lunedì 18 gennaio 2010

Bollettino di Montaonda n. 24 bis: Seconda giornata (Annapurna Sanctuary II)


6 dicembre

Oggi si entra davvero nel santuario dell’Annapurna, mi fa capire Surya. Per cominciare da Jhinu dobbiamo arrivare a Chhomrong, due ore di salita secca, dice, e mi fa guardare in alto, proprio sopra di noi, in cima alla ripida dorsale che si innalza si intravedono dei tetti, ecco il punto in cui dobbiamo arrivare. Ci muoviamo, e subito il sentiero si trasforma in una scalinata di pietra pressoché continua, che attraversa campi a terrazzo e bosco verticale (sissignori, in Nepal la vegetazione è talmente rigogliosa che cresce anche in verticale - credo che capti l’umidità dalle foglie). Bisogna moderare passo e fiato, è la rampa di un tempio atzeco, continuo a ripetermi, mentre entro in quello stato di leggera catalessi che caratterizza questo tipo di sforzo, ripetitivo, ritmato, che favorisce lo svuotamento mentale. Il fiato, il passo sempre uguale, e niente altro, lo sforzo si mantiene costante e tutto il resto si ferma, si perde la cognizione del tempo, insomma, una vera e propria forma leggera d’ipnosi. Si può pensare, ma con davanti una giornata intera pare superfluo. Meglio assorbire l’aria del mattino, aprirsi e lasciarmi entrare dentro il mondo così come si presenta. Non ho bisogno di guardare l’orologio, anche perché sarebbe deprimente. Lo sguardo è chino, fisso sui gradini irregolari su cui poggio i piedi. Vedo e non guardo, pietra dopo pietra, la scalinata scorre sotto di me, la sento resistere sotto i talloni, sale nelle ginocchia, nell'articolazione del bacino, sulle mani e nei fianchi, nei polmoni, mi compenetra in ogni parte. Decine, centinaia di passi in salita. I gradini sono irregolari, massi di pietra grigia, compatta e pesanti, incastrati si tengono gli uni con gli altri, il sopra tiene il sotto e viceversa. A volte sono così ripidi e alti che viene da salirli di sghembo, quasi da appoggiarci una mano per tirarsi su. Penso a chi nei secoli ha costruito queste strade, a chi le mantiene in efficienza. I nepalesi spaccano la pietra a colpi di martello, l’ho visto, ne fanno ghiaia, gradini, mattoni. Ogni tanto, ovunque vi troviate, si sente risuonare la punta di ferro, il martello che batte.
Di fianco al sentiero passano dei fili che portano elettricità, sono quattro, paralleli e uno sopra l’altro, sembrano di acciaio intrecciato, e la cosa strana è che sono ad altezza d’uomo: se volessi basterebbe sporgermi sul bordo dal sentiero, alzare una mano e toccarli. Non ci sono cartelli, nessuno tipo di dissuasione. Sui pali di metallo vedo soltanto il simbolo della spirale, che sarebbe poi il terzo occhio. Noi ci mettiamo il teschio con le ossa incrociate, e visto da qui, da questa prospettiva nepalese, sorrido, mi sembra la bandiera dei pirati. L’elettricità ho visto che la ricavano dalla caduta dell’acqua, abbiamo superato un paio di piccoli impianti a turbina. Con tutta l’acqua e i dislivelli che hanno potrebbero fare opere grandiose – grandi dighe e sbarramenti - ma per fortuna ancora non li fanno. E a Kathmandu ogni giorno c’è il blackout, tra le 5 e le 7 di sera la luce può andare via da interi quartieri. Non ne hanno abbastanza, sembra. Visto l’orario sembrerebbe che l’uso dell’elettricità sia prevalentemente domestico: e in effetti nei miei spostamenti per il paese non ho visto che due o tre fabbriche o aree industriali. Nulla che consumi elettricità, e anche di treni non ne esistono. Qualche laboratorio, officina, al più cementifici, fornaci di mattoni. Ho l’impressione che il Nepal importi tutto (dall’India): tessile, plastica, meccanica e ovviamente tecnologia. I giovani nepalesi vanno all’estero a fare gli operai, in Thailandia o Korea; sei mesi, poi tornano con i soldi. Ne ho incontrati in aereo che tornavano dagli emirati. Anche Surya l’ha fatto.
Dove non passano ruote per noi quelle non sono strade, ma sentieri. E invece qui sento che non è giusto chiamarli così, i sentieri qui sono strade e meritano il nostro rispetto (se sappiamo amare i sentieri) perché mettono in comunicazione villaggi e città, sono il vero reticolo delle vie di comunicazione, come sono sempre state nei secoli. Ogni giorno queste strade strette, storte e piene di gradini, con angoli pittoreschi che mi fanno pensare a Gauguin, vengono percorse da centinaia di persone, movimentano merci, attraversano paesi, dove su di esse si affacciano negozi, osterie e locande. Si affacciano ed entrano nell’aia delle case, passando di fianco a bambini vestiti di stracci che giocano nella polvere, a galline imprigionate sotto le ceste, a bufali neri che ruminano accovacciati guardando la gente che passa. Non sono affatto come i nostri sentieri (segnalatissimi, per l’amor di Dio, ma ormai ridotti al fiacco e sporadico uso turistico, con cartelli e segni bianchi e rossi, ma sempre a rischio di sparire): qui la strada è viva, pisciata d’acqua, segnata d’impronte, e dove c’è uno smottamento presto si appiana, dove una pietra esce di sede viene sistemata da una mano invisibile. La strada è un bene prezioso, uno strumento di lavoro, non di svago. Se ci si siede a prendere fiato, tempo qualche minuto e passa qualcuno. Namastè, namastè.
Che fatica scrivere tutto questo quando, anche a a distanza di un mese, è ancora così vivo negli occhi! Gradino dopo gradino ci innalziamo, e neanche tanto lentamente: a un bivio, in mezzo al sentiero, vedo una strana congerie di piccole cose, foglie, un fiocco di lana rossa, due peperoncini con due piume bianche piantate al centro di una barchetta fatta di foglie. Surya dice bad bad, very bad, e d’improvviso non mi sembra più quel giovane moderno e spiritoso, che camminando ascolta la hit del momento dal cellulare (gli costa solo 1 rupia al minuto), di colpo ecco un indigeno che dice buana cattiva magia nera, storce tutto il viso e quasi si mette a piangere (ecco, ora capisco che in questo mondo siamo tutti mascherati dietro vestiti e accessori, e solo a tratti viene fuori il legno vero di cui siamo fatti). Sì, ho capito, è un accrocchio magico, un malocchio, una fattura, chissà, non penso di farmelo spiegare, Surya vuole solo allontanarsi. Lo fotografo, ovviamente, e intanto penso ah ah, quella roba lì può fare del male!? E ora aggiungo, non c’è nulla da fare, puoi studiare quanto vuoi le religioni, gli usi e i costumi, quando poi è il momento l’impatto con la realtà non si può spiegare, o ci sei dentro e la vedi, o ne sei fuori e resti cieco, questo mi dice la barchetta magica.




