Ivo,
88 anni, postino e ciclista, stanotte è partito da Firenze, pedalando verso
il Muraglione. Lo immagino sulla 67, proprio qua sopra, sopra la mia testa,
perché se alzo lo sguardo al cielo vedo il crinale e la cantoniera rossa del
Cavallino. Leggero, per la prima volta senza pesi che lo zavorrino in salita,
lo immagino filare sorpreso e contento di non fare proprio nessuna fatica,
seguendo il nastro d’asfalto nuovo e nero, appena steso per il Tour de France
ma come fosse per lui, perché in fondo lo è davvero: l’ha percorsa mille volte,
lui, per tutta la vita questa strada, in ogni condizione, modo e stagione. Su
questo percorso incantato, panoramico e finalmente senza un solo briciolo di
traffico, sicuramente oggi si gode anche la bella giornata, i papaveri, le
margherite e le erbe ormai bionde delle bordure, l’aria frizzante del mattino;
e forse, data l'ora, ormai sta già godendo anche la lunga discesa, che
oltrepassato il valico lo porterà con altre cento curve ancora una volta a
casa, a San Benedetto, in Romagna, al fiume, ai boschi, all’Acquacheta.
Scrivo queste parole pensando di pubblicarle sulla mia pagina facebook, per diffondere dolcemente la notizia a chi la deve ricevere, e mi accorgo che scriverle mi commuove, in maniera inaspettata perché non mi hanno commosso la telefonata a metà notte, i pensieri e le parole scambiate con Angelica. Credo che sia perché - stranamente rispetto al solito, dato che passo le mie giornate a scrivere - sento il loro peso, forte e chiaro, mentre le rigiro, le sposto, le provo e le sostituisco, fino a che le frasi prendono corpo, una dopo l’altra. Sento che mentre le compongo si dispongono, e prendono forma, e che la forma è ben più di un’immagine, una forma definitiva. Come le scolpissi sulla pietra, dettate da un’esigenza esterna a me e più alta.
Sì, la mia mente irrimediabilmente letterata per forza corre all’epigrafe, alle tavole delle leggi, ai detti incisi nei templi, a quelle parole dette una volta e per sempre, a eterna memoria, che già gli antichi incidevano su pietre e lapidi, i romani sui frontoni. Solo che io sono molto più humilis, terraneo e terrestre, e vorrei scriverle sull’erba, sul terriccio sterrato, nel sottobosco; ma penso anche a tutto ciò che simili parole evocative – bella anche questa, no? – della persona e della vita di chi è trapassato possono diventare quando abbandonano la pietra e passano alla carta, quando si fanno espressione e racconto, come in tanti, per esempio Edgar Lee Master, e insieme a lui in tutti quelli che hanno seguito una vocazione esplicitamente narrativa, biografica, a volte epica, fino ad arrivare all’interminabile lallazione elegiaca, automemorante e narcotica della Recherche…
Non è vero allora quel che io stesso ripeto continuamente, che le parole oggi abusate non dicono più nulla. Ci sono parole svilite, certo, ma proprio grazie ai morti (e ai vivi che le pronunciano per loro), anche parole potenti, che possono ancora dire tutto, appunto evocare, e nella maniera più semplice e magica (per confinarmi nel solo ambito psicologico cito qui Hillman). Parole che rasserenano oppure opprimono, impressionano il cuore. Perché è così, parole che fanno piangere ci saranno sempre, dove un cuore ancora batte e le riceve. Basta che, per opera di un mistero che ha dell’alchemico, risultino possedere e trasmettere un distillato di vita, sangue, goccia dopo goccia (per chi volesse approfondire consiglio senza hastags la nekyia, Walter Otto, Meuli, sciamanesimo et cetera).
