mercoledì 8 aprile 2009

Bollettino n.18: Riso e ortiche (morte e rinascita)


Oggi è stata una buona giornata. Mi sono svegliato un po’ tardi, quando ho sentito i rumori sul tetto: sopra di me gli amici che mi danno una mano (è un eufemismo, in realtà fanno tutto loro) hanno iniziato a stendere l’intonaco sul pezzetto di muro esterno della stanza che sporge più alta del resto del tetto. Ho fatto colazione e sono salito a guardare. È bello stare sul tetto di una casa, è come stare sulla tolda di una barca, lo stesso equilibrio precario, inclinato. Già, perché i lavori al secondo appartamento, quello da sistemare sono iniziati: sul tettuccio piccolo, già in ordine, si è messo l’isolante, la guaina, si sono pulite e rimesse le tegole. Con un po’ d’interruzione, perché ha piovuto, tanto per cambiare, mentre sono dovuto salire a Milano prima del previsto per tornarne solo dieci giorni dopo, e provato da un lutto improvviso. Tornato è tornato il sole, ed è esplosa la primavera. I muri delle stanze future ora sono tutti a nudo, come ossa di uno scheletro. Sono bellissimi, di pietra, diritti e precisi. Piangerà il cuore a ricoprirli.
Di giorno ora si sta proprio bene, la vegetazione è partita alla grande. Ieri era passato il geometra a guardare un po’ i lavori, stamattina sono stato dalla commercialista per capire come muovermi per gli sgravi fiscali, e poi sono andato da Beppe per vedere un po’ come organizzare la sequenza dei lavori. Giugno, luglio, si dovrebbe finire a settembre con i pavimenti di legno. Oggi ci sono state anche telefonate verso il resto del mondo, il cremasco, Milano, ora anche un’amica dalla Svizzera, e poi tanta internet, per chiundere la contabilità del trimestre, per verificare in po’ la situazione del comitato contro le pale eoliche (si chiama Ariacheta, mi sono impegnato ieri sera a farne un blog, se tra un po’ cercherete sui motori qualcosa ci sarà). Una guardata al lavoro a venire, arriva il testo di una traduzione per l’amico Helmut (ormai traduco per lui da quasi dieci anni…), che sta preparando un altro libro con i suoi nuovi quadri. Quindi ho chiamato Elisa, su all’eremo, che mi ha invitato domattina a fare una passeggiata sul crinale insieme a due esperti di rapaci, per verificare la dislocazione delle pale (li tagliano a metà, come una ghigliottina, cercate le foto su internet). Sveglia alle 7. Mi porterò, ho deciso, Roberto Mussapi, Volare, non l’ho ancora aperto ma mi fido.
Poi ho salutato Papero e Daniele, ci rivedremo dopo Pasqua. Nel pomeriggio sono sceso passo passo dalla scarpata sotto casa fino alla strada, quella che, tagliato da Michele l’ultimo ailanto in autunno, Patrick e Nyima avevano ripulito da rovi e sambuchi. C’è qualche rovo che butta, qualche vitalba, tegole rotte, mattoni bruciacchiati e tutta una serie di reperti della civiltà contadina, tra cui: una scarpa da donna con un cespo d’erbetta al posto della fibbia, tappi di plastica e metallo, una boccetta di vetro dissotterrata a metà da un animale, collant di nylon che tiro per contenderli alla terra, in una parodia di macabro striptease, diversi frammenti di vetro della damigiana che Chiara a gennaio aveva urtato ed era rotolata giù, sfracellandosi, con sua costernazione, e poi qua e là brandelli di plastica sfilacciati, un tempo sacchetti, sommersi dagli anni. Cercavo di capire dove far passare i gradini di legno che formeranno una scaletta, tra cespugli profumati e colorati di fiori e piante – trasformerò spero questa scarpata di cocci in un piacevole giardino (bosso, ortensie, ribes, gigli, uvaspina e chissà). Ho raccolto gli ultimi rami sparsi, strappato un po’ di rovi, non sono riuscito a capire se dovrò costruire sotto, a bordo strada, un muretto di contenimento del terreno franoso o meno. Il passaggio degli animali di notte ha già creato un sentiero, ma di terra smossa, e non va bene. Vorrei evitare di mettere la rete, di fare il giardinetto. Vedremo.


