È un po’ di tempo che ogni tanto mi chiedo: ma esistono
ancora degli eremiti, veri eremiti moderni, come Thoreau, gente che disgustata per un motivo o per l’altro decide di
levarsi di torno – e isolandosi dalla mala genia ricercare solitudine, sì, via dai
propri simili, ma a contatto con un ambiente più vasto, popoli non umani e non
solo animali?
Mi chiedo così perché qui a MO sono un po’ al limite, a
giorni mi sporgo verso questo mondo possibile, dove non entra la società (tolte le incursioni dei cacciatori, senza
ruote in quella che diventa una barriera non architettonica ma naturale – la
natura vive imponendo barriere, mentre la ruota favorisce sia il curioso che si fa il giro in macchina sia il
motocrossista che con la wilderness cerca il contatto fangoso – nel tramite del suo
tecnologico destriero puzzurlante).
In altri bollettini ho accennato ad alcuni casi sentiti
raccontare qui in valle (era valle di romitori, come tutte le valli rocciose e
vicine a rotte di passaggio), e negli anni ho conosciuto alcune persone con
questa tendenza. Io stesso per lunghi periodi cerco la solitudine. Ma c’è chi
lo fa con più determinazione, e coltivando orti e allevando animali raggiunge la
quasi totale autosufficienza.
Sono persone che, tra l’altro, perdono l’abitudine (potremmo
quasi chiamarla vizio, cambiando le prospettive) di lavarsi e ripulirsi
(le norme dell’igiene, i criteri per decidere cosa sia pulito e cosa sporco, cosa decente e cosa indecente, da
anni sono per me oggetto di discussioni e verifiche), che spesso e
volentieri stanno a piedi nudi, o mangiano con le mani. Certo, tanti lo fanno
per vizio – allure – per snobismo, come certe capigliature,
più un segno di cocotteria,
desiderio, urbanità piuttosto che wilderness (penso ai litri di shampoo che irrorano i bei torrenti di montagna).
Bene, questi eremiti moderni, che fanno tutto il tempo?
Pregano e adorano il signore (chiunque esso sia), il creato (quello che ne è
rimasto), si disfano con droghe narcotiche, più o meno liquide? Ciascuno è
libero di fare di sé ciò che vuole, se non fa danno agli altri (in senso
esteso).
Personalmente, fin da ragazzo, ho sempre ricercato
l’epifania dell’essere (se posso abusare di questo termine), quei momenti
estatici (in senso fachinelliano,
per chi ne rammenta gli scritti ai tempi quasi sperimentali) e un po’ dostoevskiani in cui la vita si mostra
nuda (qualche santo ignudo salta sempre fuori, ma santo in senso orientale,
mica cristiano) in tutta la sua fragile fragranza. Da ragazzino poteva essere
qualunque cosa (e non voglio recuperare le estetiche pascoliane, proustiane o benjaminiane, solo ricordare
l’immediatezza dell’esperienza ingenua),
dall’appartarsi con la ragazza al beccarsi un temporale indicibile senza
la possibilità di proteggersi (tutte quelle cose di cui ormai sono pieni
soltanto pubblicità e film (visto ieri sera Hunger Games), perché l’esperienza corporea spesso e volentieri ormai
la sublimiamo in evento proiettivo, o guidato da un qualche santone -istruttore
che smorzi per noi le punte acuminate – ma proprio lì sta, baudelaireanamente, il dolce veleno,
che è il succo stesso della vita). Non voglio né potrei dire che i sensi devono
guidarci a vivere la vita (l’unica volta che sono salito su una gru per fare
bungee-jumping sono stato quello che è tornato giù senza lanciarsi). Anzi anzi.
Socraticamente mi sono sempre rifiutato di farmi le pere (come si diceva ai
miei tempi) ovvero di buttarmi a corpo morto dentro a qualcosa di più grande di
me, salvato da qualche trick–device (come un paracadute). La morte? Non ho
fretta, posso aspettare. Nel frattempo non mi sono annoiato (solo un po’, per snobismo), molto
non l’ho fatto, ma non credo che si
debba fare tutti tutto.
E invece ho voluto provare l’esperienza di un certo grado di
anacoretismo. Di distacco, di rallentamento ed esposizione a ritmi e tempi non
umani. In questi anni, pur non trascorsi nella foresta amazzonica ma con
corrente elettrica e quant’altro per permettermi di vivere confortevolmente, ho avuto accesso al mondo misterioso e
segreto. Quello che il più della gente non conosce: per esempio, appena mi chiudo la porta di casa alle spalle ho accesso al bosco di
notte – che non sia il campeggio -, agli incontri con i selvatici, ai continui
(e spesso umidi) tuffi dentro alle stagioni, con i loro rivolgimenti. Quella quotidianità vera
del mondo, e non prestrutturata da un’agenda e altri materiali devices (devianti?). E questa vita che vedo, che non è
solo mia, non è umana, e pure e altrettanto è vita, e forse lo è ancora di più,
perché avviene, senza interrogarsi sulla propria legittimità, liceità,
finitezza, è affascinante (invece io mi sono sempre fatto un sacco di menate).
