Sempre si parla della Via, quale che sia, sembrerebbe che basti camminare, e certo, lo sappiamo, camminare regola il passo, il fiato, il pensiero s’arrende al ritmo degli occhi che scrutano il percorso, che ricevono tutto quel che si fa loro incontro. Già quarant’anni fa il passo era per me un argomento importante, camminavo, in montagna spesso da solo, e scrivevo, da solo sempre, alla ricerca di queste cose nella pagina, e poi sul computer, che era arrivato il giorno della mia laurea, un IBM-convertible, il primo portatile della storia in svendita perché uscito allora di produzione.
Ora sono in montagna al paesello, ad accompagnare mia madre, se riesco, nel cammino da casa al cimitero. Poca roba, si tratta di scendere le scale, varcare la soglia, scendere altri sei gradini per arrivare a terra, percorrere la corte fino al portoncino (altri tre gradini però in salita, che non sono da sottovalutare), e poi svoltare a sinistra lungo il vicolo, che sarebbe uno di quelli più ampi del paese, ma largo che ci passa forse un carretto, costeggiare tre case fino alla piazza, attraversarla tra i muretti, il monumento ai caduti e la fontana, raggiungendo l’altro lato per passare tra il campanile (ecco che suona chiamando alla funzione del mattino) e la chiesa di S. Bartolomeo (domani è la festa del patrono), quindi avviarsi per quel viottolo in terra battuta, costeggiato d'erba, lungo i fianchi delle due chiese, e infine salire i tre ultimi alti gradini, sormontati dal bel cancello di ferro battuto con il teschio in cima, che porta alla dimora perenne (ordinati i suoi viottoli come un decumano, sulla destra, quasi in fondo la tomba di famiglia per il riposo perpetuo). In tutto duecento metri forse, qualcosa di più. Ma farli non sarà facile, visto che lei non cammina praticamente più.
La mia via invece, quella che ho percorso stamattina, esce ancora dal paese risalendo la valle, attraversando le vecchie stradine rimesse per bene, ciottoli di fiume e lastra rettangolare di pietra nel mezzo, una pioda, per guidare il passo e l’acqua. A Cimavilla, dov’era la casa degli avi, quella vera e più antica, venduta una ventina di anni fa per un prezzo ridicolo, purché qualcuno la comprasse e sistemasse prima che venisse giù, e poi, prima di San Rocco, sbuco sull’asfalto, la via di Baranca, che ora, da un paio d’anni, hanno deciso grazie al PNRR di rendere carrozzabile fino al passo, che dovrebbe portare a Fobello, in Valsesia. Anche se l’altr’ieri, parlando col Guido, l’ex sindaco prima del nonno, mentre gli cedevamo le nostre quote del Consorzio dell’Alpe Baranca, lui dice che non ci arriveranno mai, visto il tracciato che vogliono fare. Lo spero ma non lo credo.
Continuo, ho un’ora di tempo prima di cena, e allora provo le gambe sulla salita di Parcineto. Arrivo su bene, e poi proseguo non verso Valpiana, come volevo, salgo verso il Gagetto, voglio vedere in che condizioni è la vecchia mulattiera. Ecco l’attacco a scalinata, non è cambiato, di qui solo a piedi (la strada passa sopra); c’è ancora un cartello antico, che vietava ma non impediva il passaggio delle motociclette (il Burtul – nomen omen, gran camminatore, coscritto di mia madre - ogni anno con la sua Lodola rossa compiva l’impresa di arrivare fino a Baranca in moto, e parlo della fine degli anni sessanta).
