sabato 13 luglio 2024

Musica da un vivo

 
 (Paolo Ganz a Le Casine, fotografato da Simone Stanislai, che ringrazio)

Ecco che dopo l’elegia rientra la vita a Montaonda, e tornano a brillare le lucciole in Appennino... Sabato scorso con amici siamo stati da amici, ospiti di Beppe Salieri, alle Casine, per una serata ricca, organizzata da Emiliano Cribari, poeta scrittore fotografo e camminatore d’Appennino (sue in gran numero le belle foto del libro di Sven, L’albero buono, che abbiamo pubblicato l’autunno scorso) ormai piuttosto conosciuto.

E’ stato un caso strano che il punto di partenza fosse un cimitero (cfr. post precedente), quello di Castagno d’Andrea, dove Ange e io arriviamo, anche se abitiamo vicini, in ritardo. Vediamo il gruppo dei camminatori allontanarsi dal dirupo di galestro, facciamo in tempo a salutare e accodarci alla camminata che in una ventina di minuti, sulla vecchia strada, una vecchia strada leopoldina, porta nel bosco e lungo i campi a pascolo. Una pausa di poesie in onore di Dino Campana su un poggio panoramico e, superato l’ultimo viale di ciliegi neri, arriviamo nell’aia delle Casine. Qui ci si saluta per bene, si sfogliano i libri di Emiliano, si beve un bicchiere d’acqua fresca, poi ci sediamo per il primo spettacolo in programma, Paolo Ganz. Incuriosito dalle parole di Emiliano sulla locandina (“un mito”) mi ero preparato cercando in internet (cosa che consiglio di fare anche a chi legge qui). E ho scoperto un musicista fantastico, che non riesco a capire come mi è rimasto sconosciuto finora (ma è molto semplice, dopo i 21 anni, quando ho scoperto punk e dark, il blues l'avevo abbandonato). E quindi evviva, benvenuto nella mia vita, e grazie per avermi riportato emozioni dimenticate (e non solo una musica straordinaria) e nuove. Il suo “Lasciateci perdere” è una specie di recital (ai nostri tempi si chiamavano così) di racconto e musica, in cui Paolo racconta la sua Venezia anni ’70, intervallando le parole con il canto spettacolare della sua armonica a bocca. E il blues è il blues, quando c’è c’è, e quando non c’è non c’è, è difficile uscire da questa tautologia. Oggi posso aggiungere soltato i miei sproloqui, sulla danza dell'anima e la Terra.

Sono seduto per terra, leggermente di lato ma in prima fila (quella che la gente evita per gli sputacchi o la paura di essere coinvolta, e che io devo cercare per sentire decentemente); e subito provo un’emozione che non sentivo da tempo…  quella di aderire completamente alla performance musicale, cosa per me, sordo e noto rompiballe, rara; sarà che Paolo mi ha coinvolto raccontando lo stesso mondo in cui sono cresciuto anch’io (conosco anche la distanza precisa tra il QT8 e la sua Venezia, perché in quegli anni Mozzo, che abitava nella mia stessa via al 10, neopatentato era andato e tornato miracolosamente dalla Serenissima con la sua Kadett bianca pagata centomila lire, praticamente un rottame, e ci aveva scritto sopra sulla fiancata con l’indelebile “Milano-Venezia 259 km”); perché ha pochi anni più di me e meno di mia sorella, e racconta l’amore per i Beatles (li ascoltavo a Hit-Parade, trasmissione RAI, prima ancora che si sciogliessero… ), racconta delle chitarre Eko che dovevamo suonare (erano le uniche che potevamo permetterci: la mia, comprata nel 74 a 12 anni la pagammo – perché mia sorella sognava di diventare Joan Baez – dodicimila lire, un terzo ciascuno).

