Ben venga maggio
Tanti anni fa, più venti che dieci ormai, ero con Ivan della Mea, non ricordo se da solo o con altri, perché era un periodo che, frequentando l’Istituto Ernesto de Martino, a Sesto Fiorentino, di cui era presidente, partecipavo a iniziative per la musica popolare, e mi capitava spesso di avere a che fare con lui. E lui quando c’era era sempre molto presente (querida presencia!), chi l’ha conosciuto capisce cosa dico, con tutto l’affetto e l’amore che gli porto (è sicuramente stato uno dei consiglieri segreti eletti dal mio cuore).
Insomma, forse era anche un primo maggio - può ben essere perché a quei tempi con i Suonatori Terraterra si usava partecipare ogni anno a quella festa musicale nel cortile dell’Istituto (c'è ancora!), con tanto di salamelle poi nel parchetto dietro la villa - e Ivan raccontava che Guccini era, insieme a un altro per me insospettabile, Roberto Benigni, un formidabile improvvisatore in ottava rima. Da tempo ormai “il pavanate” (credo la definizione sia sua e gliela ritorco contro) non mi era più simpatico, aveva lasciato la bottiglia sui palchi di periferia e cavalcava l’onda della celebrità (“non compravo i suoi dischi”, non ne ho mai comprato uno), scriveva libri su libri, era diventato una star da fustino Dixan. Per esempio avevo anche saputo, dal mio giro superstite di musicisti alternativi e studi di registrazione, che solo di diritti SIAE incassava, prima della conversione all’euro, una media di 300 milioni l’anno. A prescindere da dischi e concerti, per intenderci. Che a quei tempi, sempre per intenderci, era quanto l’amministratore di una grande società, tipo Enel o Poste Italiane. Insomma, c’era abbastanza per una bella separazione, e così, come tutti gli innamorati delusi, dopo averlo suonato e cantato all’infinito da ragazzo (grazie al Piccinini che aveva gli accordi di tutte, non solo gli ovvi inni trionfali, come La locomotiva, L’avvelenata, anche L’opera buffa e le prime canzoni più scherzose - ma mai oltre l’album via Paolo Fabbri 43), mi ero distaccato da lui con disgusto. Ebbene, dopo tanti anni Ivan mi aveva riportato alle sue capacità. Musicali, poetiche, testuali. Altissime, indubbiamente, e ben fondate e resistenti.
E oggi, scrivendo ad amici su wapp un messaggio per il Maggio mi viene in mente “Ben venga maggio” - ma non quello cantato ieri sera in coro dai maggiaioli di San Godenzo, per le vie del mio paese sul Falterona - proprio la strofa de La Canzone dei dodici mesi (Ben venga maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera...), una canzone che mi è, nella sua splendente malinconia, profondamente cara, un inno stringato e nello stesso tempo epico alla natura e alla vita umana, una sintesi di Le opere e i giorni e gli stati d'animo, la ciclicità cronica e cronologica della nostra epoca. Un piccolo e misurato capolavoro, compattato in tre minuti di immagini potenti e sottili, da Esiodo a Eliot, un incrocio di natura e cultura come soltanto i veramente grandi riescono a tessere. E, per la mia generazione, con tutto il rispetto per i poeti, che non me ne vogliano, i "vati" veri erano loro, i Guccini, Lolli, e pochi altri - anche Vasco, perché no, insomma, guarda che caso, molti bolognesi.
E la musica? Devo dire, gli arrangiamenti della canzone, anche se attingono a piene mani ai conservatori bolognesi e alla tradizione angloamericana, in quel disco erano raffinati e curati, esprimevano e rielaboravano la tradizione, la cultura popolare di Guccini, di Pavana, della cultura ballerina e canterina, dell’Appennino Bolognese e Pistoiese (soltanto in quel periodo in cui frequentavo Ivan avevo scoperto che anche Gianni Morandi veniva da quel mondo, essendo lui di Monghidoro, che ho frequentato per le stesse ragioni musicali, e che si trova a non molti chilometri di crinale da Pavana).
