venerdì 23 agosto 2024

Cercare la Via

 

Sempre si parla della Via, quale che sia, sembrerebbe che basti camminare, e certo, lo sappiamo, camminare regola il passo, il fiato, il pensiero s’arrende al ritmo degli occhi che scrutano il percorso, che ricevono tutto quel che si fa loro incontro. Già quarant’anni fa il passo era per me un argomento importante, camminavo, in montagna spesso da solo, e scrivevo, da solo sempre, alla ricerca di queste cose nella pagina, e poi sul computer, che era arrivato il giorno della mia laurea, un IBM-convertible, il primo portatile della storia in svendita perché uscito allora di produzione.

Ora sono in montagna al paesello, ad accompagnare mia madre, se riesco, nel cammino da casa al cimitero. Poca roba, si tratta di scendere le scale, varcare la soglia, scendere altri sei gradini per arrivare a terra, percorrere la corte fino al portoncino (altri tre gradini però in salita, che non sono da sottovalutare), e poi svoltare a sinistra lungo il vicolo, che sarebbe uno di quelli più ampi del paese, ma largo che ci passa forse un carretto, costeggiare tre case fino alla piazza, attraversarla tra i muretti, il monumento ai caduti e la fontana, raggiungendo l’altro lato per passare tra il campanile (ecco che suona chiamando alla funzione del mattino) e la chiesa di S. Bartolomeo (domani è la festa del patrono), quindi avviarsi per quel viottolo in terra battuta, costeggiato d'erba, lungo i fianchi delle due chiese, e infine salire i tre ultimi alti gradini, sormontati dal bel cancello di ferro battuto con il teschio in cima, che porta alla dimora perenne (ordinati i suoi viottoli come un decumano, sulla destra, quasi in fondo la tomba di famiglia per il riposo perpetuo). In tutto duecento metri forse, qualcosa di più. Ma farli non sarà facile, visto che lei non cammina praticamente più.

La mia via invece, quella che ho percorso stamattina, esce ancora dal paese risalendo la valle, attraversando le vecchie stradine rimesse per bene, ciottoli di fiume e lastra  rettangolare di pietra nel mezzo, una pioda, per guidare il passo e l’acqua. A Cimavilla, dov’era la casa degli avi, quella vera e più antica, venduta una ventina di anni fa per un prezzo ridicolo, purché qualcuno la comprasse e sistemasse prima che venisse giù, e poi, prima di San Rocco, sbuco sull’asfalto, la via di Baranca, che ora, da un paio d’anni, hanno deciso grazie al PNRR di rendere carrozzabile fino al passo, che dovrebbe portare a Fobello, in Valsesia. Anche se l’altr’ieri, parlando col Guido, l’ex sindaco prima del nonno, mentre gli cedevamo le nostre quote del Consorzio dell’Alpe Baranca, lui dice che non ci arriveranno mai, visto il tracciato che vogliono fare. Lo spero ma non lo credo.

Continuo, ho un’ora di tempo prima di cena, e allora provo le gambe sulla salita di Parcineto. Arrivo su bene, e poi proseguo non verso Valpiana, come volevo, salgo verso il Gagetto, voglio vedere in che condizioni è la vecchia mulattiera. Ecco l’attacco a scalinata, non è cambiato, di qui solo a piedi (la strada passa sopra); c’è ancora un cartello antico, che vietava ma non impediva il passaggio delle motociclette (il Burtul – nomen omen, gran camminatore, coscritto di mia madre - ogni anno con la sua Lodola rossa compiva l’impresa di arrivare fino a Baranca in moto, e parlo della fine degli anni sessanta).

 

Una parte del Gagetto è vecchia e tale quale solo che - a proposito di moto - sento arrivare dall’alto, dalla strada un giovane che scende alle case, si ferma, va a frugare sotto il lavatoio per prendere qualcosa, si guarda attorno ma non mi vede, sono sulla vecchia mulattiera, tra gli alberi che ammiro un gruppo inatteso di quattro mucche con vitello (che ci fanno qui?) si accuccia, maneggia e poi, quando l’ho superato e ormai sono all’altezza della cappelletta, dove si innestava la strada (si chiamavano anche così una volta i sentieri) che arrivava da Fontane, proprio dove c’era il sasso su cui appoggiare la schiena e che segnava la fine della salita vera, mi sorpassa risalendo il prato (è una moto da regolarità) e se ne torna scorreggiando verso il paese, sull’asfaltata. Avrà prelevato della droga dal suo nascondiglio, avrà aperto il rubinetto dell’irrigazione? Che m’importa? Io proseguo, ho ancora dieci minuti per camminare in fuori, e supero il punto da cui si entrava nel bosco vero, faggi e tigli, supero le case nuove risistemate, quella con il cancello elettrico e progressivi abusi edilizi, sapientemente risanati o magari anche concessi, chissà. Sono alla ricerca della vecchia strada di Soi, dei sassi e i gradini secolari tra cui m'inerpicavo veloce, della pietra che segnava il tempo, svelto sulla mulattiera pianeggiante che portava alla baita del nonno, dove sono stato mille volte, fino a che gli zii crudeli l’hanno venduta a qualcuno disposto a pagare quanto io non avevo (possedevo soltanto la badanza dei miei 28 anni).

Quanti anni che non passo di qui a piedi? Avanzo sull'asfalto, ormai consumato, mi sporgo dal parapetto di ferro, alla ricerca delle tracce della vecchia mulattiera. Queste acacie, saranno loro? Come sono cresciute! E tigli, frassini, e castagni selvatici. Finché, prima di Riscillone la vedo, la traccia sotto, e c’è anche l’accesso. 

Ma arrivo fino al borghetto, ci entro e lo voglio vedere. C’era sempre qui, passando sotto la loggia della casa sostenuta dalla colonna, da saltare tra una pozza di piscio e un mucchio di strame. Ora è tutto pulito, ordinato. Le belle case… in ristrutturazione perenne… scendo… ecco la mulattiera. Un giovane con pettinatura rasta, che dal giardino mi aveva visto mentre parlava al cellulare, mi si fa incontro affacciandosi al vicolo, e saluta con cortesia, sorpreso forse di trovare questo anziano che gli dice “stavo cercando la vecchia mulatteria…” E’ garbato, sorride, mi dice eh, la cercano, e la indica ancora una casa più sotto. La cercano, i viandanti, i cercatori di tempi passati, di vie un tempo percorse. Cercare la via, è sempre stata una prerogativa della montagna. “Vado bene di qua per…?” Quante volte l’ho fatta questa mulattiera, praticamente sopra ci ho iniziato a camminare, e poi in tutta fretta per arrivare chissà dove, in alto, guardando l’orologio più del Coniglio Bianco, in ritardo terribile!? Il record tra noi l’aveva fatto il Borrini con mio fratello, più grandi di anni decisivi, dalla piazza nove minuti e mezzo, praticamente di corsa. Io arrivavo comodamente in quindici, i parenti, il nonno, contavano mezz’ora. Ma i miei pochi minuti di oggi, per tornare in tempo per cena, ora sono scaduti e allora, ritrovata la coordinata, eccomi sulla vecchia mulattiera, per il ritorno. Fotografo ancora la casa del cacio (il nonno ogni volta ci diceva, lo vedi là in lato a sinistra il cacio bianco, infilato nel buco ad asciugare? E invece era una pietra), il muretto da cui si sporge un susino (ne prendo una anche se è ancora dura come sasso) e il pascolo sotto, la curva che porta fino al crotto.