Una parte del Gagetto è vecchia e tale quale solo che - a proposito di moto - sento arrivare dall’alto, dalla strada un giovane che scende alle case, si ferma, va a frugare sotto il lavatoio per prendere qualcosa, si guarda attorno ma non mi vede, sono sulla vecchia mulattiera, tra gli alberi che ammiro un gruppo inatteso di quattro mucche con vitello (che ci fanno qui?) si accuccia, maneggia e poi, quando l’ho superato e ormai sono all’altezza della cappelletta, dove si innestava la strada (si chiamavano anche così una volta i sentieri) che arrivava da Fontane, proprio dove c’era il sasso su cui appoggiare la schiena e che segnava la fine della salita vera, mi sorpassa risalendo il prato (è una moto da regolarità) e se ne torna scorreggiando verso il paese, sull’asfaltata. Avrà prelevato della droga dal suo nascondiglio, avrà aperto il rubinetto dell’irrigazione? Che m’importa? Io proseguo, ho ancora dieci minuti per camminare in fuori, e supero il punto da cui si entrava nel bosco vero, faggi e tigli, supero le case nuove risistemate, quella con il cancello elettrico e progressivi abusi edilizi, sapientemente risanati o magari anche concessi, chissà. Sono alla ricerca della vecchia strada di Soi, dei sassi e i gradini secolari tra cui m'inerpicavo veloce, della pietra che segnava il tempo, svelto sulla mulattiera pianeggiante che portava alla baita del nonno, dove sono stato mille volte, fino a che gli zii crudeli l’hanno venduta a qualcuno disposto a pagare quanto io non avevo (possedevo soltanto la badanza dei miei 28 anni).
Quanti anni che non passo di qui a piedi? Avanzo sull'asfalto, ormai consumato, mi sporgo dal parapetto di ferro, alla ricerca delle tracce della vecchia mulattiera. Queste acacie, saranno loro? Come sono cresciute! E tigli, frassini, e castagni selvatici. Finché, prima di Riscillone la vedo, la traccia sotto, e c’è anche l’accesso.
Ma arrivo fino al borghetto, ci entro e lo voglio vedere. C’era sempre qui, passando sotto la loggia della casa sostenuta dalla colonna, da saltare tra una pozza di piscio e un mucchio di strame. Ora è tutto pulito, ordinato. Le belle case… in ristrutturazione perenne… scendo… ecco la mulattiera. Un giovane con pettinatura rasta, che dal giardino mi aveva visto mentre parlava al cellulare, mi si fa incontro affacciandosi al vicolo, e saluta con cortesia, sorpreso forse di trovare questo anziano che gli dice “stavo cercando la vecchia mulatteria…” E’ garbato, sorride, mi dice eh, la cercano, e la indica ancora una casa più sotto. La cercano, i viandanti, i cercatori di tempi passati, di vie un tempo percorse. Cercare la via, è sempre stata una prerogativa della montagna. “Vado bene di qua per…?” Quante volte l’ho fatta questa mulattiera, praticamente sopra ci ho iniziato a camminare, e poi in tutta fretta per arrivare chissà dove, in alto, guardando l’orologio più del Coniglio Bianco, in ritardo terribile!? Il record tra noi l’aveva fatto il Borrini con mio fratello, più grandi di anni decisivi, dalla piazza nove minuti e mezzo, praticamente di corsa. Io arrivavo comodamente in quindici, i parenti, il nonno, contavano mezz’ora. Ma i miei pochi minuti di oggi, per tornare in tempo per cena, ora sono scaduti e allora, ritrovata la coordinata, eccomi sulla vecchia mulattiera, per il ritorno. Fotografo ancora la casa del cacio (il nonno ogni volta ci diceva, lo vedi là in lato a sinistra il cacio bianco, infilato nel buco ad asciugare? E invece era una pietra), il muretto da cui si sporge un susino (ne prendo una anche se è ancora dura come sasso) e il pascolo sotto, la curva che porta fino al crotto.