Paolo diverte il pubblico con una serie di aneddoti che colgono perfettamente lo spirito sfigato della nostra generazione. Un po’ alla Paz, per intenderci. Racconta le sue prime band (la mia si chiamava Pubblico Consumo e facemmo un solo concerto nella scuola dove insegnava la fidanzata del cantante…). Parla delle rate, e di come non avessimo la possibilità di accedere a strumenti decenti, non parliamo di sale prova e amplificazione… Sta seduto su una seggiolina, e dietro di lui osservo in bella mostra, appesa a un trespolo da palco, una chitarra di lusso - provo a leggerne la marca sulla paletta intarsiata ma non riesco. Che è di lusso lo si capisce dall’ampia forma sinuosa, dal giro di madreperla profusa dappertutto, anche sul bordo della tavola armonica... Mai avute in mano chitarre così…  e ripenso alla mia “chitarra di lusso”, una Takamine, comprata nel 1985 da Milanfisa, con tutti i proventi di un corso propedeutico di greco fatto a sei ragazzini, oggi considerata una modesta imitazione della D28, la mitica Martin. Allora, tornando a casa (dei miei genitori) in attesa del metrò me la stavo rimirando, dentro la sua custodia originale aperta… era quasi nuova, e chi me l’aveva venduta mi aveva raccontato che Luca Simone, il cantante che l’aveva rifiutata, l’aveva trovata troppo dura. Io non potevo scegliere, o quella o ricadere nelle imitazioni più volgari, negli strumenti scarsi - a me andava benissimo, perché non avevo mai toccato nulla di meglio e volevo assolutamente suonare con le unghie di metallo, per cavarne armonizzazioni oniriche arpeggiate “come John Fahey” (ovviamente inimitabile). Sono lì che la sto contemplando quando arriva all’improvviso il metrò, chiudo, mi alzo di scatto e siccome non avevo fissato i gancetti la custodia afferrata per il manico si apre e la chitarra rotola con gran frastuono per terra, davanti a tutti. Non danni gravi, solo quanto bastava a non avere più una chitarra praticamente nuova… E’ il destino: anche sulla Yamaha, un annetto dopo averla comprata, era caduta dallo scaffare la tromba rotta che mi aveva venduto Roma, segnandone per sempre la tavola armonica con una bella tacca.

 (Anche questa è di Simone Stanislai, che ringrazio ancora)

… Paolo invece è arrivato leggero, con una borsina a tracolla da cui ha tratto un blocco di fogli che ha messo sul leggio e disponendo a terra le sue tre o quattro Honer Marine Band (in un secondo scopro, leggo e copio: “The Marine Band 1896 is the archetypal blues harmonica. Almost unchanged since it was patented”) con cui fa miracoli di virtuosismo battendo i piedi per terra. E’ fantastico, stratosferico. Siccome sono vicino – da sordo mi arrivano bene i suoni bassi percussivi – sento anche il rumore dei piedi, che batte con foga. Sembrano movimenti incontrollati, un po’ spastici (ora questo termine è diventata una parolaccia, ma non so quale altro usare). Tutto il suo corpo abbraccia e bacia l’armonica, ne viene risucchiato e riespulso da quei piccoli fori in cui le ance vibrano come matte, come ali di un insetto furioso, o appena appena, come tubi di piombo in basso e soavi turbini d’argento in alto. Qualcuno avrà scritto spero una fenomomenologia dell’ancia, quell’incredibile lamella che dà vita a una quantità di strumenti, dall’organo alla ciaramella, al sax... Questa per me è musica dal vivo, la musica che batte per terra. Dopo un po’, per accompagnarsi, Paolo tira fuori “la batteria”, un ovetto nero, che invece, col suo suono di chiodini, di sabbia, sembra entrare nel naso (sarà che per me l’ovetto ha un forte accento portoghese, caraibico…). Emiliano, presentandolo al pubblico, ha ammesso che anche lui suona l’armonica, e così l’ha conosciuto (da cui “il mito”). Paolo racconta della Bravi alpini, la prima che mise sulla bocca (quella di mia zia, che la usava in stile appunto alpino, quando da ragazzi con le due sorelle e lo zio erano un quartetto di canti di montagna davvero bravi, come ce n’erano migliaia allora, perché l’Italia era viva e canterina, dappertutto, nei rifugi, per strada, al ferro da stiro, in corriera e pullman, si cantava sempre, quella di mia zia è, nella sua scatola di cartone, su un ripiano della libreria).

