domenica 14 agosto 2011

Bollettino di Montaonda n. 31: Risalendo la via dell'acqua


L'altro giorno, 9 di agosto, siamo andati a fare il giro dell'acqua, scendendo al fiume sotto il ponte e sopra la cascata, e risalendolo poi fino alla strada di Ciliegioli. È dai tempi in cui ne avevo parlato nel blog (sono andato a controllare, Bollettino n. 3, archeologia!) che non ci ero più tornato. Perché raggiungerlo di solito non è agevole: nell'ansa sotto a Montaonda il fiume scorre basso, incassato tra le rocce e coperto dalle fronde degli alberi. Soltanto in pieno inverno, cadute le foglie, se ne intuisce qualche brillio d'acqua. Ma in questi giorni di metà agosto la portata è ai minimi stagionali - da casa non si sente nemmeno - e quindi, scendendo dal sentierino che porta alla pozza sotto il ponte, si può andare fino a sporgersi sulla cascata (foto d'apertura - già che ci sono vi ricordo che cliccando le foto si allargano un po', ma la risoluzione è cmq ridotta). È piuttosto alta, saranno una ventina di metri, e curiosamente non è segnata sulle carte, almeno non quella del Parco, che pure ne riporta altre di minore importanza. Forse perché non è accessibile, nemmeno da sotto, se non a rischio di pericolosissimi scivoloni (io stesso ho evitato, e ne ho solo una foto scattata in inverno, in piena, e da lontano).
Quando l'acqua è poca si può, fiancheggiando la pozza, risalire la piccola gola e accedere alla valle dal basso. Sotto il ponte, abbarbicate alle pareti rocciose, abbiamo trovato le capre del vicino Paolo, due femmine, un capretto e un maschio ancora giovane, curiose e giocherellone (di base sono di razza camosciata, coi piedi e il muso bianchi e il resto del pelo nero, dai riflessi corvini, quasi blu). Una, mi raccontava, gli è morta questa primavera, caduta e sfracellata. Due ci hanno seguito costeggiando con noi la pozza a canyon, dove i più arditi tra i sangodenzini amano immergersi per brevi bagni tonificanti - forse dieci bracciate, stando attenti a non sbattere mani e piedi sulla roccia. Noi abbiamo evitato, in fondo quel rivolo d'acqua estiva, per quanto limpida, raccoglie gli scarichi di Castagno in piena stagione turistica...



L'acqua prima o poi scolma, anche quando è poca: scorre e scende a livellarsi su una linea perfettamente orizzontale. Quando è immobile pare una finestra sul sottosuolo. Per quanto tenue, il flusso si fa rivolo e si raccoglie in pozze, anche profonde, come questa, dove si purifica depositando un sottile fango grigioverde. Sembra immobile ma sempre e ovunque trova un varco, e riprende a scendere scivola, accellera, cade, e questa sua caduta non è propriamente a peso morto, perchè c'è anche una spinta continua, c'è altra acqua dietro che preme, quella che nei fiumi imetuosi vuole portarci via, come Marinella, smuoverci quando vi siamo immersi dentro. Dentro di lei, la Corrente - e cos'è mai la Corrente, questa dynamis, continuo flusso eracliteo, che ci solletica i piedi, incalza le gambe... La discesa, il movimento la ossigena, le dà vita, la fa cantare sonora. La pozza sembra immobile, solida come ghiaccio, vetro per gli occhi, appena increspato dal movimento di un insetto pattinatore, equilibrista, da una foglia in navigazione. E invece basta toccarla, ogni volta, come Narciso la riscopriamo inconsistente e cedevole, perfettamente liquida, avvolgente quanto le consente la cavità che l'accoglie. L'acqua tra tutti i misteri è grandissimo, avrebbe anche potuto cantare Pindaro, quarta Olimpica, primo verso.
Oltrepassata la pozza le pareti della valle si aprono in una piana larga nei punti più ampi forse 20 o 30 metri, che affianca il fiume su diversi livelli, vecchi letti abbandonati, scolmi di piena; irta di sassi tondi e di rovi, di alberi altissimi, a chiudere la volta del cielo, pilastri ricoperti di edera di una silenziosa e raccolta cattedrale verde, tarkowskiana - ontani e pioppi, sottobosco di corniolo, felci, rovi, sambuchi e biancospini, al posto di panche tronchi crollati, ravvolti di rovi. Ci si siede, si contemplano le finestre alte e luminose, le vetrate di foglie, dal giallo canarino del sole al verde bottiglia, lo scuro dei rami.
Qui Ueli mi ha raccontato di avere tentato, una ventina di anni fa, di allestire un orto - troviamo ancora il recinto di filo spinato - ma poi, forse era troppo lontano, non ricordo più, lo ha abbandonato. E qui vicino c'era pure una casetta, l'avevo vista l'altra volta, un capanno di pietra, ora ridotto a mucchio di sassi ricoperti di vegetazione, crollato di alberi incrociati sopra, proprio dove, finito di risalire l'ampia curva del fiume, un sentierino sale su verso le querce, gli ulivi e il sole, le terrazze la casa e il cielo. Di certo, di tutta la proprietà di Montaonda, sono queste le uniche parti in piano, e ben irrigate. Ascendenti, sul nostro fianco del monte, riconosciamo un paio di antiche terrazze, sostenute da muri di grossi pietroni. Fin qui, quaggiù, si veniva a coltivare la terra.

