giovedì 21 novembre 2013

Eremiti moderni




È un po’ di tempo che ogni tanto mi chiedo: ma esistono ancora degli eremiti, veri eremiti moderni, come Thoreau, gente che disgustata per un motivo o per l’altro decide di levarsi di torno – e isolandosi dalla mala genia ricercare solitudine, sì, via dai propri simili, ma a contatto con un ambiente più vasto, popoli non umani e non solo animali?
Mi chiedo così perché qui a MO sono un po’ al limite, a giorni mi sporgo verso questo mondo possibile, dove non entra la società (tolte le incursioni dei cacciatori, senza ruote in quella che diventa una barriera non architettonica ma naturale – la natura vive imponendo barriere, mentre la ruota  favorisce sia il curioso che si fa il giro in macchina sia il motocrossista che  con la wilderness cerca il contatto fangoso – nel tramite del suo tecnologico destriero puzzurlante).
In altri bollettini ho accennato ad alcuni casi sentiti raccontare qui in valle (era valle di romitori, come tutte le valli rocciose e vicine a rotte di passaggio), e negli anni ho conosciuto alcune persone con questa tendenza. Io stesso per lunghi periodi cerco la solitudine. Ma c’è chi lo fa con più determinazione, e coltivando orti e allevando animali raggiunge la quasi totale autosufficienza.
Sono persone che, tra l’altro, perdono l’abitudine (potremmo quasi chiamarla vizio, cambiando le prospettive) di lavarsi e ripulirsi (le norme dell’igiene, i criteri per decidere cosa sia pulito e cosa sporco, cosa decente e cosa indecente, da anni sono per me oggetto di discussioni e verifiche), che spesso e volentieri stanno a piedi nudi, o mangiano con le mani. Certo, tanti lo fanno per vizio – allure – per snobismo, come certe capigliature, più un segno di cocotteria, desiderio, urbanità piuttosto che wilderness (penso ai litri di shampoo che irrorano i bei torrenti di montagna).
Bene, questi eremiti moderni, che fanno tutto il tempo? Pregano e adorano il signore (chiunque esso sia), il creato (quello che ne è rimasto), si disfano con droghe narcotiche, più o meno liquide? Ciascuno è libero di fare di sé ciò che vuole, se non fa danno agli altri (in senso esteso).
Personalmente, fin da ragazzo,  ho sempre ricercato l’epifania dell’essere (se posso abusare di questo termine), quei momenti estatici (in senso fachinelliano, per chi ne rammenta gli scritti ai tempi quasi sperimentali) e un po’ dostoevskiani in cui la vita si mostra nuda (qualche santo ignudo salta sempre fuori, ma santo in senso orientale, mica cristiano) in tutta la sua fragile fragranza. Da ragazzino poteva essere qualunque cosa (e non voglio recuperare le estetiche pascoliane, proustiane o benjaminiane, solo ricordare l’immediatezza dell’esperienza ingenua),  dall’appartarsi con la ragazza al beccarsi un temporale indicibile senza la possibilità di proteggersi (tutte quelle cose di cui ormai sono pieni soltanto pubblicità e film (visto ieri sera Hunger Games), perché l’esperienza corporea spesso e volentieri ormai la sublimiamo in evento proiettivo, o guidato da un qualche santone -istruttore che smorzi per noi le punte acuminate – ma proprio lì sta, baudelaireanamente, il dolce veleno, che è il succo stesso della vita). Non voglio né potrei dire che i sensi devono guidarci a vivere la vita (l’unica volta che sono salito su una gru per fare bungee-jumping sono stato quello che è tornato giù senza lanciarsi). Anzi anzi. Socraticamente mi sono sempre rifiutato di farmi le pere (come si diceva ai miei tempi) ovvero di buttarmi a corpo morto dentro a qualcosa di più grande di me, salvato da qualche trick–device (come un paracadute). La morte? Non ho fretta, posso aspettare. Nel frattempo non mi sono annoiato (solo un po’, per snobismo), molto non l’ho fatto,  ma non credo che si debba fare tutti tutto.