E così Paolo mentre parla delle Eko, mi becca che rido (è ancora pomeriggio, non c’è distanza di ombre tra palco e pubblico, siamo sull’aia, ed è un peccato che non abbia pensato di fare una foto con il grande pioppo dietro di lui, una scenografia fantastica e totalmente naturale - a parte la casa, i capanni e l’aia siamo circondati dalla maestà della Falterona, sotto la terrazza a picco del giogo di Castagno), mi indica agli altri e dice “guardate, lui può capire"... companero (perché siamo stati angeli, lo dico io). Questo, a freddo, ha una sua funzione scenica. Perché in effetti, è quanto che mi viene da dire riflettendo su questo piccolo particolare, serve a dimostrare che non è lui che è matto, che è vero che era così, non è un racconto di fantasia per un pubblico che vuole sognare (o forse sì ma questo è il gioco dello spettacolo); perché vale riflettere su quanto il pubblico di oggi sia in grado di capire come l’armonica sia uno strumento, nella sua semplicità, diabolicamente espressivo. Cosa sia il blues sulla pelle, e non nei film o nei video. Ach, ho toccato un tasto delicato. Da decenni sono lì, a chiedermi quanti siano in grado di capire gli strumenti acustici, e la potenza d’espressione, se non hanno esperienza diretta di suonatori. Non è solo l’amplificazione, è tutto il contesto della “performance”.

L’armonica sta in tasca, era l’organo degli hoboes, i vagabondi americani cantati da Guthrie che saltavano sui treni di notte per spostarsi di città in città, di stato in stato. Quanti train-blues sono stati fatti, così tanti che con il loro fiato, col loro ritmo, spingerebbero non so quanti treni…

La musica dal vivo per me è questa, non la performance del concerto ma quella di una persona che sta in un posto, all'Hollywood Bowl come all'angolo di una strada a far cappello, sul territorio (posto che l'Hollywood Bowl sia posto in un territorio e non un'astronave trapiantata dove un tempo correvano lucertole e coyote) e in quel territorio suona, risuona (i tecnici del suono “vedono” il suono di una stanza, di un ambiente, io da ragazzo andavo a suonare nel cesso, perché wow…), una musica che batte i piedi per terra, come fa Paolo, e meglio ancora se si alza un po’ di polvere. E’ la matrice comune, e ovviamente anche l’Africa.

L’ho imparato quando, venti anni dopo avere staccato il jack,  ho iniziato a suonare musica popolare toscana dal vivo per i ballerini, preferibilmente nelle aie di campagna. Sono abbastanza vecchio, ma non così vecchio da averlo fatto davvero, come i veri e autentici suonatori a orecchio che percorrevano le città e le campagne italiane. Qualcuno l’ho visto da ragazzino, quando a Milano tre fiati si mettevano a suonare per strada, in un cortile, e dalle case la gente gli buttava le monetine… nelle aie, quelle cantate da Pavese, ci sono arrivato col secondo revival, attorno al 2000… c’era ancora qualche vecchino, ma saltava fuori soltanto quando gli etnomusicologi riuscivano a scovarlo.

La polvere, la musica per la strada, però avevo provato a farla anche negli anni ’70, con le nostre eko si andava in giro,  al parco Sempione, in piazza mercanti, in qualsiasi giardinetto e si stava e suonava e cantava, Dylan e gli Stones, De André e Guccini, Della Mea e Pietrangeli, ci si faceva uno spino, coi bonghi, un’armonica. C’era anche chi suonava in spiaggia Cocciante e quell’altro, che cantava “con la tua maglietta fina”, ah, ecco mi dice la rete, l’orribile Baglioni. Ma era sempre musica viva. Io avevo anche comprato il benedetto ferretto a molla per suonare insieme chitarra e armonica, e fare come Dylan, solo che non cantavo perché “ero stonato”…  suonare era un modo per socializzare, stare nel territorio e vagare. Come i salentini, ho scoperto a suo tempo, andavano in gior col tamburello dentro un sacchetto di plastica, in cerca di musica, se mai avessero trovato qualcuno che batteva, e mettersi insieme a suonare. Eravamo tutti negri dentro. Le più belle canzoni di Ivan della Mea, lo confermava il Chiarchi nelle nostre chiacchierate, erano blues in milanese. Niente di strano, no?  E sul vagare, anche in Germania avevo scoperto che poco prima dei nazisti c’erano “uccelli vaganti” un movimento radicale di giovani ribelli di inizio ‘900 che facevano lo stesso, in massa,con canti e chitarre, ben prima degli anni sesssanta – speriamo arrivi presto la prossima ondata.