L'acqua scende noi risaliamo, ma quasi in piano, quindi entrambi senza fretta: ci incontriamo e intrecciamo i nostri passi, saltellando tra sassi incerti, da una sponda all'altra, del fiume, della valle stretta tra le rocce. Esploriamo una terra incognita quasi cercassimo le sorgenti di un fiume ignoto, esploratori dell'Africa Nera. Un parco avventura casalingo, come dev'essere, senza attrezzature o strutture, appena fuori la soglia di casa. Quegli altri, attrezzati di acciaio e materiali plastici, dove genitori paganti portano i figlioli, pensando senza pensare di fare cosa a loro grata, a ben vedere sono solo parchi giochi attrezzati, di avventura non c'è proprio traccia. Brivido forse, ma con meno rischio di un'altalena. L'avventura, anche quella minima, nel mio lessico richiede invece imprevisto, mistero, incertezza e anche una qualche dose di pericolo. Abbandonare i riferimenti del mondo, entrare nella selva selvaggia, quella aspra e forte.
Qui, oggi, l'inquietudine è poca o nulla; dovrei riprovare in inverno, col fiume ruggente di piena, il freddo bagnato, i muschi e la costa scivolosi... se proprio volessi cimentarmi. Ma oggi cerchiamo il fresco, ci contentiamo di una comoda esplorazione domestica: in linea d'aria siamo a cento metri da casa, ma questa è una linea impossibile da seguire - neppure con lo sguardo si riesce tracciarla.
Katabasis, Unterwelt, Urwald - il mondo parallelo, analogo, abaton, quello che nel mondo civile scrutiamo scorrere dall'alto dei parapetti dei ponti, ammaliati.



Quaggiù ci apriamo la strada tra rovi e ragnatele, seguiamo le tracce degli animali. Dell'uomo, poche: ogni tanto una bottiglia, una suola di scarpa. Su un tronco ricoperto d'edera noto dei vecchi colpi di pennato, a spezzarla; credo siano miei, di tre anni fa. Di edera gli alberi sono talmente pieni che solo tranciarla diventerebbe un lavoro serio, di tutta una giornata e più, e molto sudore.
A un tratto un fruscio e un'ombra colorata in fuga, non riusciamo a capire se di capriolo o di cervo. Sul terreno sabbioso le orme unghiate sono moltissime, i sentieri stessi sono tracciati dagli animali, qui di casa ben più dei loro cacciatori. Da un lato o dall'altro, ad ogni tratto, tra muschi e rocce, accenni di tracce s'inerpicano per la ripa del monte, impraticabili per gli umani, almeno se dotati di buone intenzioni.
C'è un grande silenzio, sono le quattro di pomeriggio e l'aria è fresca, protetta dall'alta volta verde degli alberi, l'umidità rallegra. Il cielo dove può si specchia nell'acqua tranquilla, il fiume scorre senza salti, gira attorno ai sassi producendo gorgoglii leggeri, e ad ogni manciata di metri si può attraversare. Ogni tanto si accosta a una ripa e lambisce la roccia, ogni tanto si apre in una pozza; dove c'è più luce - di recente qualche albero è crollato - aumentano le erbe che incorniciano le sponde. In una di queste pozze più chiare osserviamo pesci e, dopo un po', quando l'occhio s'abitua a oltrepassare lo schermo riflettente dell'acqua, un'abbondante famiglia di gamberi indaffarati, tra cui saettano rapide sagome di pesci piccoli, poco più che avannotti - nella fotografia prendono forma di tenui ombre trasparenti.


Qualcuno mi ha detto che sono i rossastri gamberi della Louisiana, introdotti anni fa con gesto scellerato, dato che divorano ogni cosa, soprattutto uova e pesciolini. Ma chissà, forse invece sono i vecchi gamberi di fiume nostrali, come si dice qui, che prosperano di nascosto dalle ingordigie umane. La gente del posto lo sa, eccome. Ho sentito racconti di cacce notturne con secchielli colmi, nei decenni passati. Prima di trasferirmi a Montaonda non ne avevo mai visti, ma ricordo gli scarni racconti di mio padre, le sue incursioni da ragazzo per le rogge dell'Oltrepò, a Rovescala, a caccia di gamberi e rane. Divorarli in famiglia, immagino, era una delle feste e leccornie che segnavano la stagione. Forse ora davvero non li mangiano più, forse è subentrata una forma di rispetto per la nuova biodiversità (ma il nome uccide, dico io, e lo pensavano gli antichi), protezione e affetto per gli animali rari e preziosi? Mi illudo, mentre invece il gambero americano sta uccidendo un altro fiume già agonizzante?
La riva di sinistra scompare in un roccione a strapiombo, cerchiamo quindi di proseguire sulla destra, ma ci troviamo in un roveto sempre più fitto, e anche se abbiamo i guanti e la forbice da giardino per fare cinquanta metri si rischia di metterci mezz'ora. Un attimo di sconforto, forse fa anche più caldo, e a che punto siamo della camminata? Non ne ho idea, fin qui non sono mai arrivato. So che più avanti si deve incrociare la strada che guada il fiume, ma non ho proprio idea di quanto ci voglia ancora, e cosa ci aspetta. Una pausa, una sigaretta. Torniamo sul fiume, si salta un po' sui sassi e, superato un punto un poco più impegnativo, prima di quanto si immaginava, arriviamo alla strada. Sollievo, soddisfazione, siamo al traguardo. Ora basta risalire e tornare, lungo il sentiero di mezzacosta, ben noto e segnato. Anche se arranchiamo sotto il sole forte ormai sono le sei passate, non è nemmeno tanto sgradevole.

