell’anno, prima di spogliarsi e andare a dormire. Hanno già chiuso e fermato la circolazione nei vasi linfatici, entrano nell’ibernazione. E penso quindi che davvero tutto il mondo è paesaggio, torno alla Tahiti di Gauguin, giusto per andare agli antipodi, alle pitture aborigene, ce ne sono che sembrano marziane, anzi, andine, di Cuzco. Tutto il mondo è paesaggio.

Noi no, non siamo come le piante, quando arriva l’inverno indossiamo i nostri scafandri da ibernauti (in questa parola pago un piccolo tributo a L’Eternauta, quel fumetto argentino negli anni Settanta che aveva immaginato un mondo senza ritorno, e mentre scorro la rete per cercare il nome del suo disegnatore, Lopez, scopro che Netflix ne ha realizzato quest’anno una serie). Noi attraversiamo l’inverno svegli, come le api. Ma almeno loro, le mitiche e perfette, trascorrono i mesi del freddo a far nulla, strette le une alle altre, come facevano un tempo anche qui i contadini nel caldo delle stalle a veglia. Le api cantano il ritmo del calore del glomere, fanno vibrare non corde vocali ma i muscoli delle ali senza dispiegarle, producendo calore, e l'abbiamo chiamata contrazione isometrica, una pratica che eseguono alternandosi in coro, spostandosi un po’ dentro, al calduccio, ferme, vicino al cuore della famiglia, dove sta la madre, un po’ fuori, sulla superficie del grappolo, vibrando coi loro muscoli possenti, per produrre il calore perfetto, alimentato dallo zucchero raccolto durante l’estate, nella trance sensoriale indotta anche dall’aroma floreale, dei profumi del miele che mangiano e bruciano lentamente, sommessamente, immerse in un nirvana che m’immagino un raccoglimento e sonnecchiare strette strette, tutte sorelle, fino a primavera, fino ai voli di purificazione, purificazione non soltanto per liberae gli intestini, come devono, ma per ricongiungersi con il Sole ritornato, per nuotare nel cielo, come aveva intuito Rudi Steiner, e ancora la Svizzera fa capolino, una purificazione celeste e azzurrina. Anche noi quando eravamo ancora perfetti esseri naturali d’inverno mangiavamo i legumi, il biondo mais, i frutti stesi sui graticci, le mele e l’uva, le pere, sempre più dolci, raccolte nell’autunno dorato, le conserve preparate in estate.

Tutt’ora ne ho diverse di queste risorse strategiche stipate nella dispensa dell’armadio a muro, nel vano sotto la scala, in cucina. E’ la mia scorta di naturalia, che purtroppo integro, non sono puro, non sono capace di fare altrimenti, con merci acquistate dalla Grande Distribuzione organizzata (Bianca Bonavita la chiama grande Putrefazione). Ormai, alla mia età dico, ho rinunciato alla speranza di salvarmi ed evadere dalla prigione che nei secoli ci siamo costruiti attorno, governata, alimentata e programmata da noi stessi, nell’illusione indotta di renderci la vita migliore e più agevole. 

Accetto la mia prigionia e guardo dalle mie finestre, altro non riesco a fare, e in fondo non è male. Ogni tanto esco e faccio quattro passi, ritrovo il vento, respiro la gioia e incontro la vita, catturo la luce e mi lascio catturare, e questo è tutto. Chi dipinge lo sa, e non lo dice, ma con la punta del pennello lo mostra a chi vorrà e potrà capire.

 



Al piano di sopra, dove sono ora a scrivere, la finestra che si apre nella medesima posizione di quella sottostante in cucina, mostra tutto diverso, perché siamo più alti da terra, a metà del cipresso, emerge il cielo azzurro, e di fianco a quella vera c’è quell’altra finestra a trompe l’oeil dei nostri tempi, quella che finge di connetterci con l’universo: lo schermo del mac con cui lavoro ora nero (perché scrivo sul divano, col laptop sulle cosce). La tinta del muro è un verdino antico, il resto dell’atmosfera lo fanno le tavelle a vista del soffitto, le travi di castagno che reggono il tetto, il pavimento di cotto rettangolare, grezzo, a spina di pesce e smangiato, la confusione del mio tavolo di lavoro e soprattutto oggi il Sole, che entra e illumina lo schermo irradiante della finestra, quadro del paesaggio offerto da Madre Natura. E qui mi fermo, perché è giunta l’ ora di pranzo, voglio uscire, mangiare l'insalata immerso in quest'ultimo calore…