E invece ho voluto provare l’esperienza di un certo grado di anacoretismo. Di distacco, di rallentamento ed esposizione a ritmi e tempi non umani. In questi anni, pur non trascorsi nella foresta amazzonica ma con corrente elettrica e quant’altro per permettermi di vivere confortevolmente, ho avuto accesso al mondo misterioso e segreto. Quello che il più della gente non conosce: per esempio, appena mi chiudo la porta di casa alle spalle ho accesso al bosco di notte – che non sia il campeggio -, agli incontri con i selvatici, ai continui (e spesso umidi) tuffi dentro alle stagioni, con i loro rivolgimenti. Quella quotidianità vera del mondo, e non prestrutturata da un’agenda e altri materiali devices (devianti?). E questa vita che vedo, che non è solo mia, non è umana, e pure e altrettanto è vita, e forse lo è ancora di più, perché avviene, senza interrogarsi sulla propria legittimità, liceità, finitezza, è affascinante (invece io mi sono sempre fatto un sacco di menate). Mi sono accostato alle scienze naturali – cercando però un approccio scalzo, se si usa questo termine per dire non da scienziato, ma da chi ci sta in mezzo  – e allontanato un po’ da quelle umane (che erano e restano la mia formazione), al punto che ora le vedo con molto scetticismo (in ambito filosofico Marchesini parla di posthuman), come se fossi un selvatico che osserva l’insensato grumo di un paese, dall’alto osservatorio di una radura, del limine di un bosco.
Eppure, piccolo principino Kaspar Hauser alla rovescia, dico ancora noi, vado in giro con vestiti e con occhiali, andiamo piegati e gobbi dentro a scatole (a proposito: mesi fa a “La cena di Pitagora ho conosciuto Loredana, la grafica romana che ha fatto la mitica copertina di Papalagi, per me il millelire più profondo – ne compravo dieci per volta e lo regalavo…), grassi e malati, sfatti e disfacenti.  E scopro, poiché mi piace restare in contatto con questi due mondi che stridono e fanno scintille, da una parte e dall’altra, e si combattono ora come non mai (la natura, e se vogliamo darle un nome sarà Gaia, sta tirando fuori artigli più adatti al gioco, perché l’uomo negli ultimi decenni ha alzato molto la posta),  che se dalla nostra parte tutto è sempre più complesso e difficile e faticoso, maledetto e infelice, dall’altro lato resta la leggerezza essenziale dell’organico, la capacità dei non umani di trovare soluzioni e scappatoie, in silenzio, esperti di milioni di anni. Un frullo, un fruscio, un battito.
Ho appena terminato di leggere  “Il paradiso degli animali” di Cassola, che negli anni ’70 immaginava l’estinzione dell’uomo e il sopravvento degli animali (precorritore del postumanesimo, ironizza della nostra capacità di animali che non trovano di meglio che ripercorrere i nostri errori). Per sopravvivere, guidati da gatti e cani, gli animali diventano vegetariani, e smettono di ammazzarsi, in nome di una comune fratellanza – ma anche per sopravvivere alla penuria di cibo. Un libro curioso, forse un po’ pesante, ma mi porta a riflettere su come, già allora, quando io ero neanche ragazzo, chi voleva poteva vedere. Da sempre, chi voleva poteva vedere. Ma per vedere sono convinto, in qualche maniera bisogna isolarsi, togliere di mezzo le chiacchiere spiazzanti. Non è cosa che si possa fare così, impunemente, senza cadere nell’autocrazia, nella follia o nel ridicolo. 
Ebbene, questi eremiti moderni, credo possano avere uno sguardo più chiaro e limpido, una pace forse conflittuale e sanguigna, ma molto più profonda di quella che a prima vista al socializzato appare. Forse dovremmo cominciare a venerarli, in qualche modo, e se non perché qualcosa hanno trovato (nulla si trova più), perché sono diventati figure autentiche (togli oggi e togli domani…) a cui possiamo guardare, con interesse e curiosità; ora che abbiamo scoperto che il nostro mondo era una truffa, che ci hanno e ci siamo ingannati, perché le nostre illusioni erano colpevoli di complicità con la pigrizia e il malaffare, ora che sappiamo che nulla si può umanamente raddrizzare. L'espiazione - se esiste - è una conquista personale, non trasmissibile se non sottoponendosi a una dura scuola, al rigore dei monasteri, alle pratiche di esclusione e ascesi.
Chiaramente davanti a questo nuovo tempio io sto con solo  appoggiato il piede sul primo gradino, sto ancora del tutto per terra e non so se troverò mai la forza di innalzarmi… ma guardando avanti, questa lunga scalinata, vedo che purificarsi è possibile, e naturalmente, ma costa carissimo (e non di denaro), non garantisce successo (anzi lo elimina), e serve soltanto a chiudere il cerchio che abbiamo infranto, a riportare tutto a zero.
Aummm… (che poi sarebbe OM, che poi è MO a rovescio…)



