venerdì 20 maggio 2011

Bollettino di Montaonda n.29: Si ricomincia? - Una palinodia


Da dove? Da qui, grazie alle insistenze di lettrici e lettori affezionati al punto di diventare quasi molesti... ricomincio da un frammento, che ho sulla scrivania del computer da mesi:

Leggendo Padre padrone di Gavino Ledda mi ricordo come, quando era uscito il film ed io ero ragazzetto e poi adolescente politicizzato, non mi interessassi né per il libro né per il film. Erano cose che mi annoiavano, sì, capivo, ma non mi riguardavano, ero figlio della città e volevo ambienti metropolitani, freakkettoni e psichedelici.
Ora invece che finalmente lo leggo, un po' a fatica perché adesso non mi "serve" più, essendo un libro da coniugare al passato, e che quindi ha perso credo gran parte della forza che aveva nella sua contemporaneità, una forza che portò l'autore a divenire attore interpretante se stesso nel film dei Taviani, mi accorgo di quanti tesori contenesse, e subito penso quanti tesori probabilmente possedessero ugualmente i miei coetanei cresciuti in montagna. Ma allora, io come loro, quei tesori non li vedevo e non li cercavo - forse anche li disprezzavo. Come sarebbe stata diversa la mia vita e la mia conoscenza se avessi fatto amicizia con i "bocia" del paese, se diventato uno di loro avessi imparato a condividerne saperi e segreti. Forse era stata colpa del nostro capo, il Borrini, che ci aveva addestrati a non dare confidenza ai paesani, che a loro volta in noi villeggianti vedevano dei rivali sul loro territorio (non era forse un territorio la piazza del paese, non lo erano i vicoli antichi e misteriosi, a quel tempo ancora tutti densamente abitati, vocianti e puzzolenti, quanto oggi sono vuoti e silenziosi, puliti?).
Ne deduco che non avevo l'amore per quelle cose, che non avevo l'ardore, la febbre di conoscere il mondo, ma mi contentavo di essere il più piccolino arruolato nella banda dei villeggianti per parentela e per far numero, il più conquistato dei conquistatori cittadini. Eppure, da adolescente e poi studente, quando ormai nessun gruppo esisteva più, ma la frattura con "quelli del posto" era ormai ovvia e insanabile, me ne andavo a spasso da solo, in giro per sentieri e boschi alla ricerca di un contatto che sentivo insufficiente, un po' alla Lenz, alla ricerca di qualcosa che non sapevo. Eppure, pochi anni dopo, grazie al Piccinini che a Roma studiava con la Corti, e al mio studio del mondo greco antico, mi aprivo all'interesse per l'etnico, ma se non era morto da millenni era sempre filtrato dalla storia familiare, inserita ma anche distaccata da quella del paese, per quello che era stato prima che arrivassi io, generato in città e ormai forestiero, e di cui proprio io, poco convinto cronista, sarei stato in cerca nei decenni successivi - se nell'etnico la mia generazione ha sublimato il bisogno del gruppo, quando non di una famiglia, cercando nelle più diverse latitudini (in particolare io in Crucchia, nella capitale ex metropoli del '900, e dopo il '45 simbolo, ancor più della nostra etnicità scomparsa, evidentissimamente nel territorio della mia Berlino, squartata e deterritorializzata fino a perdere, all'apparenza almeno, ogni tratto di comunità, continuità, dissezionata e tenuta in vita artificialmente, raggiunta in qualche maniera una forma di essenza nuda e ossea, pura metafisica nichilista. Ma proprio lì (prima della rinascita dell'etnicità cruenta dei conflitti balcanici), fu lì, negli interstizi tra muro e muro, nel corridoio inagibile dove correva il mio sguardo, in quella fascia d'erba e di macerie popolata di conigli e flora spontanea che doveva sparire al più presto una volta stretto il patto di riunificazione, prima vittima ignorata, lì