 


sabato 3 maggio 2025

La (mia) canzone dei dodici mesi

 

(La quercia in fiore, per chi non l'avesse mai vista)

Ben venga maggio

Tanti anni fa, più venti che dieci ormai, ero con Ivan della Mea, non ricordo se da solo o con altri, perché era un periodo che, frequentando l’Istituto Ernesto de Martino, a Sesto Fiorentino, di cui era presidente, partecipavo a iniziative per la musica popolare, e mi capitava spesso di avere a che fare con lui. E lui quando c’era era sempre molto presente (querida presencia!), chi l’ha conosciuto capisce cosa dico, con tutto l’affetto e l’amore che gli porto (è sicuramente stato uno dei consiglieri segreti eletti dal mio cuore).

Insomma, forse era anche un primo maggio - può ben essere perché a quei tempi con i Suonatori Terraterra si usava partecipare ogni anno a quella festa musicale nel cortile dell’Istituto (c'è ancora!), con tanto di salamelle poi nel parchetto dietro la villa - e Ivan raccontava che Guccini era, insieme a un altro per me insospettabile, Roberto Benigni, un formidabile improvvisatore in ottava rima. Da tempo ormai “il pavanate” (credo la definizione sia sua e gliela ritorco contro) non mi era più simpatico, aveva lasciato la bottiglia sui palchi di periferia e cavalcava l’onda della celebrità (“non compravo i suoi  dischi”, non ne ho mai comprato uno), scriveva libri su libri, era diventato una star da fustino Dixan. Per esempio avevo anche saputo, dal mio giro superstite di musicisti alternativi e studi di registrazione, che solo di diritti SIAE incassava, prima della conversione all’euro, una media di 300 milioni l’anno. A prescindere da dischi e concerti, per intenderci. Che a quei tempi, sempre per intenderci, era quanto l’amministratore di una grande società, tipo Enel o Poste Italiane. Insomma, c’era abbastanza per una bella separazione, e così, come tutti gli innamorati delusi, dopo averlo suonato e cantato all’infinito da ragazzo (grazie al Piccinini che aveva gli accordi di tutte, non solo gli ovvi inni trionfali, come La locomotiva, L’avvelenata, anche L’opera buffa e le prime canzoni più scherzose - ma mai oltre l’album via Paolo Fabbri 43), mi ero distaccato da lui con disgusto. Ebbene, dopo tanti anni Ivan mi aveva riportato alle sue capacità. Musicali, poetiche, testuali. Altissime, indubbiamente, e ben fondate e resistenti.

E oggi, scrivendo ad amici su wapp un messaggio per il Maggio mi viene in mente “Ben venga maggio” - ma non quello cantato ieri sera in coro dai maggiaioli di San Godenzo, per le vie del mio paese sul Falterona - proprio la strofa de La Canzone dei dodici mesi (Ben venga maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera...), una canzone che mi è, nella sua splendente malinconia, profondamente cara, un inno stringato e nello stesso tempo epico alla natura e alla vita umana, una sintesi di Le opere e i giorni e gli stati d'animo, la ciclicità cronica e cronologica della nostra epoca. Un piccolo e misurato capolavoro, compattato in tre minuti di immagini potenti e sottili, da Esiodo a Eliot, un incrocio di natura e cultura come soltanto i veramente grandi riescono a tessere. E, per la mia generazione, con tutto il rispetto per i poeti, che non me ne vogliano, i "vati" veri erano loro, i Guccini, Lolli, e pochi altri - anche Vasco, perché no, insomma, guarda che caso, molti bolognesi. 

E la musica? Devo dire, gli arrangiamenti della canzone, anche se attingono a piene mani ai conservatori bolognesi e alla tradizione angloamericana, in quel disco erano raffinati e curati, esprimevano e rielaboravano la tradizione, la cultura popolare di Guccini, di Pavana, della cultura ballerina e canterina, dell’Appennino Bolognese e Pistoiese (soltanto in quel periodo in cui frequentavo Ivan avevo scoperto che anche Gianni Morandi veniva da quel mondo, essendo lui di Monghidoro, che ho frequentato per le stesse ragioni musicali, e che si trova a non molti chilometri di crinale da Pavana).