             

E come si cammina bene sulla vecchia mulattiera! Sembra una via di santi, leggera, pareggiata, senza inciampi, ammorbidita da una coltre compatta di foglie di faggio, come un tappeto, in leggera discesa e piccole salite, che si superano con lo slancio del passo e del fiato. Quanto mi sono esercitato nella camminata perfetta su questi sentieri, percorsi dagli animali, larghi, ben battuti e con le pietre lisciate. Riconoscevo ogni passo a memoria; ora non più, riconosco a fatica l’ambiente e un pressappoco, una sensazione nascosta si affaccia, intorpidita… chissà, restassi qua un mese, trovassi i miei vecchi scarponi e i calzerotti di lana…l'odore dell'autunno incipiente e dei funghi...

Ma dopo il crotto ecco che il vecchio sentiero s’addentra in un intrico di arbusti, è un bivio non bivio, è il punto in cui o ci si butta nel selvatico,a destra, o si rinuncia e si torna alla strada delle macchine, e io che non ho mai tempo devo seguire il nuovo tracciato che mi riporta alla strada. 

L'asfaltata non è fatta per camminare, per entrare nel paesaggio, non è fatta per gli animali ma per i mezzi, possibilmente pesanti, da lavoro. Questo percorso non è più nostro, è delle macchine che ci portano prigionieri, per prendere la nostra ora d’aria e riconsegnarci alla cella. Il mondo scivola dietro uno schermo, un finestrino. Un tempo la mulattiera era silenziosa ma viva, scrocchiavano le foglie e i legnetti, si saltava di qua e di là, a schivare le cacche di mulo, c’erano tracce di ogni tipo di passaggio e si facevano incontri frequenti. Ancora i muli portavano fornelli, bombole del gas, qualsiasi cosa agli alpeggi, perché d’estate i pastori si trasferivano con famiglia e galline ai pascoli alti, a Baranca, a fare burro e formaggi.

La Via a quei tempi nessuno la cercava, era quella, una per tutti, ciascuno alla sua andatura e con la sua meta ben in testa. Namasté, ci si diceva allegri incrociandosi, saluto il viandante che è in te, che poi nella lingua di valle si pronunciava Bundì ‘ndua't’vei?, dove vai, chiedendo la meta, per scambiare due parole fermandosi poco distanti, tracciare una mappa di relazioni e protezioni.

Oggi la via bisogna cercarla. Ce n’è tante, ognuno cerca la sua, e non è così chiara, così ben battuta come le ho trovate ancora in Nepal. Quelle sono ancora strade vere su cui tutto il giorno la gente cammina, sposta cose e animali, non ci sono altre vie. La via è una, diceva Eraclito, forse anche in questo senso, una per tutti, uguale. Ora anche se abbondano segni e segnali di tutti i tipi, a vernice, cartelli, mappe, satellitari e chissà che altro, ci sono biforcazioni ovunque, e chi capisce dov'è che si va è bravo. Anche il passo di conseguenza non è tanto agevole, elastico e allenato, ben tracciato, ha qualcosa di interrotto, deve fermarsi a leggere, a consultare, è disarmonioso, o semplicemente non si riconosce come passo-via, dico separato dalla via, impacciato di esitazioni e dubbi; per molti camminare non è uno sgorgare abbondante e indistinto, indifferenziato della vita, è impegno del singolo individuo, sofferenza e pena non condivisa. Bastoni, bacchette, borracce, abbigliamento tecnico, contapassi, integratori e disintegratori, tutori... fino a due tre gnerazioni fa passavano scufui, pedule zoccoli. Eppure nella vecchia mulattiera ogni passo era un passo di danza, un saltello, una piccola variazione, le storte si evitavano assorbendo il peso con un colpo di reni. Era il ritmo di un canto che non si fermava. Il nonno mi aveva insegnato poi, per far saliva, a mettere un sassolino in bocca e ciucciarlo.

Il nonno … tutti i montanari erano così, taciturni, immersi nel vuoto mentale, molto più vicini a monaci zen che a noi, le teste invase dai mille aggeggi bippanti. Loro i vecchi, sono ancora là, dove se ne sono andati, ne sono convinto, noi invece non so proprio dove andremo a finire, smarriti, ritrovati.

sabato 13 luglio 2024

Musica da un vivo

 
 (Paolo Ganz a Le Casine, fotografato da Simone Stanislai, che ringrazio)

Ecco che dopo l’elegia rientra la vita a Montaonda, e tornano a brillare le lucciole in Appennino... Sabato scorso con amici siamo stati da amici, ospiti di Beppe Salieri, alle Casine, per una serata ricca, organizzata da Emiliano Cribari, poeta scrittore fotografo e camminatore d’Appennino (sue in gran numero le belle foto del libro di Sven, L’albero buono, che abbiamo pubblicato l’autunno scorso) ormai piuttosto conosciuto.

E’ stato un caso strano che il punto di partenza fosse un cimitero (cfr. post precedente), quello di Castagno d’Andrea, dove Ange e io arriviamo, anche se abitiamo vicini, in ritardo. Vediamo il gruppo dei camminatori allontanarsi dal dirupo di galestro, facciamo in tempo a salutare e accodarci alla camminata che in una ventina di minuti, sulla vecchia strada, una vecchia strada leopoldina, porta nel bosco e lungo i campi a pascolo. Una pausa di poesie in onore di Dino Campana su un poggio panoramico e, superato l’ultimo viale di ciliegi neri, arriviamo nell’aia delle Casine. Qui ci si saluta per bene, si sfogliano i libri di Emiliano, si beve un bicchiere d’acqua fresca, poi ci sediamo per il primo spettacolo in programma, Paolo Ganz. Incuriosito dalle parole di Emiliano sulla locandina (“un mito”) mi ero preparato cercando in internet (cosa che consiglio di fare anche a chi legge qui). E ho scoperto un musicista fantastico, che non riesco a capire come mi è rimasto sconosciuto finora (ma è molto semplice, dopo i 21 anni, quando ho scoperto punk e dark, il blues l'avevo abbandonato). E quindi evviva, benvenuto nella mia vita, e grazie per avermi riportato emozioni dimenticate (e non solo una musica straordinaria) e nuove. Il suo “Lasciateci perdere” è una specie di recital (ai nostri tempi si chiamavano così) di racconto e musica, in cui Paolo racconta la sua Venezia anni ’70, intervallando le parole con il canto spettacolare della sua armonica a bocca. E il blues è il blues, quando c’è c’è, e quando non c’è non c’è, è difficile uscire da questa tautologia. Oggi posso aggiungere soltato i miei sproloqui, sulla danza dell'anima e la Terra.