ho trovato il primo "fiore raro" come si potrebbe pateticamente dire, cresciuto nel cemento, nel cuore del massacro, sopra il bunker di Hitler, l'ho visto passandoci mille volte a passeggio, il germe della vita, conigli selvatici, insetti, erbe, riconoscendo il non visto, dall'aria e dall'atmosfera, nel mattone annerito delle case rimaste in piedi e riabitate da vedove e giovani, nella sabbia del suolo scoperto e nella polvere che si respirava su una Potsdamerplatz tornata capace di cambiare colore con le stagioni, tornata brughiera, popolata di piccoli esseri e cani, città laboratorio postnazista, dove trovavi parcheggiati pacifici carrozzoni di punk, bancarelle di souvenir e torrette di legno nero, quasi balneari, che ti innalzavano quanto bastava per tuffare lo sguardo di là, e trovare a pochi metri da te in braghette nientepopodimeno che sua altezza l'Unione Sovietica e il vento siberiano). Una fantascienza da guerra fredda, che ora si trova a stento ravanando nei vecchi film e libri berlinesi degli anni '70-'80, quasi definitavemente spiazzati dalla nuova prosopopea della Nuova Germania (ahah), nel bene e nel male, come che sia.
Poi, ritornato a casa, quel germe interstiziale l'ho ricercato invano nella mia città, nel cui ritmo non ho neanche cercato davvero di inserirmi, e comunque inutilmente, visto che infine sono scappato in Toscana, come tanti, arrivando qui affascinato da una natura aspra e possente, dai suoni acustici di chi suonava polche e mazurche, dappertutto, alle feste ma anche nella cucina di Campicozzoli, violino clarino e fisa, chitarra e voci, un gran casino e vino, vino a dame e che costava niente... una Toscana ancora poco ambita, ultimo rifugio e luogo d'incontro con i pochi ingenui aperti all'incontro, i nati-lì, quasi portatori ancora di una cultura popolare che non era mai stata assimilata - vive le dure nonne toscane - fino al momento in cui proprio loro, gli amici più giovani, presa consapevolezza della sua autenticità, ne hanno celebrato il funerale. Stanze colorate, orti sbilenchi, strade dissestate e feste notturne, fuochi, bagni nel lago e tutta una fantasmagoria rurale che io, vecchio di una vita già ingiallita, ammiravo un po' distante ma assorbivo, eccome, rivitalizzandomi, ringiovanendo e riacquistando pratiche e speranze, assimilandomi alla spinosa flora locale, galiga e ginestra, sambuco e pruni, scoprendo una terra polverosa e ricca, dura e riarsa, inverni umidi e freddi di mota viscida e dura da vincere anche in pochi metri - e tutto alle spalle di Firenze, a pochi soldi, alla portata di chiunque! Che ricchezza!
M'è venuto facile assimilarmi prima ai vegetali che agli umani, senz'altro; ex-dott. e straniero, per innumerevoli motivi, ora trascurabili senz'altro, fino al punto in cui, imbarazzato della mia sotterranea estraneità ho maturato la scelta di restare, ovvero di andarmene per essere lì interamente, niente sottosuolo, abbandonare la città e cercare uno spazio autosufficiente e mio dove germinare e confrontarmi con la vita complessa che si consuma e riproduce qui, in questa terra mala e benedetta...

Troppe cose, dette troppo in fretta o male? Lo so. Ma questo frammento un po' troppo autobiografico valga come palinodia, è un estratto dei tanti bollettini che in questi mesi non ho mai terminato e mai postato, perché come tutte le cose vive e recise una settimana di tempo li avvizzisce, me li cava di mente, entrano nel passato, e questo blog, vuole essere il frutto di qualcosa di vivo, fresco e palpitante... dunque provo a ricominciare, a postare, vediamo come andrà. La città mi riassorbe, ma questa volta voglio fare un nuovo tentativo, sempre portare lì la mia campagna, in città, offrirla a chi non ce l'ha.