(Paolo Ganz a Le Casine, fotografato da Simone Stanislai, che
ringrazio)
Ecco che dopo l’elegia rientra la vita a Montaonda, e tornano
a brillare le lucciole in Appennino... Sabato scorso con amici siamo stati da
amici, ospiti di Beppe Salieri, alle Casine, per una serata ricca, organizzata
da Emiliano Cribari, poeta scrittore fotografo e camminatore d’Appennino (sue
in gran numero le belle foto del libro di Sven, L’albero buono, che abbiamo
pubblicato l’autunno scorso) ormai piuttosto conosciuto.
E’ stato un caso strano che il punto di partenza fosse un cimitero
(cfr. post precedente), quello di Castagno d’Andrea, dove Ange e io arriviamo,
anche se abitiamo vicini, in ritardo. Vediamo il gruppo dei camminatori allontanarsi dal
dirupo di galestro, facciamo in tempo a salutare e accodarci alla camminata che
in una ventina di minuti, sulla vecchia strada, una vecchia strada leopoldina,
porta nel bosco e lungo i campi a pascolo. Una pausa di poesie in onore di Dino
Campana su un poggio panoramico e, superato l’ultimo viale di ciliegi neri, arriviamo
nell’aia delle Casine. Qui ci si saluta per bene, si sfogliano i libri di
Emiliano, si beve un bicchiere d’acqua fresca, poi ci sediamo per il primo
spettacolo in programma, Paolo Ganz. Incuriosito dalle parole di Emiliano sulla
locandina (“un mito”) mi ero preparato cercando in internet (cosa che consiglio
di fare anche a chi legge qui). E ho scoperto un musicista fantastico, che non riesco a capire come mi è rimasto sconosciuto finora (ma è molto semplice, dopo i 21 anni, quando ho scoperto punk e dark, il blues l'avevo abbandonato). E quindi evviva, benvenuto nella mia vita, e grazie per avermi riportato emozioni dimenticate (e non solo una musica straordinaria) e nuove. Il suo “Lasciateci perdere” è una specie di
recital (ai nostri tempi si chiamavano così) di racconto e musica, in cui Paolo
racconta la sua Venezia anni ’70, intervallando le parole con il canto
spettacolare della sua armonica a bocca. E il blues è il
blues, quando c’è c’è, e quando non c’è non c’è, è difficile uscire da questa
tautologia. Oggi posso aggiungere soltato i miei sproloqui, sulla danza dell'anima e la Terra.
Sono seduto per terra, leggermente di lato ma in prima fila
(quella che la gente evita per gli sputacchi o la paura di essere coinvolta, e
che io devo cercare per sentire decentemente); e subito provo un’emozione che
non sentivo da tempo… quella di aderire
completamente alla performance musicale, cosa per me, sordo e noto rompiballe,
rara; sarà che Paolo mi ha coinvolto raccontando lo stesso mondo in cui sono
cresciuto anch’io (conosco anche la distanza precisa tra il QT8 e la sua
Venezia, perché in quegli anni Mozzo, che abitava nella mia stessa via al 10, neopatentato
era andato e tornato miracolosamente dalla Serenissima con la sua Kadett bianca
pagata centomila lire, praticamente un rottame, e ci aveva scritto sopra sulla
fiancata con l’indelebile “Milano-Venezia 259 km”); perché ha pochi anni più di
me e meno di mia sorella, e racconta l’amore per i Beatles (li ascoltavo a
Hit-Parade, trasmissione RAI, prima ancora che si sciogliessero… ), racconta delle
chitarre Eko che dovevamo suonare (erano le uniche che potevamo permetterci: la
mia, comprata nel 74 a 12 anni la pagammo – perché mia sorella sognava di
diventare Joan Baez – dodicimila lire, un terzo ciascuno).