A Chhomrong arriviamo poi in un’ora e mezza, sono fiero di me. Girando dietro il contrafforte che nasconde la conca ripida in cui sorge il villaggio, l’Annapurna Sud ci appare proprio di fronte, in tutto il suo bianco splendore (è la foto in apertura, e come al solito non rende niente). Solo sulla carta scoprirò che la vetta dista dai noi 10 km!
A Chhomrong convergono dalle vallate circostanti i diversi sentieri che si riuniscono e proseguono in un'unica traccia fino all’ABC. Anche per questo aumenta il numero dei turisti e quello dei portatori. Chi va su, da qui deve ritornare lungo la stessa via. Ci fermiamo a bere una lemon water (è la mia scoperta del giorno, ho visto che la beveva Surya e ho voluto provarla anch’io, sono stufo di bere sempre tè, e mi nego le bottigliette). Dalla terrazza si può scorgere la parte più alta della valle in cui dobbiamo proseguire, da qui in due o tre giorni si arriva al Campo Base. È una valle stretta e brulla, l’erba e gran parte della vegetazione è secca per la stagione invernale, il fondo è una gola da cui si levano bastionate di roccia che si innalzano oltre i 4000 metri e nascondono le vette, lunghissima – si intravvedono la traccia del sentiero e i tetti delle varie tappe.
Beviamo rapidamente e poi via, si scende una scalinata vertiginosa e lunghissima, attraversando villaggi e campi, perdendo praticamente tutta la quota conquistata, si arriva a un ponte e poi di nuovo, dovremo risalire. Durante la lunga discesa ho capito che mi conveniva imitare la tecnica dei nepalesi, praticamente gli scalini si scendono di corsa, come da ragazzi, perché in questo modo non si deve scaricare il peso a ogni passo – per fortuna non ho problemi di ginocchia e di gambe, solo lo sforzo della velocità mi obbliga a fermarmi ogni tanto a riposare. Avere rinunciato agli scarponi in favore delle scarpe da atletica mi aiuta considerevolmente.
Il villaggio è grosso e sparpagliato, l’ultimo con telefoni, negozi, l’ultimo abitato per fini non turistici. Da qui in poi troviamo soltanto case isolate di contadini, con il bufalo che pascola poco distante, l’orto, i cespugli luminosi di tagete, i lodge per turisti. Le case lungo le quali passiamo sono bellissime, in parte hanno il tetto in paglia, altre in lastre di pietra, altre in stuoie intrecciate. E tanti fiori colorati, dappertutto.