Quindi, in quella canzone, ho colto ora quel che mi era sempre sfuggito, un omaggio al Maggio. Chissà quanti altri ce ne sono, che non vedo... Quindi non voglio aspettare che sia morto, il Guccini, per riabilitarlo e riconoscergli tutti i suoi tanti meriti, per avere alimentato e stimolato - in maniera sempre intelligente, lo sottolineo e lo dico al vaglio dei tanti anni trascorsi, e limitatamente al Guccini antico, l'unico che conosco io - un'epoca importante della vita culturale italiana (il prossimo capitolo magari lo riservo a Battisti, eh?), con ironia, energia, cialtroneria, finezza, passione. E come no, anche tutto il resto...
Ancora un attimo: e il titolo dell’album? Parliamone! Radici,
non era già un programma bioregionalista? A confermare il legame e il rimpianto per la terra; e dirci che, come continua a ripetere Etain Addey, in Italia siamo tutti,
oltre che canterini, bioregionalisti, ed è forse proprio questo che fa innamorare
gli stranieri di noi, e noi della nostra terra, del nostro cibo e delle nostre chiacchiere, e questo radicamento è ancestrale.
In Italia si arriva (indeuropei, barbari, bizantini, arabi, normanni, tedeschi,
francesi, inglesi e russi, per non parlare degli orientali, come mia cognata,
che veniva da Tokyo, o la mia prima suocera, da Riga) e non si va più via. E' una terra attraente, e non solo per i migranti. Da cui a sua volta migra soltanto chi si pone in contrasto, i poveracci, gli esuli e gli ambiziosi, insomma chi alla terra non
si sa o non si vuol legare.
Conosco, arrivate qui in Mugello, diverse persone che
vorrebbero rivoluzionare la propria vita, ricominciare, e molti cercano di
farlo lavorando la terra dell’orto, piantando fiori e verdure, alimento per gli
occhi e il cuore, per lo stomaco e l’anima. Gli auguro di riuscirci, anche se
so, più per averlo visto che fatto, quanto la terra sia bassa e dura. Io a
Montaonda ho scelto lo scoglio, l’aria e il cielo, il bosco ripido, il galestro duro e
fragile come un osso che si sbriciola, perché invece di chinare la schiena
guardo le nuvole e ispeziono in cerca d'ispirazione il profilo delle montagne…anche queste sono scelte, con pro e contro.
E mi viene da concludere che tutti noi, io per primo, cerchiamo di trapiantarci dove troviamo un terreno fertile per noi, un humus, per citare grato gli amici che si sono rinominati Bianca Bonavita, passati a salutarmi recentemente grazie all'accompagnamento della lor guida Emiliano il Rosso, e che raccontano benissimo quei 15 centimetri di terreno in cui il suolo s'incontra con l’aria e l’acqua, il sole e il cielo, dove avvengono trasformazioni e fermenti, dove il seme, la vita, si radica e propaga. Vorremmo tutti via dalle delusioni autotrapiantarci, come piantini sofferenti, nel giusto terreno confacente, per sopravvivere meglio e riprenderci dai colpi e dalle inclemenze, dalla mancanza di nutrimento, sanare ferite, impallidire cicatrici. C'è chi dice che rinvasare le piante le aiuta a prosperare, non sarà vero anche per noi? L’ho fatto, iniziando piuttosto giovane, almeno due volte: prima in teutonia, dove il terreno poiché ampiamente bruciato era in quei tempi più fertile, e poi in tuscania, perché vi avevo ritrovato una vena d’acqua ancora viva e sorgente, ricca di nutrienti e sole. Le cicatrici più vecchie son quasi scomparse, in cambio ne sono arrivate di nuove. Inevitabilmente: fino a che, scomparse anche quelle, resteranno solo le ossa, a sbriciolarsi al sole e al vento, e così sia.
Humus sumus - e fortuna vuole che quando piove, anche in pieno deserto, rinasca la vita.