Daniele è andato via a testa bassa, perché domani deve ammazzare gli agnelli. Non so quanti ne ha, penso una decina, ed è uno di quegli omaccioni che sembrano orchi ma dentro hanno il cuore tenero. Odia ammazzare gli animali, lo dice chiaramente, eppure lo fa, disperato, perché ha fatto questa scelta di allevare. Lo capisco, sapete che sono vegetariano ormai da anni. Ieri aveva detto se porto il fegato da mangiare per me e Papero me lo lasci cucinare? Ho fatto un po’ fatica a dire di sì, e ho accettato perché quel fegato fresco aveva il sapore quasi sacro di un rituale antico. Mi fa senso, ma merita il mio rispetto (e in fondo due anni fa a Campicozzoli avevo pure ammazzato io un gallo in sovrannumero). Poi non l’ha portato, almeno, diciamo che oggi sono andati a mangiare in paese (ho il sospetto siano andati a mangiarselo da un amico). Insomma, mi rendo conto ora che Daniele è ancora uno dei pochi che macellano gli animali – per altro lo fa solo per sé e gli amici, che altrimenti per venderli dovrebbe portarli al macello con un furgoncino a norma ecc.ecc., un delirio, mi aveva spiegato, quanto basta per scoraggiare il piccolo allevatore non specializzato - e per di più gli agnelli, per Pasqua. E soffre come un cane, perché i piccoli sono proprio carini: Paolo, all’eremo, mi ha fatto vedere i capretti, sono dei bimbetti con gli zoccoli (Gurù!). Guardateli qui sotto, sembrano tanti piccoli satiri, innocenti-saccenti. E dunque: Daniele (ha pure un nome biblico!) che si incaponisce a macellare gli agnelli che ha visto nascere pochi mesi prima è – almeno per me che lo conosco – l’ultimo pastore che affronta con spirito umano questa cruenta operazione. Dieci giorni fa a Piadena, il sabato pomeriggio, prima della tradizionale festa della Lega di cultura popolare, Giuseppe Morandi ha proiettato un documentario sui bergamini, i contadini della bassa (e ci ha fatto l’onore di usare per la colonna sonora uno dei nostri pezzi, “I ministri”, e il nostro gruppo si chiama emblematicamente “Suonatori Terraterra”). In chiusura parecchi minuti dedicati alla macellazione in serie dei vitelli. Daniele, che guarda davvero il caso, è ottimo cantante (il suo gruppo cugino è “La leggera”, loro hanno fatto diversi dischi) per fortuna non l’ha visto. Dice comunque che, pale o non pale, è l’ultimo anno che tiene le pecore, vuole darle via. Non ce la fa più ad ammazzare.


Che cosa succede? La società sta cambiando, non sarà mica una novità: uccidere gli animali sta diventando sempre di più un massacro nascosto, segreto, al chiuso di stalle e macelli consortili. È un caso - e forse non è un caso - che stia leggendo proprio in questi giorni Il dilemma dell’onnivoro, di Michael Pollan (Adelphi), un libro che conferma i timori più cupi sull’industria alimentare. Me l’ha consigliato Livia durante una discussione sul carnivorismo in lista, malista. Non aggiungo nulla, leggetelo. Per me sono passati più di dieci anni da quando, in uno dei miei mai pubblicati “Reportages dell’impossibile” (divertissement, si diceva una volta), raccontavo una mia inchiesta interiore sul mangiare il rognone (ce l’ho ancora il reportage, chi lo volesse me lo può richiedere per mail).
Macellare l’agnello, il capro espiatorio, il sangue, la purificazione. Tutte cose oggi ascritte ad ambiti diversi, non comunicanti, una volta invece era tutt’uno: il maiale era per i bambini un compagno di giochi come il cane, il capro era il pharmakos, per i greci, Gesù per i cattolici. La medicina, diciamo noi, l’igiene e la purificazione. L'innocente ucciso per espiare il male incombente, un modo per toglierlo di torno. Oppure: guarire per ricominciare, tra i singhiozzi, desiderosi e persuasi di non peccare più, mai più. Ucciderne uno per aprirci al bene, al sole, al bello e alla vita. Uccidere subito, per non vederne morire dopo, seppellire con lui il dolore quotidiano, ho fatto, ho dato. E ogni altra morte sarà vissuta come ingiustizia.