La risalita è micidiale, anche perché ora è giorno pieno e il sole picchia (quelli della foto sono due turisti, ma siamo passati proprio di lì anche noi). Procedendo così piano, conquistando il proprio cammino metro dopo metro, si incontrano tante piccole sorprese. Una ad ogni passo, praticamente, e si ha anche il tempo di assimilarle, di inghiottirle, mentre la saliva, quella mi manca. Anche se poi, per la mia soddisfazione, basterebbe tenere presente, percepire il fatto che a pascolare nei prati, ruminando erba ormai secca, ci sono bufali neri, e non mucche; che ogni pianta, ogni fiore, è diverso da quelli cui sono abituato. Alcuni alberi, isolati, sono giganteschi e coperti di liane. Le bastionate di roccia sopra di noi sono di dimensioni immani, e si aprono verso l’alto in valloni improbabili e misteriosi, raggiungendo quote improbabili.
Mentre ci sta sfilando incontro una comitiva di una ventina di giapponesi ecco che dall’alto, sopra il sentiero polveroso, piombano giù tra di noi quattro ragazzi, vociando, da una scarpata coperta di cespugli di bambù che a me pare impraticabile, fionde alla mano, stanno braccando un uccello che sarà grosso – lo vedo quando esce disperato da un cespuglio in cerca di scampo – come un merlo. Sembra una scena di Rashomon, e in un fulmine spariscono. Naturalmente hanno jeans e magliette colorate, in stile globalizzato, ai piedi ciabatte di plastica. Non erano bambini, ma ragazzi che stavano cacciando sul serio. Con la fionda. Un uccelletto. E io? Io che ci faccio qui, in questa scenario? Interdetto, riprendo a camminare, commentando l’apparizione con Surya.
Attorno a noi, una volta fuori dal coltivato, nonostante le pendenze spesso proibitive, regna la giungla, con felci, alberi rigogliosi, bambù. Gli chiedo degli animali selvatici e Surya mi dice che ce ne sono di tutti i tipi, dai cervi, alle scimmie alle tigli. Tigri? Sì, certo. Ogni tanto rubano qualche animale e di notte, per paura della tigre, nessuno se ne va in giro. In effetti sì, me la immagino benissimo una tigre che si aggira per questi boschi. Serpenti anche, ma ora fa freddo e non se ne vedono. D’estate, mi dicono, è pieno di sanguisughe. Accidenti. Ma ora la giungla è fredda, perché copre il sole e mantiene tutta l’umidità della notte. Quasi una nebbiolina. Davvero, dove sono, che razza di passeggiata è questa (eccovi, in massimo compendio, la mia teoria che siamo quello che passeggiamo).