Sono seduto per terra, leggermente di lato ma in prima fila (quella che la gente evita per gli sputacchi o la paura di essere coinvolta, e che io devo cercare per sentire decentemente); e subito provo un’emozione che non sentivo da tempo…  quella di aderire completamente alla performance musicale, cosa per me, sordo e noto rompiballe, rara; sarà che Paolo mi ha coinvolto raccontando lo stesso mondo in cui sono cresciuto anch’io (conosco anche la distanza precisa tra il QT8 e la sua Venezia, perché in quegli anni Mozzo, che abitava nella mia stessa via al 10, neopatentato era andato e tornato miracolosamente dalla Serenissima con la sua Kadett bianca pagata centomila lire, praticamente un rottame, e ci aveva scritto sopra sulla fiancata con l’indelebile “Milano-Venezia 259 km”); perché ha pochi anni più di me e meno di mia sorella, e racconta l’amore per i Beatles (li ascoltavo a Hit-Parade, trasmissione RAI, prima ancora che si sciogliessero… ), racconta delle chitarre Eko che dovevamo suonare (erano le uniche che potevamo permetterci: la mia, comprata nel 74 a 12 anni la pagammo – perché mia sorella sognava di diventare Joan Baez – dodicimila lire, un terzo ciascuno).

Paolo diverte il pubblico con una serie di aneddoti che colgono perfettamente lo spirito sfigato della nostra generazione. Un po’ alla Paz, per intenderci. Racconta le sue prime band (la mia si chiamava Pubblico Consumo e facemmo un solo concerto nella scuola dove insegnava la fidanzata del cantante…). Parla delle rate, e di come non avessimo la possibilità di accedere a strumenti decenti, non parliamo di sale prova e amplificazione… Sta seduto su una seggiolina, e dietro di lui osservo in bella mostra, appesa a un trespolo da palco, una chitarra di lusso - provo a leggerne la marca sulla paletta intarsiata ma non riesco. Che è di lusso lo si capisce dall’ampia forma sinuosa, dal giro di madreperla profusa dappertutto, anche sul bordo della tavola armonica... Mai avute in mano chitarre così…  e ripenso alla mia “chitarra di lusso”, una Takamine, comprata nel 1985 da Milanfisa, con tutti i proventi di un corso propedeutico di greco fatto a sei ragazzini, oggi considerata una modesta imitazione della D28, la mitica Martin. Allora, tornando a casa (dei miei genitori) in attesa del metrò me la stavo rimirando, dentro la sua custodia originale aperta… era quasi nuova, e chi me l’aveva venduta mi aveva raccontato che Luca Simone, il cantante che l’aveva rifiutata, l’aveva trovata troppo dura. Io non potevo scegliere, o quella o ricadere nelle imitazioni più volgari, negli strumenti scarsi - a me andava benissimo, perché non avevo mai toccato nulla di meglio e volevo assolutamente suonare con le unghie di metallo, per cavarne armonizzazioni oniriche arpeggiate “come John Fahey” (ovviamente inimitabile). Sono lì che la sto contemplando quando arriva all’improvviso il metrò, chiudo, mi alzo di scatto e siccome non avevo fissato i gancetti la custodia afferrata per il manico si apre e la chitarra rotola con gran frastuono per terra, davanti a tutti. Non danni gravi, solo quanto bastava a non avere più una chitarra praticamente nuova… E’ il destino: anche sulla Yamaha, un annetto dopo averla comprata, era caduta dallo scaffare la tromba rotta che mi aveva venduto Roma, segnandone per sempre la tavola armonica con una bella tacca.

 (Anche questa è di Simone Stanislai, che ringrazio ancora)

… Paolo invece è arrivato leggero, con una borsina a tracolla da cui ha tratto un blocco di fogli che ha messo sul leggio e disponendo a terra le sue tre o quattro Honer Marine Band (in un secondo scopro, leggo e copio: “The Marine Band 1896 is the archetypal blues harmonica. Almost unchanged since it was patented”) con cui fa miracoli di virtuosismo battendo i piedi per terra. E’ fantastico, stratosferico. Siccome sono vicino – da sordo mi arrivano bene i suoni bassi percussivi – sento anche il rumore dei piedi, che batte con foga. Sembrano movimenti incontrollati, un po’ spastici (ora questo termine è diventata una parolaccia, ma non so quale altro usare). Tutto il suo corpo abbraccia e bacia l’armonica, ne viene risucchiato e riespulso da quei piccoli fori in cui le ance vibrano come matte, come ali di un insetto furioso, o appena appena, come tubi di piombo in basso e soavi turbini d’argento in alto. Qualcuno avrà scritto spero una fenomomenologia dell’ancia, quell’incredibile lamella che dà vita a una quantità di strumenti, dall’organo alla ciaramella, al sax... Questa per me è musica dal vivo, la musica che batte per terra. Dopo un po’, per accompagnarsi, Paolo tira fuori “la batteria”, un ovetto nero, che invece, col suo suono di chiodini, di sabbia, sembra entrare nel naso (sarà che per me l’ovetto ha un forte accento portoghese, caraibico…). Emiliano, presentandolo al pubblico, ha ammesso che anche lui suona l’armonica, e così l’ha conosciuto (da cui “il mito”). Paolo racconta della Bravi alpini, la prima che mise sulla bocca (quella di mia zia, che la usava in stile appunto alpino, quando da ragazzi con le due sorelle e lo zio erano un quartetto di canti di montagna davvero bravi, come ce n’erano migliaia allora, perché l’Italia era viva e canterina, dappertutto, nei rifugi, per strada, al ferro da stiro, in corriera e pullman, si cantava sempre, quella di mia zia è, nella sua scatola di cartone, su un ripiano della libreria).