Insomma la mia proposta sarebbe istituire un premio “eremita dell’anno”, che si risolve in una cena sociale (ciascuno paga per sé) in cui tutti zitti si ascolta lui, il vincitore, e quello che ha da dire - o il suo silenzio. Ora, se Nanni prendesse davvero in gestione il ristorante da Silvano, corro a proporglielo… 

p.s. foto - La mantide pregava in una delle ultime giornate di sole sul davanzale, mentre di là dal vetro io traducevo il terzo libro di Padre Adam (il più grande apicoltore dell'età moderna). Le 3 foglie di costa (peso: 3 etti e passa cadauna) me le ha portate il quasi-eremita Paolo; con una ci abbiamo pranzato in due, con le altre ho fatto una pasta al forno, che ho condiviso con amici.

martedì 12 novembre 2013

Bollettino d'ombra


Anzi  (a distanza di una settimana ho riletto e corretto) meglio così: 

Bollettino di luce e di penombra

È successo verso mezzogiorno, dopo un mattinata di vento e pioggia furiosi è andata via la luce, prima una volta, per pochi minuti, poi a singhiozzo per un po' (estenuante, stavo lavorando su internet, e non avendo batterie tampone il mac ogni volta si spegneva), e poi definitivamente. Ho aspettato un minuto, cinque, ho capito che sarebbe andata per le lunghe. Un paio di volte è tornata ma per pochi istanti. Doveva essere caduto un ramo sulla linea, o la linea stessa, chissà quanto ci avrebbero messo a riparare. E quindi? Niente luce, niente computer, niente lavoro. Inattività forzata, vacanza. Va detto che faccio ancora parte di quella generazione un po' stakanovista che quando, per dire, c'era uno sciopero dei mezzi, o si bloccava la città per un guasto, a scuola ci arrivava a piedi, camminando magari un'ora, pur di non fare un'assenza: roba del secolo scorso. E ora che dovevo spedire a una rivista tre recensioni, quasi pronte, e non potevo? Ho iniziato a friggere - ma già una parte di me iniziava a rilassarsi, causa forza maggiore. Ho controllato  la termocucina, privata della pompa che fa girare l'acqua nei termosifoni, che non andasse in ebollizione, e mi sono messo a cucinare. Polenta e lenticchie, visto che l'inverno bussa alla porta, con le raffiche di pioggia finalmente fredda sospinte dal tramontano. Guardando verso occidente vedo gli scrosci d'acqua che si riversano sulla valle, come un'interminata tenda di tulle che si agita e lentamente vola nel cielo,  portata dal vento. Ho mangiato, e poi dormicchiato una mezz'ora, con un occhio aperto alla lampada sul comodino, sperando che la luce tornasse. Intanto dentro di me si allargava quella penombra uggiosa delle giornate cupe di novembre, quando sulle foglie ancora verdi si stende quella patina leggera di luce bianca opalescente, oleosa, e sembra di galleggiare in una laguna liquida (sarà che sono stato da poco a Venezia). Succede questo, quando manca la luce non si può più fare niente - di utile intendo. Fuori pioveva a dirotto, e non potevo ascoltare musica, scrivere al computer, guardare film o telefonare (anche il cellu era quasi scarico, bene mantenere la carica per le emergenze). Nessun contatto col mondo, solo pioggia e silenzio. In queste situazioni Montaonda diventa veramente isolata,  nessuno si avventurerebbe da queste parti, un eremo arroccato alla roccia, umida, scivolosa, battuta dai venti, a raffiche, percorsa da rivoli trasformati in torrenti. Una tana dove rincantucciarsi. Allora, contento comunque di starmene al caldo e protetto, mi sono messo in attesa (sempre per la questione del lavoro da concludere che premeva, mi secca terribilmente non rispettare i tempi), ho letto un po', sfogliando una rivista, e poi ho suonato il mandolino (sarebbe ora che imparassi per bene la melodia della mazurca dell'amante fantasma, pezzo trascinante e insieme sfuggente. E qui, poiché la le finestre del salottino sono finestre da topi, senza sole si fanno più piccole, ho sentito davvero salire la penombra, e per leggere lo spartito sono andato a prendere i primi lumini e un paio di candele (ne ho ancora la casa piena, ma non li uso mai). Decido di fare una foto. Mi alzo, vado a