Pranziamo a Niwara, dopo un piattone di spaghetti con le verdure mi sparapanzo col sole sul coppino, i piedi su una sedia di plastica uguale a quella dove sono seduto, e resto a sonnecchiare. Il Machhapuchhre appare ora molto più vicino, i nevai della vetta-pinna risplendono al sole. Guardo in dentro nella vallata, Syria mi indica una macchiolina azzurra: lì c’è Bamboo, la nostra meta per oggi (nella foto in alto sullo sperone in primo piano si vedono dei puntini bianchi: sono uomini…). Altre tre ore su e giù, up and down…
Poi, dopo una lunga rampa in discesa di fianco a un campo di fieno secco, arriviamo quasi all’improvviso a Bamboo Lodge, 2600 m, che sorge in mezzo a un verdissimo bosco di grandi bambù. Wow, fermi. Anche oggi è stato molto faticoso, anche se Surya ormai mi ha persuaso e lui porta il mio zaino e io il suo, è solo un modo per distribuire meglio le nostre forze. Ho fatto fatica ad accettarlo, all’inizio, ma poi il sollievo è evidente. Lui è soddisfatto di me, dice che cammino bene (lo credo, con tutte le montagne che mi sono scammellato nei miei 40 e passa anni di camminate!)
Abbiamo fatto in due giorni tre tappe, si va in fretta perché ancora non sappiamo quanti ce ne restano, possono richiamarlo da un momento all’altro a Katmandù per l’esame, ma da bravi nepalesi aspettiamo che la cosa accada, e intanto andiamo avanti come se non fosse. Forse sto esagerando, penso, la sera sono parecchio provato, e forse comincio anche a sentire un po’ la quota. Ma sento forte il desiderio di andare avanti, perché ogni svolta della strada è la scoperta di un nuovo mondo: il paesaggio (che termine insulso, qui, neanche natura va bene, perché il dominio è totalmente suo, quindi meglio dire: quello che incontro) cambia continuamente, le prospettive si aprono e le montagne invece di abbassarsi s’innalzano.
Basterebbero altri due pernottamenti e, se reggessi la quota, sicuramente potremmo arrivare alla meta, Annapurna Base Camp, 4100 m - ma dubito di riuscirci. Surya mi spinge a proseguire, e io mi impegno. Il presentimento è di essere vicino al limite delle mie capacità fisiche, di camminare su uno spartiacque, da un lato una valle tempestosa e buia, la sofferenza e il male, dall’altro l’aria rarefatta e la luce, il ghiaccio e il paradiso. Io ho scelto che voglio il paradiso e allora, me ne accorgo qui, in questo pellegrinaggio, devo accettare oltre al giorno anche la sua notte: quante volte accettiamo rischi anche maggiori, semplicemente andando in macchina al lavoro, in bici, prigionieri della nostra cazzutissima “società del rischio”? E perché non dovrei accettare il rischio di sciupare la mia vita, magari con un infarto, un malore più che plausibile per un uomo di mezza età, uomo che proprio ora che è in vista di un’esperienza intensa, che in fondo è tutta la vita che sto aspettando? (senza aspettarla, ma mi covava dentro!)
È strano, penso ancora di notte, quanto forte sia il contrasto tra il giorno, caldo immenso e luminoso, e la notte, fredda buia e angusta come le camerette dei lodge, come il mio sacco a pelo. Anche questa diventa una scansione forte, di giorno cammino senza sosta, dimentico di me, di notte sto immobile a pensare.




Mi vengono in mente persone e cose dell’Italia ed è come se vedessi tutto con maggior chiarezza, dall’alto. Scorci dell’infanzia, luoghi, persone. Dopo un breve riposo andiamo a cena, e osservo Surya che mangia con le mani, come fanno tutti i nepalesi, prendono con la punta delle dita un po’ di riso e lo pucciano nel sugo. Potrei provarci anch’io ma non mi viene, sento che non è mio, sarebbe solo un modo per scimmiottare lui. Restassi più a lungo, arriverebbe anche questo, ne sono certo. Ma fare le cose per finta, questo no.
Tutto qui sembra più vero, più autentico, genuino, immediato. Guardo la cameretta in cui mi ritrovo: divisori di legno, mattoni imbiancati di calce, tende, una lucina. Appena l’indispensabile. Forse sono la fatica, forse il posto, le condizioni di privazione ed essenzialità che mi ispirano questi pensieri. Forse l’avere attraversato villaggi dove si batte il raccolto sull’aia, dove si usano i bufali e un aratro primitivo per arare, calcandolo coi piedi nudi. Chissà. Da tutto questo viene voglia di provare il Tibet (anche se poi ho capito che è diverso, non solo agricolo ma anche pastorale, e anche per questo molto più vicino alla Mongolia).
Ecco, credo che buona parte del fascino di questi posti venga dall’essere quello che noi non siamo più e non potremmo mai tornare ad essere, uomini naturali – se capite cosa voglio dire, persone, appunto, persone che vivono in diretto contatto con la natura, che non hanno bisogno di lasciare il loro villaggio, non hanno bisogno di nulla di quello che abbiamo noi. Che non hanno nessun bisogno di noi.
La notte è lunga, perché mi infilo nel letto verso le 7 e ci resto fino alle 6; piena di sogni, e ogni volta che mi risveglio sento cadere ininterrotta la pioggia. Il caldissimo sacco a pelo mi avvolge in un involucro quasi amniotico: dormo in totale abbandono per ore e ore, ma la notte è lunga e lunga e lunga, lunga quanto il giorno. Al mattino, poiché sento ancora la pioggia scrosciare, sono convinto che dovremo tornare indietro per il brutto tempo. Invece quando alle 6.30 arriva Surya per svegliarmi mi dice che è bellissimo, e immediatamente capisco che ho sentito tutta la notte il rumore dell’acqua che trabordava dallo scolmo della cisterna, proprio dietro la mia stanza. Il mio udito difettoso ha fatto il resto.