E così Paolo mentre parla delle Eko, mi becca che rido (è ancora pomeriggio, non c’è distanza di ombre tra palco e pubblico, siamo sull’aia, ed è un peccato che non abbia pensato di fare una foto con il grande pioppo dietro di lui, una scenografia fantastica e totalmente naturale - a parte la casa, i capanni e l’aia siamo circondati dalla maestà della Falterona, sotto la terrazza a picco del giogo di Castagno), mi indica agli altri e dice “guardate, lui può capire"... companero (perché siamo stati angeli, lo dico io). Questo, a freddo, ha una sua funzione scenica. Perché in effetti, è quanto che mi viene da dire riflettendo su questo piccolo particolare, serve a dimostrare che non è lui che è matto, che è vero che era così, non è un racconto di fantasia per un pubblico che vuole sognare (o forse sì ma questo è il gioco dello spettacolo); perché vale riflettere su quanto il pubblico di oggi sia in grado di capire come l’armonica sia uno strumento, nella sua semplicità, diabolicamente espressivo. Cosa sia il blues sulla pelle, e non nei film o nei video. Ach, ho toccato un tasto delicato. Da decenni sono lì, a chiedermi quanti siano in grado di capire gli strumenti acustici, e la potenza d’espressione, se non hanno esperienza diretta di suonatori. Non è solo l’amplificazione, è tutto il contesto della “performance”.

L’armonica sta in tasca, era l’organo degli hoboes, i vagabondi americani cantati da Guthrie che saltavano sui treni di notte per spostarsi di città in città, di stato in stato. Quanti train-blues sono stati fatti, così tanti che con il loro fiato, col loro ritmo, spingerebbero non so quanti treni…

La musica dal vivo per me è questa, non la performance del concerto ma quella di una persona che sta in un posto, all'Hollywood Bowl come all'angolo di una strada a far cappello, sul territorio (posto che l'Hollywood Bowl sia posto in un territorio e non un'astronave trapiantata dove un tempo correvano lucertole e coyote) e in quel territorio suona, risuona (i tecnici del suono “vedono” il suono di una stanza, di un ambiente, io da ragazzo andavo a suonare nel cesso, perché wow…), una musica che batte i piedi per terra, come fa Paolo, e meglio ancora se si alza un po’ di polvere. E’ la matrice comune, e ovviamente anche l’Africa.

L’ho imparato quando, venti anni dopo avere staccato il jack,  ho iniziato a suonare musica popolare toscana dal vivo per i ballerini, preferibilmente nelle aie di campagna. Sono abbastanza vecchio, ma non così vecchio da averlo fatto davvero, come i veri e autentici suonatori a orecchio che percorrevano le città e le campagne italiane. Qualcuno l’ho visto da ragazzino, quando a Milano tre fiati si mettevano a suonare per strada, in un cortile, e dalle case la gente gli buttava le monetine… nelle aie, quelle cantate da Pavese, ci sono arrivato col secondo revival, attorno al 2000… c’era ancora qualche vecchino, ma saltava fuori soltanto quando gli etnomusicologi riuscivano a scovarlo.

La polvere, la musica per la strada, però avevo provato a farla anche negli anni ’70, con le nostre eko si andava in giro,  al parco Sempione, in piazza mercanti, in qualsiasi giardinetto e si stava e suonava e cantava, Dylan e gli Stones, De André e Guccini, Della Mea e Pietrangeli, ci si faceva uno spino, coi bonghi, un’armonica. C’era anche chi suonava in spiaggia Cocciante e quell’altro, che cantava “con la tua maglietta fina”, ah, ecco mi dice la rete, l’orribile Baglioni. Ma era sempre musica viva. Io avevo anche comprato il benedetto ferretto a molla per suonare insieme chitarra e armonica, e fare come Dylan, solo che non cantavo perché “ero stonato”…  suonare era un modo per socializzare, stare nel territorio e vagare. Come i salentini, ho scoperto a suo tempo, andavano in gior col tamburello dentro un sacchetto di plastica, in cerca di musica, se mai avessero trovato qualcuno che batteva, e mettersi insieme a suonare. Eravamo tutti negri dentro. Le più belle canzoni di Ivan della Mea, lo confermava il Chiarchi nelle nostre chiacchierate, erano blues in milanese. Niente di strano, no?  E sul vagare, anche in Germania avevo scoperto che poco prima dei nazisti c’erano “uccelli vaganti” un movimento radicale di giovani ribelli di inizio ‘900 che facevano lo stesso, in massa,con canti e chitarre, ben prima degli anni sesssanta – speriamo arrivi presto la prossima ondata.

Insomma, quando ero tornato a suonare per le strade, mi aveva insegnato Valentino (che mi aveva ceduto il posto da chitarrista per imbracciare il violino) che bisogna picchiare forte per suonare al massimo, e così, trattandosi di chitarra classica senza battipenna, della mia Yamaha ho iniziato a grattuggiare la tavola armonica, … e tutti negli anni l’hanno suonata, perché per qualche mistero ha bassi potenti, e un volume di suono che piace e accompagna… non sono mai stato un grande musicista, ma la mia chitarra era lì, se c’era bisogno, e se serviva provavo a suonarla io (ma sempre e solo per accompagnare gli altri, il mio blues non è così forte).

In linea d’aria alle Casine siamo a una ventina di chilometri dalla casa di Campicozzoli, nella cui stalla, Luca Pastore ha girato “I dischi del sole”, ecco un paio di foto della mia chitarra in mano alla Marini e a Pietrangeli.  Ne sono molto fiero. La comprai a 13 anni, quando grazie ai corsi serali gratuiti offerti dall’Orchestra a Plettro Città di Milano decisi di studiare classica. Come ci eravamo arrivati? Al settimo piano abitava Ciffo De Paoli, di qualche anno più grande, che aveva convinto mio fratello a rimettere in uso il vecchio Monzino di mio nonno, con cui avevamo giocato a lungo, rispettosamente, girandolo sotto sopra e trasformandolo in una grande balena… Ciffo era già secondo mandolino in orchestra, noi due iniziammo ad andare a scuola. Forse mio fratello aveva iniziato un anno prima, e ora toccava a me. I genitori ci obbligavano a esibirci per i loro amici (Samba pa ti, mandolino e chitarra). La scuola era in una stanzina a parte, mentre l’orchestra provava. Così due volte la settimana iniziai a uscire alla sera, a 13 anni nemmeno compiuti, per arrivare nella scuola elementare di Porta Genova (metrò + tram29, ritorno in Simca1100) e aggirarmi tra vecchissimi signori vestiti di nero, alcuni decrepiti, piegati da una lunga vita. E poi gli strumenti: li cavavano fuori da grandi bare nere, e di tutte le misure della famiglia dei plettri: quartino, mandolino, mandola, mandoloncello, mandolone… sembravano usciti da un film di  Buster Keaton. Per la “classica” mi serviva una chitarra decente, e il mio maestro mi consigliò una Yamaha, la G65, che costava “solo” sessantasettemila lire ed era in vendita alle Messaggerie Musicali. Investii i risparmi di un anno e ne entrai in possesso, assieme a una custodia assurda, crema, e dall’interno a peli di cammello sintetici (22.000 lire). In seguito, tutte le chitarre Yamaha che vidi erano migliori: la 100, 120 e più in su (anche il chitarrista degli Inti Illimani, che andai a vedere nel nuovo palazzetto dello sport appena inaugurato, appena prima che crollasse sotto la neve dell’85, aveva una Yamaha). La mia aveva le corde un po’ alte, era un po’ goffa di tastiera, degli alti non ne parliamo, ma a me sembrava fantastica.