E penso anche, per tornare ancora un poco ad accompagnarci ad Ivo, che ogni ciclista sia una personificazione moderna di Sisifo, quell’eroe che nel mito doveva per punizione continuare a spingere un pietrone in cima alla montagna, per vederlo poi rotolare giù, tornare a prenderlo e ricominciare senza fine. Ricordo Pantani, le foto di Coppi e di tutti gli eroici scalatori. Come Sisifo, figlio di Eolo ed Enarete, il ciclista fa una fatica boia in montagna, perché pigiando sui pedali nella salita dura sente tutto il fardello della propria vita, per ciascuno diverso ma per tutti presente, espresso dalla formula peso del corpo più quello della bici (anche la tecnica che ci aiuta a correre è un peso, no?) moltiplicato per pendenza della salita e distanza. Quella fatica che invece in piano scompare, grazie alla macchina meravigliosa, perché se si pedala tranquilli per magia ecco che sul sellino ci si ritrova a correre seduti, godendo del paesaggio e dell’arietta fresca. Non è anche questa una gioia divina, paragonabile a quella di Icaro, che spicca il volo librandosi in alto – la bici si libra a livello del suolo – le ruote sono ali, e correre come il vento in fondo non è un modo tutto terrestre di volare?
Credo che la gravità sia una delle forze naturali più misteriose e potenti, quella che più di altre ci fa sentire, oltre al peso e quindi al valore della vita, che c’è molto altro sopra, sotto e dentro le cose, ineffabile e inevitabile. Perché poi nella realtà siamo tutti diversi e anche a scalare una salita in bici c’è chi è allenato e chi ha fretta, chi ha il magone e chi non sa pazientare. E poi ogni ascesa impone a ciascuno i suoi ritmi, i suoi paesaggi, le sue compagnie, i pensieri, saette o macine che digrignano i denti o aprono i polmoni al respiro ansimante.
Ma ecco, arrivato in cima Sisifo depone la pietra; raggiunto il valico, il ciclista, uomo prometeico, ottiene molto di più grazie alla sua macchina di semplicità fantastica, forse la più bella mai inventata dall’uomo. Dopo la salita la bici permette di recuperare la fatica spesa, con la trasformazione dell’altra forza, quella che si diceva di gravità, ovvero la spinta del peso, alla ruota: in piano si corre da seduti, grazie al peso del corpo che applichiamo ai pedali (dunque è una leva dinamica…) ma soprattutto, appena inizia la discesa, il pedale si libera, la catena gira da sola, come per magia, e restituisce tutto quel che salendo si era accumulato, e non disperso, in velocità! Grandissima novità che Sisifo non conosceva: lui provava solo il sollievo di scaricarsi del peso - scendendo, ora, trasformato in ciclista, può addirittura trionfare, leggero e rapido, con gioia ridente, riavere tutto quel che ha sudato ma anche accantonato, gli ritorna portato dalle due ruote nel vento verso casa, o verso un’altra terra, oltre il crinale, in un’altra regione dell’essere, dove entra trionfante, volando attaccato al terreno, neanche, passandoci sopra in una maniera nuova e fantastica, nel movimento della ruota sottile, seduto corre sopra la terra (mia zia, sorella più giovane di mio padre, raccontava che Lorenzo volava scendendo la val Brembana senza mani!), un istante d’ebbrezza che non conosce soluzione di continuità, che spesso dura chilometri e chilometri! Come un volo di Icaro, appunto, in cui però la cera è il freno, il freno le redini, che regimentano e imbrigliano tutta quella forza risvegliata che preme e spinge con foga, che l’innesca e anche la contiene.
Ecco dunque che vediamo da una parte, in salita, la fisica del lavoro, il sudore cadenzato da uno sguardo timoroso e concentrato rivolto dal basso all’insù, una mente attenta che misura e stima, calcola guardando l’ignoto, soppesando e amministrando le forze - il montanaro Sisifo dallo zaino pesante, dall’altra parte vediamo invece la discesa, la libertà e la forza restituita, la poltrona volante, Icaro ridente, l’ebbrezza del gioco, la contemplazione dall’alto e la meta, laggiù, attento però, a conservare in ogni momento, la presenza necessaria, la gioia di calibrare il controllo, il governo, che sappia giocare con briglie e traiettorie, amministrando rischio ed ebbrezza per un arrivo felice...