Un’altra cosa, e poi chiudo il discorso: oggi sgombravo le croste del formaggio dal marmo del tavolo di cucina (ogni tanto mi piglia vaghezza di mangiare senza tovaglia) con le mani. Qui in campagna ormai mi sono abituato a fare come chi è abituato a trattare con gli animali, dentro e fuori casa, il pollaio o l’orto. Delle mani si fa un uso diverso: si sporcano, si screpolano, si feriscono, le si usa per prendere direttamente gli avanzi dai piatti; si fanno cose per cui il cittadino, anche operando con la punta della forchetta, prova disgusto. Qui le mani le si usa e poi, quando si è finito le si lava, proprio come gli attrezzi. Si ingrossano e diventano nodose, dure come legno stagionato. Le stesse mani uccidono, tagliano e nutrono, accarezzano. A pensarci è cosa arcaica e strana, da brividi: le mani in campagna le si usa per fare tutto, non come in città (ma sono distinzioni ancora valide?), dove ci sono le protesi tecnologiche, dove le “mani” restano sempre “pulite” anche quando si maneggia la peggio monnezza, dove ormai si mettono i guanti in lattice anche per spolverare, o si compra tutto già fatto, e non si tocca nulla, non ci si contamina. Berürhungsangst, angoscia da contatto, chiamano i tedeschi la timidezza verso le persone, ma vale anche in senso lato (in quest’ambito non esiste metafora). E le pattumiere, con l’incubo di distinguere i nostri scarti, diventano foibe e fobie del quotidiano. Ebbene, per chiudere in allegria, in questo clima di corruzione diffusa sono sempre di più quelli che scelgono la cremazione. E il campo santo, il giardino di pace, sparisce, diventa un paradiso insustanziale (lo dico e osservo, sia chiaro, con compassione, non oso criticare - si fa quel che si può per vincere le paure), invisibile e traslato, lascia il posto alla materica discarica. Al marcio e al pattume, al gabbiano al topo e alla larva, all’incubo della civiltà fallita. Il giardino più bello e meglio esposto, il più fiorito e il più elevato, cede al brutto e all’infimo. Sic transeat.



Daniele è un poco più basso di me, ma le sue mani, fin da quando l’ho conosciuto, mi hanno sempre affascinato. Non sono tanto più grandi delle mie ma… a confrontarle noto la stessa differenza che corre tra un bastone di nocciolo e uno di bosso. Eppure ci suona la chitarra, con uno stile tutto suo, lui dice da zappatore, ma di grande efficacia, pur nella grande semplicità. Io forse suono meglio – ho più tecnica e distanza – ma sono destinato, lo so, a restare a mezza via: con le mani non faccio lavori pesanti, e ricorro sempre ai guanti (di pelle). Mi graffio su nulla, e mi si spaccano continuamente le unghie. Le sue, a guardarle, sembrano artigli d’aquila.
Oggi, coi guanti, ho colto le punte delle ortiche che crescono vicino allo scarico del depuratore Imhoff (un cittadino manco sa cosa sia…). Sono bellissime, tenere dritte e ancora trasparenti. Nel sole caldo del pomeriggio emanavano il loro odore caratteristico e pungente. Quando le ho lavate e lessate hanno riempito la cucina di un profumo che odorava d’infanzia. Le ho mangiate col riso.
E quindi niente, tutto scorre, era giusto per dire che qui da noi non esistono i rifiuti, e la vita forse, almeno per certi versi, è ancora una sola, dura e indifferenziata.