E come si cammina bene sulla vecchia mulattiera! Sembra una
via di santi, leggera, pareggiata, senza inciampi, ammorbidita da una coltre
compatta di foglie di faggio, come un tappeto, in leggera discesa e piccole
salite, che si superano con lo slancio del passo e del fiato. Quanto mi sono
esercitato nella camminata perfetta su questi sentieri, percorsi dagli animali,
larghi, ben battuti e con le pietre lisciate. Riconoscevo ogni passo a memoria;
ora non più, riconosco a fatica l’ambiente e un pressappoco, una sensazione
nascosta si affaccia, intorpidita… chissà, restassi qua un mese, trovassi i
miei vecchi scarponi e i calzerotti di lana…l'odore dell'autunno incipiente e dei funghi...
Ma dopo il crotto ecco che il vecchio sentiero s’addentra in
un intrico di arbusti, è un bivio non bivio, è il punto in cui o ci si butta
nel selvatico,a destra, o si rinuncia e si torna alla strada delle macchine, e io che non
ho mai tempo devo seguire il nuovo tracciato che mi riporta alla strada.
L'asfaltata non è fatta per camminare, per entrare nel paesaggio, non è fatta per gli animali ma per i mezzi, possibilmente pesanti, da lavoro. Questo percorso non è più nostro, è delle macchine che ci portano prigionieri, per prendere la nostra ora d’aria e riconsegnarci alla cella. Il mondo scivola dietro uno schermo, un finestrino. Un tempo la mulattiera era silenziosa ma viva, scrocchiavano le foglie e i legnetti, si saltava di qua e di là, a schivare le cacche di mulo, c’erano tracce di ogni tipo di passaggio e si facevano incontri frequenti. Ancora i muli portavano fornelli, bombole del gas, qualsiasi cosa agli alpeggi, perché d’estate i pastori si trasferivano con famiglia e galline ai pascoli alti, a Baranca, a fare burro e formaggi.
La Via a quei tempi nessuno la cercava, era quella, una per
tutti, ciascuno alla sua andatura e con la sua meta ben in testa. Namasté, ci
si diceva allegri incrociandosi, saluto il viandante che è in te, che poi nella
lingua di valle si pronunciava Bundì ‘ndua't’vei?, dove vai, chiedendo la meta, per
scambiare due parole fermandosi poco distanti, tracciare una mappa di
relazioni e protezioni.
Oggi la via bisogna cercarla. Ce n’è tante, ognuno cerca la sua, e non è così chiara, così ben battuta come le ho trovate ancora in Nepal. Quelle sono ancora strade vere su cui tutto il giorno la gente cammina, sposta cose e animali, non ci sono altre vie. La via è una, diceva Eraclito, forse anche in questo senso, una per tutti, uguale. Ora anche se abbondano segni e segnali di tutti i tipi, a vernice, cartelli, mappe, satellitari e chissà che altro, ci sono biforcazioni ovunque, e chi capisce dov'è che si va è bravo. Anche il passo di conseguenza non è tanto agevole, elastico e allenato, ben tracciato, ha qualcosa di interrotto, deve fermarsi a leggere, a consultare, è disarmonioso, o semplicemente non si riconosce come passo-via, dico separato dalla via, impacciato di esitazioni e dubbi; per molti camminare non è uno sgorgare abbondante e indistinto, indifferenziato della vita, è impegno del singolo individuo, sofferenza e pena non condivisa. Bastoni, bacchette, borracce, abbigliamento tecnico, contapassi, integratori e disintegratori, tutori... fino a due tre gnerazioni fa passavano scufui, pedule zoccoli. Eppure nella vecchia mulattiera ogni passo era un passo di danza, un saltello, una piccola variazione, le storte si evitavano assorbendo il peso con un colpo di reni. Era il ritmo di un canto che non si fermava. Il nonno mi aveva insegnato poi, per far saliva, a mettere un sassolino in bocca e ciucciarlo.
Il nonno … tutti i montanari erano così, taciturni, immersi nel vuoto mentale, molto più vicini a monaci zen che a noi, le teste invase dai mille aggeggi bippanti. Loro i vecchi, sono ancora là, dove se ne sono andati, ne sono convinto, noi invece non so proprio dove andremo a finire, smarriti, ritrovati.