Quindi, in quella canzone, ho colto ora quel che mi era sempre sfuggito, un omaggio al Maggio. Chissà quanti altri ce ne sono, che non vedo... Quindi non voglio aspettare che sia morto, il Guccini, per riabilitarlo e riconoscergli tutti i suoi tanti meriti, per avere alimentato e stimolato - in maniera sempre intelligente, lo sottolineo e lo dico al vaglio dei tanti anni trascorsi, e limitatamente al Guccini antico, l'unico che conosco io - un'epoca importante della vita culturale italiana (il prossimo capitolo magari lo riservo a Battisti, eh?), con ironia, energia, cialtroneria, finezza, passione. E come no, anche tutto il resto...

Ancora un attimo: e il titolo dell’album? Parliamone! Radici, non era già un programma bioregionalista? A confermare il legame e il rimpianto per la terra; e dirci che, come continua  a ripetere Etain Addey, in Italia siamo tutti, oltre che canterini, bioregionalisti, ed è forse proprio questo che fa innamorare gli stranieri di noi, e noi della nostra terra, del nostro cibo e delle nostre chiacchiere, e questo radicamento è ancestrale. In Italia si arriva (indeuropei, barbari, bizantini, arabi, normanni, tedeschi, francesi, inglesi e russi, per non parlare degli orientali, come mia cognata, che veniva da Tokyo, o la mia prima suocera, da Riga) e non si va più via. E' una terra attraente, e non solo per i migranti. Da cui a sua volta migra soltanto chi si pone in contrasto, i poveracci, gli esuli e gli ambiziosi, insomma chi alla terra non si sa o non si vuol legare.

Conosco, arrivate qui in Mugello, diverse persone che vorrebbero rivoluzionare la propria vita, ricominciare, e molti cercano di farlo lavorando la terra dell’orto, piantando fiori e verdure, alimento per gli occhi e il cuore, per lo stomaco e l’anima. Gli auguro di riuscirci, anche se so, più per averlo visto che fatto, quanto la terra sia bassa e dura. Io a Montaonda ho scelto lo scoglio, l’aria e il cielo, il bosco ripido, il galestro duro e fragile come un osso che si sbriciola, perché invece di chinare la schiena guardo le nuvole e ispeziono in cerca d'ispirazione il profilo delle montagne…anche queste sono scelte, con pro e contro.

E mi viene da concludere che tutti noi, io per primo, cerchiamo di trapiantarci dove troviamo un terreno fertile per noi, un humus, per citare grato gli amici che si sono rinominati Bianca Bonavita, passati a salutarmi recentemente grazie all'accompagnamento della lor guida Emiliano il Rosso, e che raccontano benissimo quei 15 centimetri di terreno in cui il suolo s'incontra con l’aria e l’acqua, il sole e il cielo, dove avvengono trasformazioni e fermenti, dove il seme, la vita, si radica e propaga. Vorremmo tutti via dalle delusioni autotrapiantarci, come piantini sofferenti, nel giusto terreno confacente, per sopravvivere meglio e riprenderci dai colpi e dalle inclemenze, dalla mancanza di nutrimento, sanare ferite, impallidire cicatrici. C'è chi dice che rinvasare le piante le aiuta a prosperare, non sarà vero anche per noi? L’ho fatto, iniziando piuttosto giovane, almeno due volte: prima in teutonia, dove il terreno poiché ampiamente bruciato era in quei tempi più fertile, e poi in tuscania, perché vi avevo ritrovato una vena d’acqua ancora viva e sorgente, ricca di nutrienti e sole. Le cicatrici più vecchie son quasi scomparse, in cambio ne sono arrivate di nuove. Inevitabilmente: fino a che, scomparse anche quelle, resteranno solo le ossa, a sbriciolarsi al sole e al vento, e così sia. 

Humus sumus - e fortuna vuole che quando piove, anche in pieno deserto, rinasca la vita.

 
 (il sole sorge anche stamattina)