 

E quando ho ripreso a suonarla, nell’orchestrina popolare della Valdisieve dei Suonatori Terraterra, era diventata una chitarra da combattimento. E la portavo in battaglia, nelle sagre, in manifestazione, e quando serviva era sempre a disposizione. Begli anni, quelli in cui la imbracciavano i vecchi del Canzoniere italiano, oltre a tutti gli amici dell’onda popolare allora meno famosi, alcuni oggi forse di più, visto che viviamo in un'età senza memoria.

Il blues è vicino alla terra, e la terra italiana era ricca di musica. Torniamo al blues, uno dei concerti più belli della mia vita? Senza dubbio Buddy Guy & Junior Wells, Teatro Tenda, anni ’80 (non ricordo bene): Buddy in uno sgargiante completo di raso color tabacco e la sua Fender bianca, emozione dall’inizio alla fine, quel che si chiamava “blues elettrico di Chicago”. Scopro ora che Junior Wells era un allievo di Sonny Boy, grazie a Paolo e alla sua venerazione per il maestro (un armonicista ha qualcosa in comune con lo zen, non so cosa, forse la semplicità e la sottrazione, la bisaccia).

Il bello dell’armonica è che tutto avviene tra mente e testa, e si trasmette dalla punta dei capelli fino ai piedi (chissà perché mi viene da dire che l’armonicista ha i capelli ritti e i piedi grossi, come nei fumetti di Robert Crumb), perché un armonicista anche se siede si muove parecchio: le mani per trasmettere vibrato e modificare la cassa armonica dello strumento, il corpo per respirare, i piedi per dare ritmo come prendendolo da terra, le gambe per ondeggiare e aprire i polmoni al fiato.

Ecco, un armonicista è come se sorgesse dalla terra, non so dire bene perché, anche perché …

Pensare che dentro quella scatolina luccicante, più piccola di un pacchetto di sigarette ci sta, quasi liofilizzata un’intera orchestra, come si dice della fisarmonica: sembra uno sproposito, e invece ascoltate Paolo, guardate e ascoltate Sonny Boy, cosa fa in Bye Bye Bird, un pezzo preso quasi a caso da youtube, https://www.youtube.com/watch?v=K-PhBryFuIM.

Mi chiedo se ancora si sa che dal blues è nato il rock, la canzone moderna. E quante colonne sonore, da Morricone a Paolo, che racconta la sua lunga e profonda collaborazione, come autore-esecutore, con Nuti.  E anche lì, Nuti, i registi fiorentini degli anni ’80, il giovane Benigni incluso, erano maledettamente blues (riguardiamo Benvenuti, Berlinguer ti voglio bene). Certo noi non pensiamo alle radici, perché ce le siamo tagliate (io per primo!) per andare in città, ma i più vecchi ricordano (o meglio potrebbero ricordare, se ci si applicassero, quando il mondo era diverso e anche i vecchi cantavano nelle case e nelle osterie).  Così erano tutte le musiche indigene, perché il blues nasce dalla terra e dalla sofferenza, come tanti canti italiani. E poi c’è l’amore il lavoro, il divertimento, e anche quelli possono essere blues, ci sono modi per tutti i momenti della vita, per tutte le anime, se li cerchi e li butti fuori. Non mi stanco di ripetere ogni volta che mi capita quanto non sia un caso che il più grande ricercatore di musiche tradizionali forse di tutti i tempi, Alan Lomax, texano come Blind Lemon Jefferson, avesse iniziato proprio con gli ultimi grandi del blues prima della guerra, nel ‘50  abbia trascorso un anno in Italia, girando da capo a piedi lo Stivale, assistito dal giovane Diego Carpitella, salvando quello che è passato alla storia della discografia come “The Italian Treasure” che documentava come l’Italia fosse allora il paese più ricco del mondo di musiche e canti popolari (chissà poi se è vero, comunque non lo dico io, lo dicono gli etnomusicologi, e resta certo che per stratificazioni storiche, geografiche e sociali l’Italia è sicuramente un caso particolare nella storia delle culture orali del mondo) - e quell’anno lo celebrasse poi in un libro, ricco di splendide foto intitolato “L’anno più felice della mia vita”. Dalle valli occitane a Venezia, Dall’Adige alla Sicilia, che tesoro c’era sparpagliato per terra! – E subito dopo, è iniziato l’esodo dalle campagne, e il blues è arrivato in città e si è trasformato in soggetto metropolitano, canto di protesta, etnico, e comunque ha perso le sue radici (non del tutto, per fortuna).

Qualcosa ho raccolto anch’io, della musica della terra – anche se sono cresciuto, come Paolo, quando andava il blues metropolitano (ricordo bene l’incontro con Fabio Treves, rampollo di blasonata famiglia milanese, nella sede di Radio Pop, in via dei Transiti, fine anni ’70, che prese in giro noi sgarzi).