Insomma, quando ero tornato a suonare per le strade, mi aveva insegnato Valentino (che mi aveva ceduto il posto da chitarrista per imbracciare il violino) che bisogna picchiare forte per suonare al massimo, e così, trattandosi di chitarra classica senza battipenna, della mia Yamaha ho iniziato a grattuggiare la tavola armonica, … e tutti negli anni l’hanno suonata, perché per qualche mistero ha bassi potenti, e un volume di suono che piace e accompagna… non sono mai stato un grande musicista, ma la mia chitarra era lì, se c’era bisogno, e se serviva provavo a suonarla io (ma sempre e solo per accompagnare gli altri, il mio blues non è così forte).

In linea d’aria alle Casine siamo a una ventina di chilometri dalla casa di Campicozzoli, nella cui stalla, Luca Pastore ha girato “I dischi del sole”, ecco un paio di foto della mia chitarra in mano alla Marini e a Pietrangeli.  Ne sono molto fiero. La comprai a 13 anni, quando grazie ai corsi serali gratuiti offerti dall’Orchestra a Plettro Città di Milano decisi di studiare classica. Come ci eravamo arrivati? Al settimo piano abitava Ciffo De Paoli, di qualche anno più grande, che aveva convinto mio fratello a rimettere in uso il vecchio Monzino di mio nonno, con cui avevamo giocato a lungo, rispettosamente, girandolo sotto sopra e trasformandolo in una grande balena… Ciffo era già secondo mandolino in orchestra, noi due iniziammo ad andare a scuola. Forse mio fratello aveva iniziato un anno prima, e ora toccava a me. I genitori ci obbligavano a esibirci per i loro amici (Samba pa ti, mandolino e chitarra). La scuola era in una stanzina a parte, mentre l’orchestra provava. Così due volte la settimana iniziai a uscire alla sera, a 13 anni nemmeno compiuti, per arrivare nella scuola elementare di Porta Genova (metrò + tram29, ritorno in Simca1100) e aggirarmi tra vecchissimi signori vestiti di nero, alcuni decrepiti, piegati da una lunga vita. E poi gli strumenti: li cavavano fuori da grandi bare nere, e di tutte le misure della famiglia dei plettri: quartino, mandolino, mandola, mandoloncello, mandolone… sembravano usciti da un film di  Buster Keaton. Per la “classica” mi serviva una chitarra decente, e il mio maestro mi consigliò una Yamaha, la G65, che costava “solo” sessantasettemila lire ed era in vendita alle Messaggerie Musicali. Investii i risparmi di un anno e ne entrai in possesso, assieme a una custodia assurda, crema, e dall’interno a peli di cammello sintetici (22.000 lire). In seguito, tutte le chitarre Yamaha che vidi erano migliori: la 100, 120 e più in su (anche il chitarrista degli Inti Illimani, che andai a vedere nel nuovo palazzetto dello sport appena inaugurato, appena prima che crollasse sotto la neve dell’85, aveva una Yamaha). La mia aveva le corde un po’ alte, era un po’ goffa di tastiera, degli alti non ne parliamo, ma a me sembrava fantastica.

 

E quando ho ripreso a suonarla, nell’orchestrina popolare della Valdisieve dei Suonatori Terraterra, era diventata una chitarra da combattimento. E la portavo in battaglia, nelle sagre, in manifestazione, e quando serviva era sempre a disposizione. Begli anni, quelli in cui la imbracciavano i vecchi del Canzoniere italiano, oltre a tutti gli amici dell’onda popolare allora meno famosi, alcuni oggi forse di più, visto che viviamo in un'età senza memoria.

