giovedì 29 settembre 2016

Le mele di Cezanne (quater pomm): il confine visibile


Ho un amico, qui vicino, si chiama Paolo (io lo farei santo), abita un podere sulla strada di Pian di Soia, nell’Appennino di là dal colle, verso la Romagna. Ieri è venuto per guardare le api, e mi ha portato una canestra di prodotti tardivi dell’orto, pomodori, melanzane, susine, mele. Uno strano miscuglio dovuto all’altezza - sta credo tra i 700 e gli 800 metri - e alla strana stagione di quest’anno, per cui certi prodotti estivi si mescolano ai primi dell’autunno (noi agricoli lo ricorderemo come l’anno dei pomodori). Lui mescola, fa un po’ permacultura, un po’ biodinamico, un po’ tradizionale – dove la tradizione è buona. Vende i suoi prodotti nei mercatini e stenta a campare, come tutti coloro che campano del lavoro delle proprie mani (metafora: ha anche un trattore e attrezzi vari). Anche lui profugo (=uomo in fuga) sradicatosi dalla pianura e ripiantatosi in una valle abbandonata.
Le mele che mi ha portato sono quelle che non può vendere, perché bacate, segnate dalla grandine, ammaccate e mangiucchiate dagli uccelli. Le mangia lui, le mangio io. Sono mele toste, si vede a colpo d’occhio. Hanno la buccia dura e coriacea come pelle, e la polpa tenace anche quando è matura, fatta per resistere sulla pianta. Pesano un sacco. Hanno passato tutta l’estate all’aperto, sotto l’acqua, il vento, aggredite dal sole. Non mi dispiace che abbiano quest’aspetto vissuto, mi sembrano più vere.


La prima che ho assaggiato mi ha strappato un grido “una Boskop!”, che è la varietà che compravo vent’anni fa Berlino, nel Kaiser’s sotto casa, a Kotti, una scoperta tedesca, in Italia non c’erano (forse nell’ex-Tirolo?) Mele che quattro fanno un chilo, aspre e dolci, dure come sassi. Da quanto non le mangiavo. Le altre sono di altre varietà, ma tutte affini e speciali, raccolte negli anni da cultivar antiche del luogo e più in là, portate da Annette, la sua donna, dalla Germania, trovate e piaciute, come si dice. Paolo è molto contento, anche quest’anno gli alberi hanno fruttato bene: una pianta sessanta chili – e quando le vado a vendere spariscono subito, le vogliono tutti, dice. Anche se il prezzo è maggiore di quelle dell’ortolano, certo. Non c’è possibilità d'errore, non c'è concorrenza.


Ogni giorno ne mangio un paio. Per mondarle devo tagliarle a spicchi, poi col coltello a punta ritaglio i buchi, elimino il marcio – ma la polpa è intatta, sembra inossidabile (ma lo è). Il sapore fresco e frizzante. Rafforzano le gengive, queste mele. E risintonizzano anche l’animo (all’anima non sono proprio sicuro di crederci) con la stagione, la terra, gli alberi. Gli scarti si buttano nel prato, senza curarsi di differenziare. Ci penseranno altri abitanti di questa terra.
Naturalmente simili mele mi rimettono pure in contatto con le mele della mia infanzia, e passo a volo sui dettagli della storia famigliare, degli ultimi alberi da frutta nel paesino dei nonni, delle mele grinzose conservate fino a Natale nelle lettiere chiuse nelle stanze fredde. Il mio occhio corre ancora più in là, invece, e arriva a Cezanne. Non sono parecchio simili a queste, le sue mele? Ed ecco che vi rigiro una bella domanda: come possiamo pretendere di capire le mele di Cezanne se non le abbiamo nemmeno mai mangiate? Come possiamo capire cos’è qualunque cosa - una pipa - se l’abbiamo vista solo in effigie? Non riduciamo proprio tutto a esercizio di stile, non mi sembra il caso. Per miopia nostra faremmo un torto all'artista (Cezanne si dannava per le sue mele, come per la sua montagna, la Sainte Victoire - ci sono dovuto passare sotto per capire perché). Chiediamoci la vita dove sta, allora. Secondo me infatti per Cezanne, come per Caravaggio e tutti gli altri pittori che non avevano altra raffigurazione che le loro (no photos, no film, per farla breve neanche i frigoriferi solo esperienza) quelle mele erano ben altro, come tutta la natura ritratta un tempo, rimandava direttamente alla parte viva (morta solo sulla tela, pensiamo a come puzzavano le città del Seicento – e nei quadri non ce n’è traccia) della disposizione della cucina (le mele non uscivano dal bancofrigo del super, ma riposavano maturando o marcendo, cosa altrettanto naturale, visto che tutto faceva il suo corso), in cantina, e poi su una fruttiera. Proprio come le mie. Un altro mondo di colori, sapori, odori. Per non parlare della luce (bella questa delle mie, col ritocco potrebbe diventare anche rembrandtiana), senza altro artificio che sole, candele e fiaccole. Lo so, sono uno snob, un dandy privilegiato (ci sono delle luci qui fuori, nel cielo, che il cittadino non se le immagina nemmeno impasticcandosi, o peggio se le rincorre sui salvaschermi di flickr-tumblr-pinterest-ecc: qualche giorno fa mi sono fatto un giro, che palle questi fotografi della natura spettacolo, che colgono ogni palpito spettacolare degli antipodi) ("purché sia lontano da te, dal mondo dove sei!", sembra essere l'unico requisito sempre richiesto). Perché, mi chiedo, si ritrae la natura quanto più ci si ritrae da essa? Bene, chi ora dipinge (o fotografa) le mele, che intenzione ha? Che intenzioni aveva un tempo? E io? Nel mio piccolo, quella di mostrarvi una delle meraviglie di questo mondo qui, ma proprio quiqui, quello dimenticato di tutti i giorni, la frutta  (che senza argomentare oso chiamare) vera. Prima di mangiarmela e buonanotte ai suonatori, lasciarvi segno e memoria di ciò che è stato, che è passato senza tanto clamore (ma chi mi ispira, chi è il mio demone, direbbe Socrate?) Potrei sprecare pagine e pagine per cercare di precisare, non ci tengo (rovinerei tutto). È la stessa differenza che passa tra un bicchiere di vino bevuto in un locale di città e lo stesso vino bevuto su una terrazza al sole, quiqui, per esempio. Le sue molecole si mescolano con quelle di un’aria diversa, l’ossigenazione del vino e dei miei polmoni è diversa, i miei neuroni subiscono stimoli totalmente diversi (più inclini alla felicità). Basta, il vino è più buono, e le mele tornano a essere mele, chi lo capisce buon per lui, chi no amen.