 Arrivato due decenni dopo in Toscana, sentendo una sera nella cucina di Campicozzoli suonare fisa, violino, clarino, chitarra e voci alate, mi sono innamorato del suono acustico. Non classico, perché paradossalmente la musica classica è indifferente a questa forma fisica (fino a un certo punto, naturalmente ma non è discorso da aprire qui). Questa musica acustica, sconosciuta ai più perché tutti ormai ascoltiamo attraverso qualche aggeggio o device, è quella dell’onda acustica naturale che esce dalla bocca e dalla vibrazione dell’aria prodotta dallo strumento, che si combina con i riverberi d’ambiente naturali, che riempie o meno una stanza, una chiesa, una galleria del metrò, un bosco, che può essere attutita in una stalla piena di fieno, o esaltata da piccolo teatro, arrivando alla saturazione (per esempio se ci sono ottoni, percussioni, voci-potenti). In battaglia, un tempo, anche dopo l’invenzione della polvere da sparo, per trasmettere gli ordini suonavano le trombe. Ricordo Stentore e l’Olifante a Roncisvalle.  Il suono acustico all’aperto ha una sua dissipazione naturale, non si impone e non predomina, non schiaccia e uccide gli altri suoni (tutto iniziò con le cuffiette dei Walkman, che suggerirono la prima idea di cyberspace a William Gibson, inizio anni ‘80) come fanno gli impianti di Vasco e Jova, non possiede, non violenta, non snatura, ma si diffonde e si espande smorzandosi nel raggio di poche decine di metri. Ricordo un sassofonista molto bravo che suonava seduto per terra, davanti alla Rinascente a Milano, sotto i portici di piazza Duomo. Di sera, riempiva la piazza e risuonava per le strade. Il volume conta, ma non deve sopraffare, e soprattutto dipende dalla nostra capacità di ascolto, minata col taglio delle radici. Il bosco, e penso al vecchio detto, “ha orecchie” (lo traduco per chi non lo conosce: non si vede chi c’è e può sentire quel che dici, e quind i> se vuoi sapere chi c’è mettiti in ascolto). Sfuggito ai concerti nelle discoteche, dove appunto ai tempi della darkwave cercavamo la saturazione e il basso in pancia, ora cerco il volume umano, la voce che risuona forte, ma senza microfono.

Grazie ai Terraterra (un doppio senso molto blues, come il “lasciateci perdere” di Paolo Ganz) per una ventina d’anni ho suonato per la gente, mi sono trovato a suonare con altri, più o meno bravi e famosi, da scarso quale sono, e non è stato affatto facile prendere l’onda dei ballerini. Ho suonato con i maggiaioli, celebrando le primavere, le serate e le feste coi fuochi. Le manifestazioni di protesta.  Poi, a San Godenzo, ho suonato in tante primavere coi Maggiaioli, di podere in podere, sempre a portare festa e balli. Era suono meno, quando capita l'occasione, quando Angelica canta. Oppure prendo il mandolino (non il Monzino, ma addirittura un Calace, che mi ha passato mio fratello, che l'ha ereditato dalla moglie giaponese) e suono a ballo, ma a casa quando mi va, e senza ballerini. Fare musica è fare anima, e se non c’è anima non c’è musica. Dovremmo tutti cercare di farne ancora, quando capita, e sono contento quando posso ascoltare musicisti vivi. E ringrazio Paolo Ganz per avermi offerto, oltre a un bellissimo concerto, l'occasione di ripensare a tutto questo.

 
(coi Maggiaioli di San Godenzo, una decina di anni fa: Danielino, io, Daniele, Toni Mariuccia)

Ma infine, che c’entrano le lucciole? C’entrano: quando si muovono al buio, pulsando,  fanno musica per gli occhi. E tornando dalle Casine, Leti Ange ed io, camminando sulla strada nel bosco scuro, ne abbiamo incontrate a milioni - non ne avevo mai viste tante, nella mia lunga vita. Non abbiamo acceso l’amplificazione, nemmeno un istante. Ci siamo immersi nella loro musica e siamo avanzati al buio, a tratti a stento, ma sempre incantati.

lunedì 24 giugno 2024

Elegia per un mondo che scompare (questa notte di mezza estate)

 

Ivo, 88 anni, postino e ciclista, stanotte è partito da Firenze, pedalando verso il Muraglione. Lo immagino sulla 67, proprio qua sopra, sopra la mia testa, perché se alzo lo sguardo al cielo vedo il crinale e la cantoniera rossa del Cavallino. Leggero, per la prima volta senza pesi che lo zavorrino in salita, lo immagino filare sorpreso e contento di non fare proprio nessuna fatica, seguendo il nastro d’asfalto nuovo e nero, appena steso per il Tour de France ma come fosse per lui, perché in fondo lo è davvero: l’ha percorsa mille volte, lui, per tutta la vita questa strada, in ogni condizione, modo e stagione. Su questo percorso incantato, panoramico e finalmente senza un solo briciolo di traffico, sicuramente oggi si gode anche la bella giornata, i papaveri, le margherite e le erbe ormai bionde delle bordure, l’aria frizzante del mattino; e forse, data l'ora, ormai sta già godendo anche la lunga discesa, che oltrepassato il valico lo porterà con altre cento curve ancora una volta a casa, a San Benedetto, in Romagna, al fiume, ai boschi, all’Acquacheta.

Scrivo queste parole pensando di pubblicarle sulla mia pagina facebook, per diffondere dolcemente la notizia a chi la deve ricevere, e mi accorgo che scriverle mi commuove, in maniera inaspettata perché non mi hanno commosso la telefonata a metà notte, i pensieri e le parole scambiate con Angelica. Credo che sia perché - stranamente rispetto al solito, dato che passo le mie giornate a scrivere - sento il loro peso, forte e chiaro, mentre le rigiro, le sposto, le provo e le sostituisco, fino a che le frasi prendono corpo, una dopo l’altra. Sento che mentre le compongo si dispongono, e prendono forma, e che la forma è ben più di un’immagine, una forma definitiva. Come le scolpissi sulla pietra, dettate da un’esigenza esterna a me e più alta.

Sì, la mia mente irrimediabilmente letterata per forza corre all’epigrafe, alle tavole delle leggi, ai detti incisi nei templi, a quelle parole dette una volta e per sempre, a eterna memoria, che già gli antichi incidevano su pietre e lapidi, i romani sui frontoni. Solo che io sono molto più humilis, terraneo e terrestre, e vorrei scriverle sull’erba, sul terriccio sterrato, nel sottobosco; ma penso anche a tutto ciò che simili parole evocative – bella anche questa, no? – della persona e della vita di chi è trapassato possono diventare quando abbandonano la pietra e passano alla carta, quando si fanno espressione e racconto, come in tanti, per esempio Edgar Lee Master, e insieme a lui in tutti quelli che hanno seguito una vocazione esplicitamente narrativa, biografica, a volte epica, fino ad arrivare all’interminabile lallazione elegiaca, automemorante e narcotica della Recherche

Non è vero allora quel che io stesso ripeto continuamente, che le parole oggi abusate non dicono più nulla. Ci sono parole svilite, certo, ma proprio grazie ai morti (e ai vivi che le pronunciano per loro), anche parole potenti, che possono ancora dire tutto, appunto evocare, e nella maniera più semplice e magica (per confinarmi nel solo ambito psicologico cito qui Hillman). Parole che rasserenano oppure opprimono, impressionano il cuore. Perché è così, parole che fanno piangere ci saranno sempre, dove un cuore ancora batte e le riceve. Basta che, per opera di un mistero che ha dell’alchemico, risultino possedere e trasmettere un distillato di vita, sangue, goccia dopo goccia (per chi volesse approfondire consiglio senza hastags la nekyia, Walter Otto, Meuli, sciamanesimo et cetera).