Mi sono accostato alle scienze naturali – cercando però un approccio scalzo, se si
usa questo termine per dire non da scienziato, ma da chi ci sta in mezzo – e allontanato un po’ da quelle
umane (che erano e restano la mia formazione), al punto che ora le vedo con
molto scetticismo (in ambito filosofico Marchesini parla di posthuman), come se fossi un selvatico che osserva l’insensato grumo di
un paese, dall’alto osservatorio di una radura, del limine di un bosco.
Eppure, piccolo principino Kaspar Hauser alla rovescia, dico ancora noi, vado in giro con vestiti
e con occhiali, andiamo piegati e gobbi dentro a scatole (a proposito: mesi fa
a “La cena di Pitagora” ho conosciuto Loredana, la grafica romana che
ha fatto la mitica copertina di Papalagi,
per me il millelire più profondo – ne compravo dieci per volta e lo regalavo…), grassi
e malati, sfatti e disfacenti. E scopro,
poiché mi piace restare in contatto con questi due mondi che stridono e fanno
scintille, da una parte e dall’altra, e si combattono ora come non mai (la
natura, e se vogliamo darle un nome sarà Gaia,
sta tirando fuori artigli più adatti al gioco, perché l’uomo negli ultimi
decenni ha alzato molto la posta), che
se dalla nostra parte tutto è sempre più complesso e difficile e faticoso,
maledetto e infelice, dall’altro lato resta la leggerezza essenziale
dell’organico, la capacità dei non umani di trovare soluzioni e scappatoie, in
silenzio, esperti di milioni di anni. Un frullo, un fruscio, un battito.
Ho appena terminato di leggere “Il paradiso degli animali” di Cassola, che negli anni ’70 immaginava
l’estinzione dell’uomo e il sopravvento degli animali (precorritore del postumanesimo, ironizza della nostra capacità di animali che non trovano di meglio che ripercorrere i nostri errori). Per sopravvivere,
guidati da gatti e cani, gli animali diventano vegetariani, e smettono di
ammazzarsi, in nome di una comune fratellanza – ma anche per sopravvivere alla penuria di cibo. Un libro
curioso, forse un po’ pesante, ma mi porta a riflettere su come, già allora,
quando io ero neanche ragazzo, chi voleva poteva vedere. Da sempre, chi voleva
poteva vedere. Ma per vedere sono convinto, in qualche maniera bisogna isolarsi, togliere di mezzo le chiacchiere
spiazzanti. Non è cosa che si possa fare così, impunemente, senza cadere
nell’autocrazia, nella follia o nel ridicolo.
Ebbene, questi eremiti moderni, credo possano avere uno
sguardo più chiaro e limpido, una pace forse conflittuale e sanguigna, ma molto
più profonda di quella che a prima vista al socializzato appare. Forse dovremmo
cominciare a venerarli, in qualche modo, e se non perché qualcosa hanno trovato (nulla si trova più),
perché sono diventati figure autentiche (togli oggi e togli domani…) a cui
possiamo guardare, con interesse e curiosità; ora che abbiamo scoperto che il
nostro mondo era una truffa, che ci hanno e ci siamo ingannati, perché le
nostre illusioni erano colpevoli di complicità con la pigrizia e il malaffare, ora che sappiamo che
nulla si può umanamente raddrizzare. L'espiazione - se esiste - è una
conquista personale, non trasmissibile se non sottoponendosi a una dura scuola,
al rigore dei monasteri, alle pratiche di esclusione e ascesi.
Chiaramente davanti a questo nuovo tempio io sto con solo appoggiato il piede sul primo
gradino, sto ancora del tutto per terra e non so se troverò mai la forza di innalzarmi… ma
guardando avanti, questa lunga scalinata, vedo che purificarsi è possibile,
e naturalmente, ma costa carissimo (e non di denaro), non garantisce successo
(anzi lo elimina), e serve soltanto a chiudere il cerchio che abbiamo infranto,
a riportare tutto a zero.
Aummm… (che poi sarebbe OM, che poi è MO a rovescio…)
Insomma la mia proposta sarebbe istituire un premio “eremita
dell’anno”, che si risolve in una cena sociale (ciascuno paga per sé) in cui
tutti zitti si ascolta lui, il vincitore, e quello che ha da dire - o il suo silenzio. Ora, se
Nanni prendesse davvero in gestione il ristorante da Silvano, corro a
proporglielo…
p.s. foto - La mantide pregava in una delle ultime giornate di sole sul davanzale, mentre di là dal vetro io traducevo il terzo libro di Padre Adam (il più grande apicoltore dell'età moderna). Le 3 foglie di costa (peso: 3 etti e passa cadauna) me le ha portate il quasi-eremita Paolo; con una ci abbiamo pranzato in due, con le altre ho fatto una pasta al forno, che ho condiviso con amici.