Paolo diverte il pubblico con una serie di aneddoti che
colgono perfettamente lo spirito sfigato della nostra generazione. Un po’ alla
Paz, per intenderci. Racconta le sue prime band (la mia si chiamava Pubblico
Consumo e facemmo un solo concerto nella scuola dove insegnava la fidanzata del
cantante…). Parla delle rate, e di come non avessimo la possibilità di accedere
a strumenti decenti, non parliamo di sale prova e amplificazione… Sta seduto su
una seggiolina, e dietro di lui osservo in bella mostra, appesa a un trespolo da
palco, una chitarra di lusso - provo a leggerne la marca sulla paletta
intarsiata ma non riesco. Che è di lusso lo si capisce dall’ampia forma
sinuosa, dal giro di madreperla profusa dappertutto, anche sul bordo della
tavola armonica... Mai avute in mano chitarre così… e ripenso alla mia “chitarra di lusso”, una
Takamine, comprata nel 1985 da Milanfisa, con tutti i proventi di un corso propedeutico
di greco fatto a sei ragazzini, oggi considerata una modesta imitazione della
D28, la mitica Martin. Allora, tornando a casa (dei miei genitori) in attesa
del metrò me la stavo rimirando, dentro la sua custodia originale aperta… era
quasi nuova, e chi me l’aveva venduta mi aveva raccontato che Luca Simone, il
cantante che l’aveva rifiutata, l’aveva trovata troppo dura. Io non potevo
scegliere, o quella o ricadere nelle imitazioni più volgari, negli strumenti
scarsi - a me andava benissimo, perché non avevo mai toccato nulla di meglio e volevo
assolutamente suonare con le unghie di metallo, per cavarne armonizzazioni oniriche
arpeggiate “come John Fahey” (ovviamente inimitabile). Sono lì che la sto contemplando
quando arriva all’improvviso il metrò, chiudo, mi alzo di scatto e siccome non
avevo fissato i gancetti la custodia afferrata per il manico si apre e la chitarra
rotola con gran frastuono per terra, davanti a tutti. Non danni gravi, solo
quanto bastava a non avere più una chitarra praticamente nuova… E’ il destino:
anche sulla Yamaha, un annetto dopo averla comprata, era caduta dallo scaffare
la tromba rotta che mi aveva venduto Roma, segnandone per sempre la tavola
armonica con una bella tacca.

(Anche questa è di Simone Stanislai, che ringrazio ancora)
… Paolo invece è arrivato leggero, con una borsina a
tracolla da cui ha tratto un blocco di fogli che ha messo sul leggio e disponendo
a terra le sue tre o quattro Honer Marine Band (in un secondo scopro, leggo e
copio: “The Marine Band 1896 is the archetypal blues harmonica.
Almost unchanged since it was patented”) con cui fa miracoli di virtuosismo
battendo i piedi per terra. E’ fantastico, stratosferico. Siccome sono vicino –
da sordo mi arrivano bene i suoni bassi percussivi – sento anche il rumore dei
piedi, che batte con foga. Sembrano movimenti incontrollati, un po’ spastici
(ora questo termine è diventata una parolaccia, ma non so quale altro usare).
Tutto il suo corpo abbraccia e bacia l’armonica, ne viene risucchiato e
riespulso da quei piccoli fori in cui le ance vibrano come matte, come ali di
un insetto furioso, o appena appena, come tubi di piombo in basso e soavi turbini
d’argento in alto. Qualcuno avrà scritto spero una fenomomenologia dell’ancia,
quell’incredibile lamella che dà vita a una quantità di strumenti, dall’organo
alla ciaramella, al sax... Questa per me è musica dal vivo, la musica che batte
per terra. Dopo un po’, per accompagnarsi, Paolo tira fuori “la batteria”, un
ovetto nero, che invece, col suo suono di chiodini, di sabbia, sembra entrare
nel naso (sarà che per me l’ovetto ha un forte accento portoghese, caraibico…).
Emiliano, presentandolo al pubblico, ha ammesso che anche lui suona l’armonica,
e così l’ha conosciuto (da cui “il mito”). Paolo racconta della Bravi alpini,
la prima che mise sulla bocca (quella di mia zia, che la usava in stile appunto
alpino, quando da ragazzi con le due sorelle e lo zio erano un quartetto di
canti di montagna davvero bravi, come ce n’erano migliaia allora, perché
l’Italia era viva e canterina, dappertutto, nei rifugi, per strada, al ferro da
stiro, in corriera e pullman, si cantava sempre, quella di mia zia è, nella sua
scatola di cartone, su un ripiano della libreria).