E penso anche, per tornare ancora un poco ad accompagnarci ad Ivo, che ogni ciclista sia una personificazione moderna di Sisifo, quell’eroe che nel mito doveva per punizione continuare a spingere un pietrone in cima alla montagna, per vederlo poi rotolare giù, tornare a prenderlo e ricominciare senza fine. Ricordo Pantani, le foto di Coppi e di tutti gli eroici scalatori. Come Sisifo, figlio di Eolo ed Enarete, il ciclista fa una fatica boia in montagna, perché pigiando sui pedali nella salita dura sente tutto il fardello della propria vita, per ciascuno diverso ma per tutti presente, espresso dalla formula peso del corpo più quello della bici (anche la tecnica che ci aiuta a correre è un peso, no?) moltiplicato per pendenza della salita e distanza. Quella fatica che invece in piano scompare, grazie alla macchina meravigliosa, perché se si pedala tranquilli per magia ecco che sul sellino ci si ritrova a correre seduti, godendo del paesaggio e dell’arietta fresca. Non è anche questa una gioia divina, paragonabile a quella di Icaro, che spicca il volo librandosi in alto – la bici si libra a livello del suolo – le ruote sono ali, e correre come il vento in fondo non è un modo tutto terrestre di volare?

Credo che la gravità sia una delle forze naturali più misteriose e potenti, quella che più di altre ci fa sentire, oltre al peso e quindi al valore della vita, che c’è molto altro sopra, sotto e dentro le cose, ineffabile e inevitabile. Perché poi nella realtà siamo tutti diversi e anche a scalare una salita in bici c’è chi è allenato e chi ha fretta, chi ha il magone e chi non sa pazientare. E poi ogni ascesa impone a ciascuno i suoi ritmi, i suoi paesaggi, le sue compagnie, i pensieri, saette o macine che digrignano i denti o aprono i polmoni al respiro ansimante.

Ma ecco, arrivato in cima Sisifo depone la pietra; raggiunto il valico, il ciclista, uomo prometeico, ottiene molto di più grazie alla sua macchina di semplicità fantastica, forse la più bella mai inventata dall’uomo. Dopo la salita la bici permette di recuperare la fatica spesa, con la trasformazione dell’altra forza, quella che si diceva di gravità, ovvero la spinta del peso, alla ruota: in piano si corre da seduti, grazie al peso del corpo che applichiamo ai pedali (dunque è una leva dinamica…) ma soprattutto, appena inizia la discesa, il pedale si libera, la catena gira da sola, come per magia, e restituisce tutto quel che salendo si era accumulato, e non disperso, in velocità! Grandissima novità che Sisifo non conosceva: lui provava solo il sollievo di scaricarsi del peso - scendendo, ora, trasformato in ciclista, può addirittura trionfare, leggero e rapido, con gioia ridente, riavere tutto quel che ha sudato ma anche accantonato, gli ritorna portato dalle due ruote nel vento verso casa, o verso un’altra terra, oltre il crinale, in un’altra regione dell’essere, dove entra trionfante, volando attaccato al terreno, neanche, passandoci sopra in una maniera nuova e fantastica, nel movimento della ruota sottile, seduto corre sopra la terra (mia zia, sorella più giovane di mio padre, raccontava che Lorenzo volava scendendo la val Brembana senza mani!), un istante d’ebbrezza che non conosce soluzione di continuità, che spesso dura chilometri e chilometri! Come un volo di Icaro, appunto, in cui però la cera è il freno, il freno le redini, che regimentano e imbrigliano tutta quella forza risvegliata che preme e spinge con foga, che l’innesca e anche la contiene.

Ecco dunque che vediamo da una parte, in salita, la fisica del lavoro, il sudore cadenzato da uno sguardo timoroso e concentrato rivolto dal basso all’insù, una mente attenta che misura e stima, calcola guardando l’ignoto, soppesando e amministrando le forze - il montanaro Sisifo dallo zaino pesante, dall’altra parte vediamo invece la discesa, la libertà e la forza restituita, la poltrona volante, Icaro ridente, l’ebbrezza del gioco, la contemplazione dall’alto e la meta, laggiù, attento però, a conservare in ogni momento, la presenza necessaria, la gioia di calibrare il controllo, il governo, che sappia giocare con briglie e traiettorie, amministrando rischio ed ebbrezza per un arrivo felice...

Una decina di anni fa, senza pensare alla bicicletta, per Sisifo, diversamente da Camus, avevo immaginato una simile discesa allegra e spensierata, alleggerita e leggiadra, come il festoso ritorno a casa del lavoratore. Un amico illustratore, a cui avevo chiesto di provare a raffigurare quella discesa, mi segnalò il bellissimo Sisyphus, cortometraggio d'animazione ungherese del 1974, diretto da Marcell Jankovics (https://www.youtube.com/watch?v=QujiLG93BKw); un corto davvero splendido, possente, poetico, ultrapremiato. Eppure nei pochi salti che il suo Sisifo fa in discesa non sono riuscito a trovare tutta quella felicità sovrana che vi avevo scorto io, l’apertura verso un mondo di riequilibrio e pacificazione, quella gioia che avevo paragonato alla discesa dalle mie tante montagne (con l’aiuto di Bergab, una pagina di diario di Walter Benjamin).

Sono passati ora tre giorni e il percorso di Ivo - quello su questa terra - è giunto ieri alla sua conclusione. E in quel momento, in quell’ora e in quel posto, mi sono reso conto che non avevo assistito in anni recenti (e forse mai? Chi lo sa più)? a un'inumazione vera, che sempre più spesso accompagniamo urne contenenti soltanto ceneri. E se la memoria mi fa cilecca significa comunque che di inumazioni non avevo ricordi vividi. Certo, ora c’è il fatto che la vanga la uso, per contrare il terreno, come si dice in Toscana, ovvero rivoltarlo a ogni primavera, quando si girano grosse zolle di terra sotto sopra. Si seppellisce il verde, e si porta in superficie il nero, le radici, i vermi, il vivente del sottosuolo.

