Ho un amico, qui vicino,
si chiama Paolo (io lo farei santo), abita un podere sulla strada di Pian di Soia, nell’Appennino
di là dal colle, verso la Romagna. Ieri è venuto per guardare le api, e mi ha
portato una canestra di prodotti tardivi dell’orto, pomodori, melanzane,
susine, mele. Uno strano miscuglio dovuto all’altezza - sta credo tra i 700 e
gli 800 metri - e alla strana stagione di quest’anno, per cui certi prodotti
estivi si mescolano ai primi dell’autunno (noi agricoli lo ricorderemo come l’anno
dei pomodori). Lui mescola, fa un po’ permacultura, un po’ biodinamico, un po’
tradizionale – dove la tradizione è buona. Vende i suoi prodotti nei mercatini
e stenta a campare, come tutti coloro che campano del lavoro delle proprie mani
(metafora: ha anche un trattore e attrezzi vari). Anche lui profugo (=uomo in fuga) sradicatosi dalla pianura e ripiantatosi in una valle abbandonata.
Le mele che mi ha portato sono quelle che non può vendere,
perché bacate, segnate dalla grandine, ammaccate e mangiucchiate dagli uccelli.
Le mangia lui, le mangio io. Sono mele toste, si vede a colpo d’occhio. Hanno la buccia
dura e coriacea come pelle, e la polpa tenace anche quando è matura, fatta per
resistere sulla pianta. Pesano un sacco. Hanno passato tutta l’estate
all’aperto, sotto l’acqua, il vento, aggredite dal sole. Non mi dispiace che
abbiano quest’aspetto vissuto, mi sembrano più vere.
La prima che ho assaggiato mi ha strappato un grido “una
Boskop!”, che è la varietà che compravo vent’anni fa Berlino, nel Kaiser’s
sotto casa, a Kotti, una scoperta tedesca, in Italia non c’erano (forse
nell’ex-Tirolo?) Mele che quattro fanno un chilo, aspre e dolci, dure come sassi. Da
quanto non le mangiavo. Le altre sono di altre varietà, ma tutte affini e speciali,
raccolte negli anni da cultivar antiche del luogo e più in là, portate da
Annette, la sua donna, dalla Germania, trovate e piaciute, come si dice. Paolo
è molto contento, anche quest’anno gli alberi hanno fruttato bene: una pianta
sessanta chili – e quando le vado a vendere spariscono subito, le vogliono tutti,
dice. Anche se il prezzo è maggiore di quelle dell’ortolano, certo. Non c’è possibilità d'errore, non c'è concorrenza.
Ogni giorno ne mangio un paio. Per mondarle devo
tagliarle a spicchi, poi col coltello a punta ritaglio i buchi, elimino il
marcio – ma la polpa è intatta, sembra inossidabile (ma lo è). Il sapore fresco
e frizzante. Rafforzano le gengive, queste mele. E risintonizzano anche l’animo
(all’anima non sono proprio sicuro di crederci) con la stagione, la terra, gli
alberi. Gli scarti si buttano nel prato, senza curarsi di differenziare. Ci
penseranno altri abitanti di questa terra.
Naturalmente simili mele mi rimettono pure in contatto con
le mele della mia infanzia, e passo a volo sui dettagli della storia famigliare, degli
ultimi alberi da frutta nel paesino dei nonni, delle mele grinzose conservate fino
a Natale nelle lettiere chiuse nelle
stanze fredde. Il mio occhio corre ancora più in là, invece, e arriva a Cezanne. Non sono parecchio simili a queste,
le sue mele? Ed ecco che vi rigiro una bella domanda: come possiamo pretendere di capire le mele di Cezanne se
non le abbiamo nemmeno mai mangiate? Come possiamo capire cos’è qualunque cosa - una pipa - se l’abbiamo
vista solo in effigie? Non riduciamo proprio tutto a esercizio di stile, non mi
sembra il caso. Per miopia nostra faremmo un torto all'artista (Cezanne si dannava per le sue mele, come per la sua montagna, la Sainte Victoire - ci sono dovuto passare sotto per capire perché). Chiediamoci la vita dove sta, allora. Secondo me infatti per
Cezanne, come per Caravaggio e tutti gli altri pittori che non avevano altra
raffigurazione che le loro (no photos, no film, per farla breve neanche i frigoriferi solo esperienza) quelle mele
erano ben altro, come tutta la natura ritratta un tempo, rimandava direttamente alla parte viva (morta
solo sulla tela, pensiamo a come puzzavano le città del Seicento – e nei quadri
non ce n’è traccia) della disposizione della cucina (le mele non uscivano dal bancofrigo del super, ma riposavano maturando o marcendo, cosa altrettanto naturale,
visto che tutto faceva il suo corso), in cantina, e poi su una fruttiera. Proprio come le
mie. Un altro mondo di colori, sapori, odori. Per non parlare della luce (bella questa delle mie, col ritocco potrebbe diventare anche rembrandtiana), senza
altro artificio che sole, candele e fiaccole. Lo so, sono uno snob, un dandy
privilegiato (ci sono delle luci qui fuori, nel cielo, che il cittadino non se
le immagina nemmeno impasticcandosi, o peggio se le rincorre sui salvaschermi di
flickr-tumblr-pinterest-ecc: qualche giorno fa mi sono fatto un giro, che
palle questi fotografi della natura spettacolo, che colgono ogni palpito
spettacolare degli antipodi) ("purché sia lontano da te, dal mondo dove sei!", sembra essere l'unico requisito sempre richiesto). Perché, mi chiedo, si ritrae la natura quanto più ci si ritrae da essa? Bene, chi ora dipinge (o fotografa) le mele, che intenzione
ha? Che intenzioni aveva un tempo? E io? Nel mio piccolo, quella di mostrarvi una
delle meraviglie di questo mondo qui, ma proprio quiqui, quello dimenticato di tutti i giorni, la
frutta (che senza argomentare oso chiamare) vera. Prima di mangiarmela e buonanotte ai suonatori, lasciarvi segno e memoria di ciò che è stato, che è passato senza tanto clamore (ma chi mi ispira, chi è il mio demone, direbbe Socrate?) Potrei sprecare pagine e pagine per cercare di precisare, non ci tengo (rovinerei tutto). È la stessa differenza che passa tra un bicchiere di vino bevuto in
un locale di città e lo stesso vino bevuto su una terrazza al sole, quiqui, per
esempio. Le sue molecole si mescolano con quelle di un’aria diversa,
l’ossigenazione del vino e dei miei polmoni è diversa, i miei neuroni subiscono
stimoli totalmente diversi (più inclini alla felicità). Basta, il vino è più
buono, e le mele tornano a essere mele, chi lo capisce buon per lui, chi no amen.