E così Paolo mentre parla delle Eko, mi becca che rido (è
ancora pomeriggio, non c’è distanza di ombre tra palco e pubblico, siamo sull’aia,
ed è un peccato che non abbia pensato di fare una foto con il grande pioppo
dietro di lui, una scenografia fantastica e totalmente naturale - a parte la
casa, i capanni e l’aia siamo circondati dalla maestà della Falterona, sotto la
terrazza a picco del giogo di Castagno), mi indica agli altri e dice “guardate, lui può capire"... companero (perché siamo stati angeli, lo dico io). Questo, a freddo, ha una sua
funzione scenica. Perché in effetti, è quanto che mi viene da dire riflettendo
su questo piccolo particolare, serve a dimostrare che non è lui che è matto,
che è vero che era così, non è un racconto di fantasia per un pubblico che
vuole sognare (o forse sì ma questo è il gioco dello spettacolo); perché vale
riflettere su quanto il pubblico di oggi sia in grado di capire come l’armonica
sia uno strumento, nella sua semplicità, diabolicamente espressivo. Cosa sia il
blues sulla pelle, e non nei film o nei video. Ach, ho toccato un tasto delicato. Da decenni sono lì, a
chiedermi quanti siano in grado di capire gli strumenti acustici, e la potenza
d’espressione, se non hanno esperienza diretta di suonatori. Non è solo
l’amplificazione, è tutto il contesto della “performance”.
L’armonica sta in tasca, era l’organo degli hoboes, i vagabondi
americani cantati da Guthrie che saltavano sui treni di notte per spostarsi di
città in città, di stato in stato. Quanti train-blues sono stati fatti, così
tanti che con il loro fiato, col loro ritmo, spingerebbero non so quanti treni…
La musica dal vivo per me è questa, non la performance del concerto ma quella di una persona
che sta in un posto, all'Hollywood Bowl come all'angolo di una strada a far cappello, sul territorio (posto che l'Hollywood Bowl sia posto in un territorio e non un'astronave trapiantata dove un tempo correvano lucertole e coyote) e in quel territorio suona, risuona (i tecnici del
suono “vedono” il suono di una stanza, di un ambiente, io da ragazzo andavo a
suonare nel cesso, perché wow…), una musica che batte i piedi per terra, come
fa Paolo, e meglio ancora se si alza un po’ di polvere. E’ la matrice comune,
e ovviamente anche l’Africa.
L’ho imparato quando, venti anni dopo avere staccato il jack,
ho iniziato a suonare musica popolare
toscana dal vivo per i ballerini, preferibilmente nelle aie di campagna. Sono abbastanza
vecchio, ma non così vecchio da averlo fatto davvero, come i veri e autentici
suonatori a orecchio che percorrevano le città e le campagne italiane. Qualcuno
l’ho visto da ragazzino, quando a Milano tre fiati si mettevano a suonare per
strada, in un cortile, e dalle case la gente gli buttava le monetine… nelle
aie, quelle cantate da Pavese, ci sono arrivato col secondo revival, attorno al
2000… c’era ancora qualche vecchino, ma saltava fuori soltanto quando gli etnomusicologi
riuscivano a scovarlo.
La polvere, la musica per la strada, però avevo provato a
farla anche negli anni ’70, con le nostre eko si andava in giro, al parco Sempione, in piazza mercanti, in
qualsiasi giardinetto e si stava e suonava e cantava, Dylan e gli Stones, De
André e Guccini, Della Mea e Pietrangeli, ci si faceva uno spino, coi bonghi, un’armonica.
C’era anche chi suonava in spiaggia Cocciante e quell’altro, che cantava “con
la tua maglietta fina”, ah, ecco mi dice la rete, l’orribile Baglioni. Ma era
sempre musica viva. Io avevo anche comprato il benedetto ferretto a molla per
suonare insieme chitarra e armonica, e fare come Dylan, solo che non cantavo
perché “ero stonato”… suonare era un
modo per socializzare, stare nel territorio e vagare. Come i salentini, ho
scoperto a suo tempo, andavano in gior col tamburello dentro un sacchetto di
plastica, in cerca di musica, se mai avessero trovato qualcuno che batteva, e
mettersi insieme a suonare. Eravamo tutti negri dentro. Le più belle canzoni di
Ivan della Mea, lo confermava il Chiarchi nelle nostre chiacchierate, erano
blues in milanese. Niente di strano, no? E sul vagare, anche in Germania avevo scoperto
che poco prima dei nazisti c’erano “uccelli vaganti” un movimento radicale di
giovani ribelli di inizio ‘900 che facevano lo stesso, in massa,con canti e
chitarre, ben prima degli anni sesssanta – speriamo arrivi presto la prossima
ondata.
