sabato 24 aprile 2010

Bollettino di Montanda n.26: Pelle e prato, il risveglio.


Montaonda, martedì 20 aprile

La prima volta che prendo il sole, ogni anno, significa sentire il corpo che si riapre e riprende contatto col mondo. Mi sono messo sulla cisterna, sul lettino di nylon, vestito perché ancora tossicchiante, e poi perché anche se la giornata è splendida la temperatura dell’aria non è proprio da fine aprile. Per dirla tutta, ci sono ancora le primule in fiore e gli alberi cominciano solo ora a buttare la chioma. Ma quando sento il sole sulla pelle ecco che come per magia tutto il corpo si distende e si rilassa. Tolgo la felpa, e sento proprio attraverso i vestiti il calore che arriva nelle ossa, i tendini e le cartilagini, e sento che spogliarmi è togliermi una corazza anche interiore, fatta di freddo, contratture, infiammazioni e catarri. Mi accorgo che è come se, in qualche modo, pure io sbocciassi e cominciassi a lavorare dentro per metter foglia, e mi viene il pensiero che la mia pelle è come un prato di fine aprile. E questo rinascere della pelle al contatto col sole automaticamente mi riporta sempre e immancabilmente all’ultima giornata in cui ho preso il sole in autunno, sicché chiude un ciclo e ne riapre un altro. Quello che si riapre, proprio in grazia delle diverse condizioni del corpo, del suo sentire e sentirsi nel mondo, è l'interconnessione cosmica, e se ci penso non esito a dire - senza vergogna - che lo vivo come la ripresa di un viaggio mistico, non so come dire, tra Tarkowskij, Moebius e Odissea 2001: dietro agli occhi chiusi la mente diventa un pappa lallante, mentre partono i fosfeni zanzottiani, e tutta la pelle è premuta dalla passione energetica del sole.
Sento il fiume, la motosega lontana, gli uccellini, rumori che mi ricollegano e conducono ai mille soli che ho preso, al mare, in montagna, esplosi in me dietro le finestre aperte in città, alle miriadi di immagini azzurrate viste tra gli occhi socchiusi, ai mille sudori sudati su lettini, spugne, spiagge o prati di questa ormai, se ci penso, lunghissima mia vita.
È un modo di riscoprirmi, sentirmi dopo non essermi più a lungo sentito. E tutto è riunito e tenuto da quel nudo essere lì, pelle premuta dal sole, respiro, esistenza ridotta al suo grado zero, immobile presenza e risveglio, come se il sole mi rianimasse e rifacesse corpo, con una flebo. Oggi, questa volta, quest’anno, avviene con contorno di gatti, famelici e pazienti, le medaglie del papa in fiore, una vera invasione color indaco, le violacciocche e il tarassaco, persino i tulipani che mi aveva portato Chiara dall’Olanda, dimenticati e sepolti, spariti, che stamattina mi hanno sorpreso con la loro macchia di colore in mezzo all’erba rinverdita. Le cavolaie si inseguono tessendo mille effimeri ricami sul verde intensissimo dell’erba e tra gli ulivi cinerini, e io sono una lucertola in più (da dove mai le verrà questo nome luminoso, per me così prossimo), di questo mondo che tutto si riscalda e riscuote dopo un lungo inverno. Allungo una mano sotto il lettino e tocco il piano di cemento vecchio della cisterna, tiepido come un corpo, ed è una presa di contatto con la realtà materiale, solida e dura come è il cemento, quasi una pietra creata dall’uomo artefice. Poi tocco il tronco di legno vecchio e annerito della panchetta sospesa, anch’esso già caldo, ed è un toccare fiducioso, da corpo a corpo, quasi una trasmissione di energia da materia a materia.
L’aria si ingentilisce di voli di api e calabroni. Tolgo le calze, apro la camicia, chiudo gli occhi.
Respiro, respiro, respiro.

Domani verrà Ilario, con l'escavatrice, per preparare il basamento dell’impianto solare. Scusate l’intervallo eccessivo, e chissà se riuscirò a recuperare la cronaca dell'accaduto. Davvero, c’è anche da finire la terza puntata dell’Annapurna, che è lì, nel cassetto.