A Ciliegioli i pascoli sono da tempo maturi, ma nessuno li ha falciati. Colorati dei fiori di agosto, sulle coste e un po' dappertutto avanzano stendendo la loro mano minacciosa le foglie scure dei rovi, solo questo. Giriamo dietro la casa, ci imbattiamo in un trattore che sembrerebbe lasciato lì il giorno prima, pronto a partire per riprendere il lavoro. L'attrezzo agganciato a rimorchio è di un bel rosso fiammeggiante, sembra nuovo. Eppure tutto è sommerso dalle piante, equiseti, galiga, mentuccia, immobile da mesi, forse addirittura dall'anno precedente. Pare ormai caduto in potere dalla vegetazione, inerme - un trattore! - pare sul punto di essere digerito, assimilato. E mi accorgo solo ora, preparando l'immagine da caricare sul blog, che c'è stato e ancora vibra in me un fremito di compiacimento misto a terrore: l'immagine potrebbe essere una significativa profezia, premonizione di crisi esiziale, di quella vera, che potrebbe arrivare tra poco e divorarci tutti, il grande blackout energetico. E forse, contrariamente alle nostre illusioni, creerà amare difficoltà anche a tutti quelli che, come me, si consideravano rifugiati, al sicuro sull'Appennino, capaci e pronti a rendersi autosufficienti. Un altro sogno. Almeno, se le cose le intendiamo così, immaginiamo pure l'autosufficienza ma, per favore, senza trattori... torniamo al bue, al mulo e alla capra, torniamo al Nepal, la frugalità, i piedi scalzi e le rughe sul volto... (e ne vedo, ne vedo molti tra gli abitanti d'Appennino, riabitanti, per essere precisi, che sempre più spesso mi capita di incontrare), questo se mai uno ci attende, è il medioevo venturo, non quello delle sagre fragorose e magnaccione...


Anche a Ciliegioli il silenzio è rotto solo dall'acqua, ma questa volta è una cascatella scherzosa, che proviene da un rubinetto al capo di un tubo d'acquedotto, o di presa a monte, non so. Sta fissato al tronco di un cipresso e il filo d'acqua, una luminosa collana di perle di vetro, cade in un mastello di ferro zincato sempre pieno, sempre aperto a beneficio degli animali (capita spesso che i proprietari dei poderi sul limite della selva lascino un abbeveratoio per i selvatici). Questo in particolare lo conosco bene: l'ho visto in ogni stagione, l'ho in foto costellato di barbe di ghiaccio; ma ora mi attrae la mucillagine vegetale che ribolle al suo interno. Pare polenta appena gettata in un calderone (il pastone che la prozia metteva sul fuoco, erbe e cicorie insieme a granturco, il mangiare dei polli). A quanto pare il cuoco ci ha appoggiato sopra di traverso il bastone per sparire e dedicarsi un attimo ad altra faccenda. Non c'è fuoco qui, ma questa è senz'altro una cucina all'aperto, qui madre natura allestisce i suoi intrugli, minestroni per sfamare vegetali e animali; guardo la traccia di muschio che ricopre l'orlo sulla destra, seguo l'umido dell'acqua che scende ai piedi del cipresso, che digrada verso il pendio e il bosco pascendo erbe diverse, di macereto.


Cogliamo un po' di achillea da mettere nella grappa e poi si va, ormai il sole è basso e c'è ancora una ventina di minuti per raggiungere casa. Rapidamente, quando si esce dalla valletta - qui un tempo si dice fu avvistata un'orsa col cucciolo - arriviamo alla spianata del galestro. Ora si scorge la silouhette di Montaonda - le case, i cipressi in fila si stagliano contro il sole vicino al tramonto. Era tempo che aspettavo di tornare, è un posto particolare, per la vista e per le pietre affioranti, sottili e quasi orizzontali, simili, anche nel colore, a brandelli di legno, a piastrelle grezze smozzicate o fogli di cartone buttati per terra. Tra i radi ciuffi di elicriso e di rosa canina abbiamo eretto un'erma, come i greci chiamavano le colonnine di sassi, ometti, come dicono i camminatori dei sentieri alpini. Il perché e il percome nella prossima puntata (ho già scritto anche troppo) nei prossimi giorni, spero, a recuperare gli arretrati scoperti.
Poi a casa, in una manciata di minuti.