Una decina di anni fa, senza pensare alla bicicletta, per Sisifo, diversamente da Camus, avevo immaginato una simile discesa allegra e spensierata, alleggerita e leggiadra, come il festoso ritorno a casa del lavoratore. Un amico illustratore, a cui avevo chiesto di provare a raffigurare quella discesa, mi segnalò il bellissimo Sisyphus, cortometraggio d'animazione ungherese del 1974, diretto da Marcell Jankovics (https://www.youtube.com/watch?v=QujiLG93BKw); un corto davvero splendido, possente, poetico, ultrapremiato. Eppure nei pochi salti che il suo Sisifo fa in discesa non sono riuscito a trovare tutta quella felicità sovrana che vi avevo scorto io, l’apertura verso un mondo di riequilibrio e pacificazione, quella gioia che avevo paragonato alla discesa dalle mie tante montagne (con l’aiuto di Bergab, una pagina di diario di Walter Benjamin).
Sono passati ora tre giorni e il percorso di Ivo - quello su questa terra - è giunto ieri alla sua conclusione. E in quel momento, in quell’ora e in quel posto, mi sono reso conto che non avevo assistito in anni recenti (e forse mai? Chi lo sa più)? a un'inumazione vera, che sempre più spesso accompagniamo urne contenenti soltanto ceneri. E se la memoria mi fa cilecca significa comunque che di inumazioni non avevo ricordi vividi. Certo, ora c’è il fatto che la vanga la uso, per contrare il terreno, come si dice in Toscana, ovvero rivoltarlo a ogni primavera, quando si girano grosse zolle di terra sotto sopra. Si seppellisce il verde, e si porta in superficie il nero, le radici, i vermi, il vivente del sottosuolo.
Ivo ha scelto che la sepoltura avvenisse alla vecchia maniera, per cui dopo la cerimonia ci siamo incamminati, poche centinaia di metri, fino al piccolo e vecchio cimitero in salita, sul fianco soleggiato della montagna. In una bara di castagno non zincata (lo dico non a caso), portata a spalle su per la scalinata, c’è stato un ultimo saluto davanti alla fossa aperta, dove poi uomini del paese l'hanno calato a spalla con grosse corde annodate. Era un bel terreno scuro, preparato a pala con perizia, dentro a un praticino affacciato verso il fiume, in una giornata di sole. La statale, che passa poco sotto, ormai non dà più fastidio: la 67 non è più un’arteria di traffico e solo nei weekend di bel tempo per poche ore impazzano i centauri fracassoni. Di fianco Ivo avrà la tomba di suo padre Pietro, identico a lui, di sua madre Ordelia (senza foto) e due sorelle morte in gioventù, una tragicamente investita in bicicletta sulla statale, a vent'anni. A poca distanza, sparsi tra piccole tombe, e tutti rivolti verso quella fossa, guardavo attorno a me le figlie, i nipoti, due fratelli rimasti e un buon numero di amici e parenti, e amici dei parenti. Anche da lontano, dalla capitale; non pochi, non troppi, quelli che hanno voluto e potuto esserci, nessuno superfluo.
E veniamo a questo punto, tutti, a guardare in silenzio la terra. La terra immobile, viva, parla il suo linguaggio, accoglie. Siamo in molti a prenderne un pugno per gettarla sulla bara. Il gesto, con tutto il suo portato rituale, mi ha effettivamente dato conforto. Ho sentito che in questo mondo di artefazione, di mistificazione e strumentalizzazione, la verità era pacatamente contenuta in quelle zolle, ma anche nei badili e nei gesti calibrati e precisi di chi si è poi dato da fare per richiudere manovrando sapientemente e con misura le pale, senza parole e senza fretta, senza altro rumore che quello della terra che cade sul legno, in pochi minuti la buca. Era nell'espressione concentrata con cui tutti si guardava quel lavorare inevitabile e pietoso (compassionevole si tradurrebbe oggi, ma voglio ricordare Virgilio) per assecondare e servire il destino. Pax dona eis domini, non riesco a immaginare nulla di più umano. La terra avanzata, corrispondente più o meno al volume della bara sepolta lì sotto, è stata composta in un piccolo tumulo su cui si è piantata una croce di legno, in attesa di una lapide già commissionata alla cava sopra il paese - la stessa cava dove Ivo aveva iniziato a lavorare ragazzino, a scalpellare nella pietra serena paracarri, e raccontava con orgoglio che a 12 anni li portava in spalla fino al carro.