prendere la Nikon. Ho suonato ancora un po' (suonare in acustico non richiede elettricità, e pare un miracolo antico!), ma questa volta la chitarra folk, perché in uno scambio di mail con un collega (lo dico, e perché no? Marco Montemarano, che con il suo romanzo ha appena vinto il premio letterario Neri Pozza) abbiamo rievocato e scoperto la comune passione per John Fahey (un mito della chitarra acustica post-blues americana) e Davey Graham (un mito assoluto). Mi sono infilato le unghie di metallo e ho assaggiato le corde, come si dice, ma la chitarra ha il si e il cantino che si lamentano, devono essersi consumati i tasti, chissà se si può sistemare (e quando, soprattutto). E così mi sono fermato un po' a riflettere sul peso che ha qui e ora l'assenza della luce elettrica. Per il congelatore non mi preoccupo, ci sono solo dei fagioli cotti, sospesi nel loro brodo sembrano piccoli feti vegetali ibernati nel ghiaccio proveniente da un'epoca lontana - posso consumarli stasera o domani. Ormai il mio è un frigo quasi interamente vegano, resta una mezza bottiglietta di jogurt che per debolezza ho comprato settimana scorsa. Posso bermelo stasera, d'altro nulla rischia di andare a male. Anzi sorrido, perché so che tra poco, non appena la temperatura sarà scesa ancora di qualche grado, potrò spegnere il frigo fino a marzo - una liberazione, perché il suo ronzio, amplificato dal mobile che lo contiene, m'innervosisce (terrribilmente).
Riscopro - eccoci al punto - le ombre persistenti, quelle che non spariscono scacciate dalla luce elettrica, che quando gli punti addosso la pila fuggono soltanto in un altro lato della stanza, diventato più buio, ombre buzzatiane, avrei detto una volta. E mentre cala la sera - e sono solo le 16.30! - senza la difesa della luce elettrica, sento che prendono possesso di tutta la casa, anche della stanza dove sono, e agitano le fiammelle delle candele, mostrando tutta la precarietà della mia luce (potrei pure citare Moresco?). Che faccio? Guardo fuori dalla finestra a valle: a Cerreta, meno di un chilometro in linea d'aria, c'è una luce, anche a Imocasale, sulla provinciale. Casa di Toni è buia, ma forse lui e Daria non sono ancora tornati.
Allora esco, e provo gli interruttori del vicino (che non c'è), niente. Decido, visto che ormai sono fuori, con stivali e ombrello, visto che il vento si è un po' calmato e la pioggia non è troppo violenta, di fare due passi e andare a guardare il fiume. Perché stamattina è passato da qui Daniele, che aveva bisogno di scaricare dei file dell'assicurazione e rispedirli firmati, e mi ha stupito che lui, che abita queste valli da trent'anni e ha una jeep Nissan Terrano, una di quelle alte e grosse, non si sia fidato ad attraversare il guado del fosso di Casale, e sia venuto su a piedi.
Per strada vedo acqua che scende a doccia dappertutto, e  prima del ponte è caduto sulla strada un albero secco, con tanto di ceppo e zolla, che era da tempo pericolante, lo vedevo e dicevo ogni volta devo toglierlo. Domani prendo la motesega e lo levo di mezzo, che senza "non ci si fa" (questo è vernacolo toscano). Rami ce ne sono sparsi ovunque, e foglie, pigne di cipressi. Il fiume è grosso, davvero grosso, come non l'ho forse mai visto in sette anni. Colore del cappuccino, ribolle di schiuma, e si sentono i tonfi sordi dei sassi trascinati dalla corrente. Arrivo fino al guado e capisco perché Daniele si è fermato. Il rischio di essere trascinati via con l'auto è concreto, il fosso è un fiume in piena e ruggisce indemoniato, cerca di azzannare la passerella pedonale che gli passa sopra.
Ritorno, che comincia a far buio davvero.