Insomma, quando ero tornato a suonare per le strade, mi
aveva insegnato Valentino (che mi aveva ceduto il posto da chitarrista per
imbracciare il violino) che bisogna picchiare forte per suonare al massimo, e
così, trattandosi di chitarra classica senza battipenna, della mia Yamaha ho
iniziato a grattuggiare la tavola armonica, … e tutti negli anni l’hanno
suonata, perché per qualche mistero ha bassi potenti, e un volume di suono che
piace e accompagna… non sono mai stato un grande musicista, ma la mia chitarra
era lì, se c’era bisogno, e se serviva provavo a suonarla io (ma sempre e solo
per accompagnare gli altri, il mio blues non è così forte).
In linea d’aria alle Casine siamo a una ventina di
chilometri dalla casa di Campicozzoli, nella cui stalla, Luca Pastore ha girato
“I dischi del sole”, ecco un paio di foto della mia chitarra in mano alla
Marini e a Pietrangeli. Ne sono molto
fiero. La comprai a 13 anni, quando grazie ai corsi serali gratuiti offerti
dall’Orchestra a Plettro Città di Milano decisi di studiare classica. Come ci
eravamo arrivati? Al settimo piano abitava Ciffo De Paoli, di qualche anno più
grande, che aveva convinto mio fratello a rimettere in uso il vecchio Monzino
di mio nonno, con cui avevamo giocato a lungo, rispettosamente, girandolo sotto
sopra e trasformandolo in una grande balena… Ciffo era già secondo mandolino in
orchestra, noi due iniziammo ad andare a scuola. Forse mio fratello aveva
iniziato un anno prima, e ora toccava a me. I genitori ci obbligavano a
esibirci per i loro amici (Samba pa ti, mandolino e chitarra). La scuola era in
una stanzina a parte, mentre l’orchestra provava. Così due volte la settimana
iniziai a uscire alla sera, a 13 anni nemmeno compiuti, per arrivare nella
scuola elementare di Porta Genova (metrò + tram29, ritorno in Simca1100) e
aggirarmi tra vecchissimi signori vestiti di nero, alcuni decrepiti, piegati da
una lunga vita. E poi gli strumenti: li cavavano fuori da grandi bare nere, e
di tutte le misure della famiglia dei plettri: quartino, mandolino, mandola, mandoloncello,
mandolone… sembravano usciti da un film di
Buster Keaton. Per la “classica” mi serviva una chitarra decente, e il
mio maestro mi consigliò una Yamaha, la G65, che costava “solo” sessantasettemila
lire ed era in vendita alle Messaggerie Musicali. Investii i risparmi di un
anno e ne entrai in possesso, assieme a una custodia assurda, crema, e
dall’interno a peli di cammello sintetici (22.000 lire). In seguito, tutte le
chitarre Yamaha che vidi erano migliori: la 100, 120 e più in su (anche il
chitarrista degli Inti Illimani, che andai a vedere nel nuovo palazzetto dello
sport appena inaugurato, appena prima che crollasse sotto la neve dell’85,
aveva una Yamaha). La mia aveva le corde un po’ alte, era un po’ goffa di
tastiera, degli alti non ne parliamo, ma a me sembrava fantastica.
E quando ho ripreso a suonarla, nell’orchestrina popolare della
Valdisieve dei Suonatori Terraterra, era diventata una chitarra da
combattimento. E la portavo in battaglia, nelle sagre, in manifestazione, e
quando serviva era sempre a disposizione. Begli anni, quelli in cui la
imbracciavano i vecchi del Canzoniere italiano, oltre a tutti gli amici
dell’onda popolare allora meno famosi, alcuni oggi forse di più, visto che viviamo in un'età senza memoria.