Tornare alla terra. Anche così è, humus sumus. Come se con quel rito davvero antico e primigenio si fosse ristabilito un semplice e profondo equilibrio, mettendo a tacere dubbi, paure, ansie. Compensazione, riparazione, ritorno all'origine, alla materia. La cremazione invece, come in una magia da illusionista, impone uno iato tra morte e sepoltura, interrompe un tempo la cui conclusione non si può più riannodare. Il tempo dell’uomo sparisce, e la calata nella terra resta soltanto un proforma. Spesso, tra l’altro, in cimiteri dove la terra non conta proprio, se non come supporto neutro, sorta di cemento, detrito sterile e inerte, spesso sotituito da un loculo. Come luoghi di smaltimento.
A San Benedetto, nei cimiteri di paese, non è così, le tombe non sono distinte dalla vita, non c’è deserto di ghiaino; bronzi, plastiche e marmi sono in minoranza, ci sono pietra, erbe e fiori, sole e insetti, alberelli e alberi, non c’è un confine netto, soltanto un muro.
Mi ha detto Angelica che a guidare il lavoro di pala era il figlio del migliore amico di Ivo, scomparso già qualche anno fa, e che porta il suo nome. Stupisce come fosse diretta e semplice l’amicizia un tempo, che esprimeva in un modo così profondo quei legami primordiali che oggi più nessuno vorrebbe. Gesti che indirizzavano il destino dando nel nome un segno indelebile, indissolubile, che forse oggi non sappiamo nemmeno vedere, se ci pare un vezzo, come chiamare il figlio Maicol, o una coincidenza.
A differenza di Ivo, mio padre non era morto in ospedale, ma in soggiorno, sul divano. Su suggerimento dell’infermiere che accompagnava i suoi ultimi giorni, ormai 28 anni fa, dalla camera l’avevamo portato lì, dove sorretto dal bracciolo e dai cuscini poteva stare tra noi. Ci guardava e non parlava più, respirando con sempre maggior fatica.
Il caso vuole ora che a dieci giorni dalla scomparsa di Ivo, mi tocchi per la prima volta dormire su quello stesso divano, nella stessa posizione in cui lo ritrovai tornando a notte fonda dopo avere accompagnato fino all’idroscalo l’infermiere per prendere quanto necessario a preparare la salma. Dormire qui non mi turba, anzi: mi piace la compagnia dei morti, credo che loro, se pur esistono ancora in qualche maniera e abbiano una qualche coscienza, siano benevoli verso le nostre mancanze ed errori. Mi sono così disposto, dato che la mia stanza è ora occupata dalla badante di mia madre, a trascorrere sul divano in soggiorno l’ultima notte di primavera, 20 giugno, e ora, infilato dentro un lenzuolo a sacco, scrivo al buio sul laptop. E’ un’occasione che accolgo con gratitudine per pensare “al Lorenzo”, come lo si chiamava in famiglia una volta cresciuti.
Sul tavolino di acciaio cromato e cristallo verde, nella galleria dei trapassati (noi mancanti della famiglia stiamo ormai sulle dita in una mano) c’è una sua foto che mi piace, tra l’altro perché lo mostra com’era, persona mestamente sorridente, disarmata di fronte alla vita. Sulla parete (nella foto da sn a ds) si vedono un acquerello di mia sorella con la piana del paese dei nonni (s’intuisce il cimitero dove riposano tutti), una tavola originale di Sergio Toppi, che sfollato a Bannio in tempo di guerra aveva fatto il filo a mia madre; un dipinto della suocera di mio fratello, pittrice tradizionale giapponese, inviato in dono a mia madre tanti anni fa.
Quando morì mio padre aveva cinque anni più di quanti ne ho io adesso, e aveva vissuto una vita molto diversa dalla mia. Aveva visto da vicino la guerra, avuto tre figli, sofferto molto, lavorato, e anche avuto soddisfazioni non trascurabili. Penso a lui e ricordo come ci guardava quella sera, senza parlare, moglie e tre figli, come volesse dichiarare una volta per tutte la sua estraneità al mondo. Perché per quanto si faccia e si voglia convincersi del contrario, viviamo per caso, e per lo stesso inarrestabile caso ce ne andiamo, e su tutto ciò la volontà è inerme - davvero non può proprio nulla. In contraccambio, finché ce n’è, ci resta l’infinita abbondanza della vita.