Il blues è vicino alla terra, e la terra italiana era ricca di musica. Torniamo al blues, uno dei concerti più belli della mia vita? Senza dubbio Buddy Guy & Junior Wells, Teatro Tenda, anni ’80 (non ricordo bene): Buddy in uno sgargiante completo di raso color tabacco e la sua Fender bianca, emozione dall’inizio alla fine, quel che si chiamava “blues elettrico di Chicago”. Scopro ora che Junior Wells era un allievo di Sonny Boy, grazie a Paolo e alla sua venerazione per il maestro (un armonicista ha qualcosa in comune con lo zen, non so cosa, forse la semplicità e la sottrazione, la bisaccia).

Il bello dell’armonica è che tutto avviene tra mente e testa, e si trasmette dalla punta dei capelli fino ai piedi (chissà perché mi viene da dire che l’armonicista ha i capelli ritti e i piedi grossi, come nei fumetti di Robert Crumb), perché un armonicista anche se siede si muove parecchio: le mani per trasmettere vibrato e modificare la cassa armonica dello strumento, il corpo per respirare, i piedi per dare ritmo come prendendolo da terra, le gambe per ondeggiare e aprire i polmoni al fiato.

Ecco, un armonicista è come se sorgesse dalla terra, non so dire bene perché, anche perché …

Pensare che dentro quella scatolina luccicante, più piccola di un pacchetto di sigarette ci sta, quasi liofilizzata un’intera orchestra, come si dice della fisarmonica: sembra uno sproposito, e invece ascoltate Paolo, guardate e ascoltate Sonny Boy, cosa fa in Bye Bye Bird, un pezzo preso quasi a caso da youtube, https://www.youtube.com/watch?v=K-PhBryFuIM.

Mi chiedo se ancora si sa che dal blues è nato il rock, la canzone moderna. E quante colonne sonore, da Morricone a Paolo, che racconta la sua lunga e profonda collaborazione, come autore-esecutore, con Nuti.  E anche lì, Nuti, i registi fiorentini degli anni ’80, il giovane Benigni incluso, erano maledettamente blues (riguardiamo Benvenuti, Berlinguer ti voglio bene). Certo noi non pensiamo alle radici, perché ce le siamo tagliate (io per primo!) per andare in città, ma i più vecchi ricordano (o meglio potrebbero ricordare, se ci si applicassero, quando il mondo era diverso e anche i vecchi cantavano nelle case e nelle osterie).  Così erano tutte le musiche indigene, perché il blues nasce dalla terra e dalla sofferenza, come tanti canti italiani. E poi c’è l’amore il lavoro, il divertimento, e anche quelli possono essere blues, ci sono modi per tutti i momenti della vita, per tutte le anime, se li cerchi e li butti fuori. Non mi stanco di ripetere ogni volta che mi capita quanto non sia un caso che il più grande ricercatore di musiche tradizionali forse di tutti i tempi, Alan Lomax, texano come Blind Lemon Jefferson, avesse iniziato proprio con gli ultimi grandi del blues prima della guerra, nel ‘50  abbia trascorso un anno in Italia, girando da capo a piedi lo Stivale, assistito dal giovane Diego Carpitella, salvando quello che è passato alla storia della discografia come “The Italian Treasure” che documentava come l’Italia fosse allora il paese più ricco del mondo di musiche e canti popolari (chissà poi se è vero, comunque non lo dico io, lo dicono gli etnomusicologi, e resta certo che per stratificazioni storiche, geografiche e sociali l’Italia è sicuramente un caso particolare nella storia delle culture orali del mondo) - e quell’anno lo celebrasse poi in un libro, ricco di splendide foto intitolato “L’anno più felice della mia vita”. Dalle valli occitane a Venezia, Dall’Adige alla Sicilia, che tesoro c’era sparpagliato per terra! – E subito dopo, è iniziato l’esodo dalle campagne, e il blues è arrivato in città e si è trasformato in soggetto metropolitano, canto di protesta, etnico, e comunque ha perso le sue radici (non del tutto, per fortuna).

Qualcosa ho raccolto anch’io, della musica della terra – anche se sono cresciuto, come Paolo, quando andava il blues metropolitano (ricordo bene l’incontro con Fabio Treves, rampollo di blasonata famiglia milanese, nella sede di Radio Pop, in via dei Transiti, fine anni ’70, che prese in giro noi sgarzi).