Il blues è vicino alla terra, e la terra italiana era ricca
di musica. Torniamo al blues, uno dei concerti più belli della mia vita? Senza
dubbio Buddy Guy & Junior Wells, Teatro Tenda, anni ’80 (non ricordo bene):
Buddy in uno sgargiante completo di raso color tabacco e la sua Fender bianca,
emozione dall’inizio alla fine, quel che si chiamava “blues elettrico di
Chicago”. Scopro ora che Junior Wells era un allievo di Sonny Boy, grazie a
Paolo e alla sua venerazione per il maestro (un armonicista ha qualcosa in
comune con lo zen, non so cosa, forse la semplicità e la sottrazione, la
bisaccia).
Il bello dell’armonica è che tutto avviene tra mente e
testa, e si trasmette dalla punta dei capelli fino ai piedi (chissà perché mi
viene da dire che l’armonicista ha i capelli ritti e i piedi grossi, come nei
fumetti di Robert Crumb), perché un armonicista anche se siede si muove
parecchio: le mani per trasmettere vibrato e modificare la cassa armonica dello
strumento, il corpo per respirare, i piedi per dare ritmo come prendendolo da
terra, le gambe per ondeggiare e aprire i polmoni al fiato.
Ecco, un armonicista è come se sorgesse dalla terra, non so
dire bene perché, anche perché …
Pensare che dentro quella scatolina luccicante, più piccola
di un pacchetto di sigarette ci sta, quasi liofilizzata un’intera orchestra,
come si dice della fisarmonica: sembra uno sproposito, e invece ascoltate
Paolo, guardate e ascoltate Sonny Boy, cosa fa in Bye Bye Bird, un pezzo preso
quasi a caso da youtube, https://www.youtube.com/watch?v=K-PhBryFuIM.
Mi chiedo se ancora si sa che dal blues è nato il rock, la
canzone moderna. E quante colonne sonore, da Morricone a Paolo, che racconta la
sua lunga e profonda collaborazione, come autore-esecutore, con Nuti. E anche lì, Nuti, i registi fiorentini degli
anni ’80, il giovane Benigni incluso, erano maledettamente blues (riguardiamo
Benvenuti, Berlinguer ti voglio bene). Certo noi non pensiamo alle radici, perché
ce le siamo tagliate (io per primo!) per andare in città, ma i più vecchi
ricordano (o meglio potrebbero ricordare, se ci si applicassero, quando il
mondo era diverso e anche i vecchi cantavano nelle case e nelle osterie). Così erano tutte le musiche indigene, perché
il blues nasce dalla terra e dalla sofferenza, come tanti canti italiani. E poi
c’è l’amore il lavoro, il divertimento, e anche quelli possono essere blues, ci
sono modi per tutti i momenti della vita, per tutte le anime, se li cerchi e li
butti fuori. Non mi stanco di ripetere ogni volta che mi capita quanto non sia
un caso che il più grande ricercatore di musiche tradizionali forse di tutti i
tempi, Alan Lomax, texano come Blind Lemon Jefferson, avesse iniziato proprio
con gli ultimi grandi del blues prima della guerra, nel ‘50 abbia trascorso un anno in Italia, girando da
capo a piedi lo Stivale, assistito dal giovane Diego Carpitella, salvando
quello che è passato alla storia della discografia come “The Italian Treasure”
che documentava come l’Italia fosse allora il paese più ricco del mondo di musiche
e canti popolari (chissà poi se è vero, comunque non lo dico io, lo dicono gli
etnomusicologi, e resta certo che per stratificazioni storiche, geografiche e
sociali l’Italia è sicuramente un caso particolare nella storia delle culture orali
del mondo) - e quell’anno lo celebrasse poi in un libro, ricco di splendide
foto intitolato “L’anno più felice della mia vita”. Dalle valli occitane a
Venezia, Dall’Adige alla Sicilia, che tesoro c’era sparpagliato per terra! – E subito
dopo, è iniziato l’esodo dalle campagne, e il blues è arrivato in città e si è
trasformato in soggetto metropolitano, canto di protesta, etnico, e comunque ha
perso le sue radici (non del tutto, per fortuna).
Qualcosa ho raccolto anch’io, della musica della terra – anche
se sono cresciuto, come Paolo, quando andava il blues metropolitano (ricordo
bene l’incontro con Fabio Treves, rampollo di blasonata famiglia milanese,
nella sede di Radio Pop, in via dei Transiti, fine anni ’70, che prese in giro
noi sgarzi).