Ma: se le mangio torno vero anch’io? Già il fatto di chiedermelo
mi fa sperare - o m'illude? Sarà una magia di contatto? Il frutto è un dono offerto
dalla pianta, non è ucciosione, né prelievo e saccheggio, ce lo siamo dimenticati tutti? È la mela, allora, che mi dà
consapevolezza di dove sia il Paradiso? Questo è il succo (scusate la metafora)
di una delle illuminazioni del buddha, e forse questa è anche l’illuminazione
dei fruttariani. E questi ultimi, forse non sono soltanto quelli che “non
mangiano altro che frutta”, forse alcuni di loro sono anche quelli che “amano mangiare la
frutta” (distinguo perché oggi la frutta, si sa, la mangiano quasi soltanto i salutisti – e se
la fanno piacere come all’intossicato piace la tossina, al medicato la medicina); forse alcuni ne restano illuminati.
Illuminati dalla frutta, perché no? Non risplende in queste foto come un pianeta? Che malus c'è? (questa è una citazione di Menegh...). Dio frutta, dio Mela! (esistesse, non si offenderebbe, l'ha fatta lui, e gli è senza dubbio venuta meglio di noi). Non potrebbe annidarsi qui un riflesso residuo del divino, scomparso e radiato dal mondo di cui ci siamo impossessati? Il dio ama nascondersi, diceva Eracl... Insomma, qualcuno oserebbe ancora negare che siamo stati noi, a scacciare Dio dal Paradiso? (Perdonate, sto elaborando La scuola cattolica di Albinati).
Oppure, più semplicemente guardiamo (visto che non riusciamo più a esserlo, noi scissi per sempre) gli animali: adorano mangiare la frutta, e non fanno gli schifiltosi se è ammaccata. È una provocazione tutto questo? Può darsi, ma nessuno vorrà dare per scontato che tutti i vegani siano come lo chef di Crozza, no? (devo per forza aggiungere che non sono vegano?).
Ah, devo un grazie anche a un altro Paolo, Faccioli, "fare" con lui il suo libro (Dall'altra parte dell'affumicatore) mi ha portato un piccolo passo più in là - di dove o verso dove, chi lo sa. Intanto, per ritornare all'inizio, voi godetevi lo splendore di queste mele, io mele mangio, e ciao.
Illuminati dalla frutta, perché no? Non risplende in queste foto come un pianeta? Che malus c'è? (questa è una citazione di Menegh...). Dio frutta, dio Mela! (esistesse, non si offenderebbe, l'ha fatta lui, e gli è senza dubbio venuta meglio di noi). Non potrebbe annidarsi qui un riflesso residuo del divino, scomparso e radiato dal mondo di cui ci siamo impossessati? Il dio ama nascondersi, diceva Eracl... Insomma, qualcuno oserebbe ancora negare che siamo stati noi, a scacciare Dio dal Paradiso? (Perdonate, sto elaborando La scuola cattolica di Albinati).
Oppure, più semplicemente guardiamo (visto che non riusciamo più a esserlo, noi scissi per sempre) gli animali: adorano mangiare la frutta, e non fanno gli schifiltosi se è ammaccata. È una provocazione tutto questo? Può darsi, ma nessuno vorrà dare per scontato che tutti i vegani siano come lo chef di Crozza, no? (devo per forza aggiungere che non sono vegano?).
Ah, devo un grazie anche a un altro Paolo, Faccioli, "fare" con lui il suo libro (Dall'altra parte dell'affumicatore) mi ha portato un piccolo passo più in là - di dove o verso dove, chi lo sa. Intanto, per ritornare all'inizio, voi godetevi lo splendore di queste mele, io mele mangio, e ciao.
Montaonda, 21 settembre (ritoccato il 4ottobre)