 Arrivato due decenni dopo in Toscana, sentendo una sera nella cucina di Campicozzoli suonare fisa, violino, clarino, chitarra e voci alate, mi sono innamorato del suono acustico. Non classico, perché paradossalmente la musica classica è indifferente a questa forma fisica (fino a un certo punto, naturalmente ma non è discorso da aprire qui). Questa musica acustica, sconosciuta ai più perché tutti ormai ascoltiamo attraverso qualche aggeggio o device, è quella dell’onda acustica naturale che esce dalla bocca e dalla vibrazione dell’aria prodotta dallo strumento, che si combina con i riverberi d’ambiente naturali, che riempie o meno una stanza, una chiesa, una galleria del metrò, un bosco, che può essere attutita in una stalla piena di fieno, o esaltata da piccolo teatro, arrivando alla saturazione (per esempio se ci sono ottoni, percussioni, voci-potenti). In battaglia, un tempo, anche dopo l’invenzione della polvere da sparo, per trasmettere gli ordini suonavano le trombe. Ricordo Stentore e l’Olifante a Roncisvalle.  Il suono acustico all’aperto ha una sua dissipazione naturale, non si impone e non predomina, non schiaccia e uccide gli altri suoni (tutto iniziò con le cuffiette dei Walkman, che suggerirono la prima idea di cyberspace a William Gibson, inizio anni ‘80) come fanno gli impianti di Vasco e Jova, non possiede, non violenta, non snatura, ma si diffonde e si espande smorzandosi nel raggio di poche decine di metri. Ricordo un sassofonista molto bravo che suonava seduto per terra, davanti alla Rinascente a Milano, sotto i portici di piazza Duomo. Di sera, riempiva la piazza e risuonava per le strade. Il volume conta, ma non deve sopraffare, e soprattutto dipende dalla nostra capacità di ascolto, minata col taglio delle radici. Il bosco, e penso al vecchio detto, “ha orecchie” (lo traduco per chi non lo conosce: non si vede chi c’è e può sentire quel che dici, e quind i> se vuoi sapere chi c’è mettiti in ascolto). Sfuggito ai concerti nelle discoteche, dove appunto ai tempi della darkwave cercavamo la saturazione e il basso in pancia, ora cerco il volume umano, la voce che risuona forte, ma senza microfono.

Grazie ai Terraterra (un doppio senso molto blues, come il “lasciateci perdere” di Paolo Ganz) per una ventina d’anni ho suonato per la gente, mi sono trovato a suonare con altri, più o meno bravi e famosi, da scarso quale sono, e non è stato affatto facile prendere l’onda dei ballerini. Ho suonato con i maggiaioli, celebrando le primavere, le serate e le feste coi fuochi. Le manifestazioni di protesta.  Poi, a San Godenzo, ho suonato in tante primavere coi Maggiaioli, di podere in podere, sempre a portare festa e balli. Era suono meno, quando capita l'occasione, quando Angelica canta. Oppure prendo il mandolino (non il Monzino, ma addirittura un Calace, che mi ha passato mio fratello, che l'ha ereditato dalla moglie giaponese) e suono a ballo, ma a casa quando mi va, e senza ballerini. Fare musica è fare anima, e se non c’è anima non c’è musica. Dovremmo tutti cercare di farne ancora, quando capita, e sono contento quando posso ascoltare musicisti vivi. E ringrazio Paolo Ganz per avermi offerto, oltre a un bellissimo concerto, l'occasione di ripensare a tutto questo.

 
(coi Maggiaioli di San Godenzo, una decina di anni fa: Danielino, io, Daniele, Toni Mariuccia)

Ma infine, che c’entrano le lucciole? C’entrano: quando si muovono al buio, pulsando,  fanno musica per gli occhi. E tornando dalle Casine, Leti Ange ed io, camminando sulla strada nel bosco scuro, ne abbiamo incontrate a milioni - non ne avevo mai viste tante, nella mia lunga vita. Non abbiamo acceso l’amplificazione, nemmeno un istante. Ci siamo immersi nella loro musica e siamo avanzati al buio, a tratti a stento, ma sempre incantati.