Arrivato due decenni
dopo in Toscana, sentendo una sera nella cucina di Campicozzoli suonare fisa,
violino, clarino, chitarra e voci alate, mi sono innamorato del suono acustico.
Non classico, perché paradossalmente la musica classica è indifferente a questa
forma fisica (fino a un certo punto, naturalmente ma non è discorso da aprire
qui). Questa musica acustica,
sconosciuta ai più perché tutti ormai ascoltiamo attraverso qualche aggeggio o
device, è quella dell’onda acustica naturale
che esce dalla bocca e dalla vibrazione dell’aria prodotta dallo strumento, che
si combina con i riverberi d’ambiente naturali, che riempie o meno una stanza, una
chiesa, una galleria del metrò, un bosco, che può essere attutita in una stalla
piena di fieno, o esaltata da piccolo teatro, arrivando alla saturazione (per
esempio se ci sono ottoni, percussioni, voci-potenti). In battaglia, un tempo,
anche dopo l’invenzione della polvere da sparo, per trasmettere gli ordini suonavano
le trombe. Ricordo Stentore e l’Olifante a Roncisvalle. Il suono acustico all’aperto ha una sua
dissipazione naturale, non si impone e non predomina, non schiaccia e uccide
gli altri suoni (tutto iniziò con le cuffiette dei Walkman, che suggerirono la
prima idea di cyberspace a William Gibson, inizio anni ‘80) come fanno gli
impianti di Vasco e Jova, non possiede, non violenta, non snatura, ma si
diffonde e si espande smorzandosi nel raggio di poche decine di metri. Ricordo
un sassofonista molto bravo che suonava seduto per terra, davanti alla
Rinascente a Milano, sotto i portici di piazza Duomo. Di sera, riempiva la
piazza e risuonava per le strade. Il volume conta, ma non deve sopraffare, e
soprattutto dipende dalla nostra capacità di ascolto, minata col taglio delle
radici. Il bosco, e penso al vecchio detto, “ha orecchie” (lo traduco per chi
non lo conosce: non si vede chi c’è e può sentire quel che dici, e quind i>
se vuoi sapere chi c’è mettiti in ascolto). Sfuggito ai concerti nelle discoteche, dove appunto ai tempi
della darkwave cercavamo la saturazione e il basso in pancia, ora cerco il volume
umano, la voce che risuona forte, ma senza microfono.
Grazie ai Terraterra (un doppio senso molto blues, come il
“lasciateci perdere” di Paolo Ganz) per una ventina d’anni ho suonato per la
gente, mi sono trovato a suonare con altri, più o meno bravi e famosi, da
scarso quale sono, e non è stato affatto facile prendere l’onda dei ballerini. Ho
suonato con i maggiaioli, celebrando le primavere, le serate e le feste coi
fuochi. Le manifestazioni di protesta. Poi, a San Godenzo, ho suonato in tante primavere coi Maggiaioli, di podere in podere, sempre a portare festa e balli. Era suono meno, quando capita l'occasione, quando Angelica canta. Oppure prendo il mandolino (non il Monzino, ma addirittura un Calace, che mi ha passato mio fratello, che l'ha ereditato dalla moglie giaponese) e suono a ballo, ma a casa quando mi va, e senza ballerini. Fare musica è fare anima, e se non c’è
anima non c’è musica. Dovremmo tutti cercare di farne ancora, quando capita, e
sono contento quando posso ascoltare musicisti vivi. E ringrazio Paolo Ganz per avermi offerto, oltre a un bellissimo concerto, l'occasione di ripensare a tutto questo.
(coi Maggiaioli di San Godenzo, una decina di anni fa: Danielino, io, Daniele, Toni Mariuccia)
Ma infine, che c’entrano le lucciole? C’entrano: quando si muovono al
buio, pulsando, fanno musica per gli
occhi. E tornando dalle Casine, Leti Ange ed io, camminando sulla strada nel
bosco scuro, ne abbiamo incontrate a milioni - non ne avevo mai viste tante,
nella mia lunga vita. Non abbiamo acceso l’amplificazione, nemmeno un istante. Ci
siamo immersi nella loro musica e siamo avanzati al buio, a tratti a stento, ma
sempre incantati.