Ma: se le mangio torno vero anch’io? Già il fatto di chiedermelo mi fa sperare - o m'illude? Sarà una magia di contatto? Il frutto è un dono offerto dalla pianta, non è ucciosione, né prelievo e saccheggio, ce lo siamo dimenticati tutti? È la mela, allora, che mi dà consapevolezza di dove sia il Paradiso? Questo è il succo (scusate la metafora) di una delle illuminazioni del buddha, e forse questa è anche l’illuminazione dei fruttariani. E questi ultimi, forse non sono soltanto quelli che “non mangiano altro che frutta”, forse alcuni di loro sono anche quelli che “amano mangiare la frutta” (distinguo perché oggi la frutta, si sa, la mangiano quasi soltanto i salutisti – e se la fanno piacere come all’intossicato piace la tossina, al medicato la medicina); forse alcuni ne restano illuminati.
Illuminati dalla frutta, perché no? Non risplende in queste foto come un pianeta? Che malus c'è? (questa è una citazione di Menegh...). Dio frutta, dio Mela! (esistesse, non si offenderebbe, l'ha fatta lui, e gli è senza dubbio venuta meglio di noi). Non potrebbe annidarsi qui un riflesso residuo del divino, scomparso e radiato dal mondo di cui ci siamo impossessati? Il dio ama nascondersi, diceva Eracl... Insomma, qualcuno oserebbe ancora negare che siamo stati noi, a scacciare Dio dal Paradiso? (Perdonate, sto elaborando La scuola cattolica di Albinati).
Oppure, più semplicemente guardiamo (visto che non riusciamo più a esserlo, noi scissi per sempre) gli animali: adorano mangiare la frutta, e non fanno gli schifiltosi se è ammaccata. È una provocazione tutto questo? Può darsi, ma nessuno vorrà dare per scontato che tutti i vegani siano come lo chef di Crozza, no? (devo per forza aggiungere che non sono vegano?).
Ah, devo un grazie anche a un altro Paolo, Faccioli, "fare" con lui il suo libro (Dall'altra parte dell'affumicatore) mi ha portato un piccolo passo più in là - di dove o verso dove, chi lo sa. Intanto, per ritornare all'inizio, voi godetevi lo splendore di queste mele, io mele mangio, e ciao.
Montaonda, 21 settembre (ritoccato il 4ottobre)

venerdì 16 settembre 2016

Brumania: qui si generano le nuvole (Intervallo)


Ieri e stamattina ha piovuto, per la prima volta in maniera consistente, a terminare l'estate. C'erano ancora 30 gradi, oggi di meno (ma non so bene, sono inchiodato dal lavoro al computer e le foto le ho scattate dalla finestra).
Tutto procede, come sempre troppo impegnato rispetto al mio progetto originario (vivere in contemplazione?) - la messa online del nuovo sito e il lancio del nuovo libro (link qui), dell'amico apicoltore Paolo Faccioli, che mi sta particolarmente a cuore perché coniuga due aspetti (tra i tanti) non facilmente conciliabili della mia vita, il rispetto per gli altri esseri viventi e l'apicoltura, che si basa comunque sul prelievo del lavoro altrui (ma di questo parla appunto il libro).
Brumei, potrebbe anche essere il nuovo nome orientalizzante di Montaonda. Dall'arsura di un'estate arida e bollente ecco che si precipita verso gli umidori dell'inverno. Hainoi, è come cercare di cavalcare i cavalloni marini... Ho ancora nella pelle la sensazione degli ultimi bagni nel mio lago preferito, tra le Alpi, e qui bisogna ancora finire di pulire le gronde, decespugliare, tagliare la legna (la motosega è in clinica). Ieri ho acceso il caminetto, e ogni giorno mangiamo gli ultimi spettacolari pomodori degli amici, gli abbondanti e spericolati fichi Settembrini (mauiscola in onore a Thomas Mann e Lukacs, naturalmente).

Siamo qui, nel mezzo, alla finestra, tra cipresso verde (ieri era marrone, d'ora in poi lo chiamerò ramaleonte) e nuvole, un metaxù molto amato ma piombato un po' tra capo e collo, a inventare questo intermezzo tra un post e l'altro, tra un libro e l'altro (una giornata, un mese, un anno e tutti gli altri).