E ora che faccio? Inizio a leggere un libro nuovo (ne ho tanti che mi aspettano sugli scaffali!); lo scelgo con voluttà, a Venezia, alla libreria Bertoni (calle dei Fabbri, dietro San Marco) ho trovato I mangia a poco, del mio amato Bernhard, che ancora non ho mai letto. Anzi, credo sia una decina d'anni che non leggo un Bernhard, fa parte quasi di un altro mondo (chiusosi forse con la lettura in tedesco di Estinzione? Mah). Vado in studio, al buio, allungo la mano sul ripiano dove l'ho appoggiato, riconosco la carta Adelphi al tatto. Ah, che soddisfazione, aprire un libro di un autore amato. Die Vorfreude, dicono i tedeschi, la pre-gioia che è la miglior gioia. Leggo a lume di candela - dopo quanti anni? La collana Fabula è scritta grossa, Berhard scrive senza dialoghi e punti a capo. Traduce Eugenio Bernardi (Bernhard - Bernardi, che strano caso - io dovrei tradurre Vidal, allora), di lui mi fido ciecamente. Tolgo gli occhiali, miope, e m'immergo, per una mezz'ora (quando leggo così mi torna sempre  in mente il nonno vicino al focolare, che leggeva il giornale  a pochi centimetri dal volto -lui è dentro di me e io sono nato da lui). Smetto di leggere, mi guardo attorno.
Alle sei sono di nuovo in salotto e che faccio? Comincio a scrivere appunti per questo bollettino, a matita e sul taccuino: "la luce di candela per forza rallenta il tempo. Quasi lo sequestrasse e prendesse su di sé, sul suo consumarsi bruciando, nel tremolare della fiammella". Il tempo come incenso, come sabbia della clessidra, come la candela che si consuma. "Poiché la fiamma trema, fatica, il resto", il mondo che illumina, e il suo converso, la sua ombra, "acquista consistenza, stabilità e forza. Tutto si rallenta. Anche perché molte cose diventano più difficili, addirittura pericolose. Quando si vuole muoversi, per esempio. Cercare qualcosa nella penombra diventa difficile, come nel caso della pila." Già, perché tornato dalla passeggiata al fiume ho iniziato a cercare la pila rossa, quella ikea a manovella coi led, che fa una luce migliore e stabile - le altre hanno una frizione che si esaurisce subito e bisogna continuare a smanettare per avere una luce d'emergenza. Frugare per la mia casa, piena di roba all'inverosimile, roba gettata e sorpresa dalla tenebra in luoghi normalmente dominati dalla luce, cercare la pila al quasi buio, è un'impresa non da poco. Paradossale, significativa. L'ho girata (non la manovella, la casa) tutta senza trovarla. La casa senza luce è un labirinto, senza devices sono disarmato, come la scrittura. La pila non è piccola, eppure: "dove l'avevo poggiata?" Niente, scomparsa, s'infittisce il mistero dell'ombra! "...il rumore del fiume e la penombra si espandono il silenzio". Mi insegnano a rassegnarmi, a un non qui ora e subito tutto da imparare. "La fiamma della candela sta alla luce elettrica come il ronzio di una mosca sta al batter d'ali di una farfalla." Penso che passerò la serata a sviluppare questi ragionamenti, mi piace, ormai al buio "la lucina" si è ritagliata un suo angolo discreto. In ogni stanza ho messo un lumino, in modo da potermi muovere per casa senza dover continuamente usare la pila (quella scassa a frizione). Sono pronto a una serata d'ombra, andrò a cercare il libro di Tanizaki, e chissà cos'altro uscirà, e verrà a tenermi compagnia.
E invece niente, all'improvviso, tutto il mio progetto svanisce in un istante: alle sette torna la luce, e resta. Per sempre. Che scorno. Con la luce trovo anche la pila: era nella tasca della giaccavento... ssst...



Ecco, era un po' che sentivo di dover aggiornare il bollettino, visto che qualcuno ancora lo legge e mi chiede un seguito. Sono passati  mesi, come sempre con tante cose dentro - forse troppe, vivo in una centrifuga (lenta), e non riesco a prendere fiato e metterle nero su bianco. Novità di rilievo? Boh? Sono tornato una settimana a Berlino, a ferragosto, dopo cinque anni; ho tradotto il libro The power of breathing, yoga in uscita per RED,  partecipato alla fiera di Lazise (coi libri d'apicoltura),  terminato il libro sul tree-climbing (presto maggiori infos), fatto qualche articoletto qua e là. Ho un mandolino nuovo (quello della foto), comprato su ebay, ma vecchio e difficile da suonare (l'altra cosa strana che si vede nella campana di vetro è un cucù di Matera). E come sempre ho la testa piena di cose, di progetti, di iniziative piantate a metà (come la casa di MO, per chi la conosce...). E poi ho letto, un po' di tutto, e spesso a letto...