Ivo ha scelto che la sepoltura avvenisse alla vecchia maniera, per cui dopo la cerimonia ci siamo incamminati, poche centinaia di metri, fino al piccolo e vecchio cimitero in salita, sul fianco soleggiato della montagna. In una bara di castagno non zincata (lo dico non a caso), portata a spalle su per la scalinata, c’è stato un ultimo saluto davanti alla fossa aperta, dove poi uomini del paese l'hanno calato a spalla con grosse corde annodate. Era un bel terreno scuro, preparato a pala con perizia, dentro a un praticino affacciato verso il fiume, in una giornata di sole. La statale, che passa poco sotto, ormai non dà più fastidio: la 67 non è più un’arteria di traffico e solo nei weekend di bel tempo per poche ore impazzano i centauri fracassoni. Di fianco Ivo avrà la tomba di suo padre Pietro, identico a lui, di sua madre Ordelia (senza foto) e due sorelle morte in gioventù, una tragicamente investita in bicicletta sulla statale, a vent'anni. A poca distanza, sparsi tra piccole tombe, e tutti rivolti verso quella fossa, guardavo attorno a me le figlie, i nipoti, due fratelli rimasti e un buon numero di amici e parenti, e amici dei parenti. Anche da lontano, dalla capitale; non pochi, non troppi, quelli che hanno voluto e potuto esserci, nessuno superfluo.

E veniamo a questo punto, tutti, a guardare in silenzio la terra. La terra immobile, viva, parla il suo linguaggio, accoglie. Siamo in molti a prenderne un pugno per gettarla sulla bara. Il gesto, con tutto il suo portato rituale, mi ha effettivamente dato conforto. Ho sentito che in questo mondo di artefazione, di mistificazione e strumentalizzazione, la verità era pacatamente contenuta in quelle zolle, ma anche nei badili e nei gesti calibrati e precisi di chi si è poi dato da fare per richiudere manovrando sapientemente e con misura le pale, senza parole e senza fretta, senza altro rumore che quello della terra che cade sul legno, in pochi minuti la buca. Era nell'espressione concentrata con cui tutti si guardava quel lavorare inevitabile e pietoso (compassionevole si tradurrebbe oggi, ma voglio ricordare Virgilio) per assecondare e servire il destino. Pax dona eis domini, non riesco a immaginare nulla di più umano. La terra avanzata, corrispondente più o meno al volume della bara sepolta lì sotto, è stata composta in un piccolo tumulo su cui si è piantata una croce di legno, in attesa di una lapide già commissionata alla cava sopra il paese - la stessa cava dove Ivo aveva iniziato a lavorare ragazzino, a scalpellare nella pietra serena paracarri, e raccontava con orgoglio che a 12 anni li portava in spalla fino al carro.

Tornare alla terra. Anche così è, humus sumus. Come se con quel rito davvero antico e primigenio si fosse ristabilito un semplice e profondo equilibrio, mettendo a tacere dubbi, paure, ansie. Compensazione, riparazione, ritorno all'origine, alla materia. La cremazione invece, come in una magia da illusionista, impone uno iato tra morte e sepoltura, interrompe un tempo la cui conclusione non si può più riannodare. Il tempo dell’uomo sparisce, e la calata nella terra resta soltanto un proforma. Spesso, tra l’altro, in cimiteri dove la terra non conta proprio, se non come supporto neutro, sorta di cemento, detrito sterile e inerte, spesso sotituito da un loculo. Come luoghi di smaltimento.

A San Benedetto, nei cimiteri di paese, non è così, le tombe non sono distinte dalla vita, non c’è deserto di ghiaino; bronzi, plastiche e marmi sono in minoranza, ci sono pietra, erbe e fiori, sole e insetti, alberelli e alberi, non c’è un confine netto, soltanto un muro.

Mi ha detto Angelica che a guidare il lavoro di pala era il figlio del migliore amico di Ivo, scomparso già qualche anno fa, e che porta il suo nome. Stupisce come fosse diretta e semplice l’amicizia un tempo, che esprimeva in un modo così profondo quei legami primordiali che oggi più nessuno vorrebbe. Gesti che indirizzavano il destino dando nel nome un segno indelebile, indissolubile, che forse oggi non sappiamo nemmeno vedere, se ci pare un vezzo, come chiamare il figlio Maicol, o una coincidenza.

A differenza di Ivo, mio padre non era morto in ospedale, ma in soggiorno, sul divano. Su suggerimento dell’infermiere che accompagnava i suoi ultimi giorni, ormai 28 anni fa, dalla camera l’avevamo portato lì, dove sorretto dal bracciolo e dai cuscini poteva stare tra noi. Ci guardava e non parlava più, respirando con sempre maggior fatica.

Il caso vuole ora che a dieci giorni dalla scomparsa di Ivo, mi tocchi per la prima volta dormire su quello stesso divano, nella stessa posizione in cui lo ritrovai tornando a notte fonda dopo avere accompagnato fino all’idroscalo l’infermiere per prendere quanto necessario a preparare la salma. Dormire qui non mi turba, anzi: mi piace la compagnia dei morti, credo che loro, se pur esistono ancora in qualche maniera e abbiano una qualche coscienza, siano benevoli verso le nostre mancanze ed errori.  Mi sono così disposto, dato che la mia stanza è ora occupata dalla badante di mia madre, a trascorrere sul divano in soggiorno l’ultima notte di primavera, 20 giugno, e ora, infilato dentro un lenzuolo a sacco, scrivo al buio sul laptop. E’ un’occasione che accolgo con gratitudine per pensare “al Lorenzo”, come lo si chiamava in famiglia una volta cresciuti.

Sul tavolino di acciaio cromato e cristallo verde, nella galleria dei trapassati (noi mancanti della famiglia stiamo ormai sulle dita in una mano) c’è una sua foto che mi piace, tra l’altro perché lo mostra com’era, persona mestamente sorridente, disarmata di fronte alla vita. Sulla parete (nella foto da sn a ds) si vedono un acquerello di mia sorella con la piana del paese dei nonni (s’intuisce il cimitero dove riposano tutti), una tavola originale di Sergio Toppi, che sfollato a Bannio in tempo di guerra aveva fatto il filo a mia madre; un dipinto della suocera di mio fratello, pittrice tradizionale giapponese, inviato in dono a mia madre tanti anni fa.

Quando morì mio padre aveva cinque anni più di quanti ne ho io adesso, e aveva vissuto una vita molto diversa dalla mia. Aveva visto da vicino la guerra, avuto tre figli, sofferto molto, lavorato, e anche avuto soddisfazioni non trascurabili. Penso a lui e ricordo come ci guardava quella sera, senza parlare, moglie e tre figli, come volesse dichiarare una volta per tutte la sua estraneità al mondo. Perché per quanto si faccia e si voglia convincersi del contrario, viviamo per caso, e per lo stesso inarrestabile caso ce ne andiamo, e su tutto ciò la volontà è inerme - davvero non può proprio nulla. In contraccambio, finché ce n’è, ci resta l’infinita abbondanza della vita.