mercoledì 6 gennaio 2010

Bollettino di Montaonda n. 24 Speciale: In pellegrinaggio alla base dell’Annapurna


5 dicembre, prima giornata

Surya, il marito di Kalimaia che si è offerto di farmi da guida, per passare a svegliarmi alle 6 si è mosso a piedi dal suo villaggio, dall’altra parte del lago, un’ora prima. Ha 32 anni, e sta dando gli esami per diventare guida. Mi ha detto che potrebbero richiamarlo da un giorno all’altro per il colloquio finale a Kathmandu, e allora dovrebbe tornare in fretta e furia. A me va bene accettare questo rischio: è simpatico, e preferisco restare solo piuttosto che trascorrere le giornate insieme a uno sconosciuto. Ho anche seri dubbi di riuscire davvero ad arrivare all’ABC, Annapurna Base Camp: sono 4150 m, abbiamo 7 giorni in tutto, non posso affrontare sforzi eccessivi e non sono mai salito così in alto in tutta la mia vita. Ma devo tentare, col passare del tempo, da che sono qui, mi sono reso conto che ci sono soprattutto per questo, vedere un ottomila, avvicinarmici quanto mi è possibile. Me ne sono accorto facendo una passeggiata con Pier a Pame, quando mi sono girato e in quel paesaggio tropicale ho visto l’Annapurna che era sbucato da dietro la collina, una mole improbabile, irreale come un fondale dipinto fino a metà del cielo.
Scendiamo in strada che è ancora buio, prendiamo un taxi (le minuscole Suzuki si aggirano tra le strade deserte di Pokhara alla ricerca di gente che come noi deve raggiungere la stazione dei pullman); siccome sono 40 minuti di cammino non esito nemmeno un istante, avremo già abbastanza da camminare dopo. Poi un’ora e passa in corriera, su e giù, fino a Navipul, un paesone di fondovalle orribile, provvisorio e sporco, da cui si entra nella valle del Modi Kohla, un taglio diritto nelle montagne che porta fin sotto alle grandi vette dell’Annapurna.
Si comincia così, camminando su un largo sterrato pianeggiante, tra chioschi e negozietti, carovane di asini, su quella che è una delle più percorse autostrade del trekking himalayano. Presto davanti a noi, sul lato destro della valle, compare azzurrino il Machhapuchhre, con la sua elegante siluoette sembra il fratello maggiore del Cervino. È ancora lontano, ma svetta da un’altezza per me ancora inafferrabile, celeste, 7000 metri. Lo chiamano anche Fishtail, perché le sue due vette, congiunte da una cresta aerea costellata di canaloni quasi verticali che pare una membrana, assomigliano alla coda di un pesce. È una delle montagne sacre dell’Himalaya, non si può scalare, non vengono dati i permessi.
Dopo una ventina di minuti a Birethanti si passa il fiume e il posto di controllo, che appone un timbro di entrata al mio permesso, sancendo l’ingresso nell’Annapurna Sanctuary Conservation Area. Questo fatto del santuario non credo faccia riferimento al fatto che Annapurna è un altro nome di Parvati, la potente e bellissima dea compagna di Shiva; o forse sì, ma non cercherò di scoprirlo nemmeno nei giorni a seguire. Osservo solo che non è abituale che una dea venga identificata con una montagna (le uniche altre montagne-divinità che conosco, nel Tibet, sono maschili, guerrieri, al più associati in una diade a un lago, un principio femminile). E a pensarci mi sembra proprio adatta a me, che anni fa, sulla suggestione del pensiero di Walter Friedrich Otto, ragionavo e sragionavo sulle montagne intese come volti del divino. Ma a tutto questo stamattina non penso: camminiamo veloci, l’aria è ancora fresca e la strada da fare lunga. Per via si incontra tutta la vita della valle, come doveva essere una volta anche da noi. Poiché non esistono altri mezzi di trasporto, tutto passa a piedi: incrociamo i bambini che vanno a scuola, le comari che vanno a far spese, chi va al lavoro.



Tutto passa sulla groppa degli asini o sulle spalle della gente, che usa una specie di gerla appesa alla fronte con una fascia, bilanciandosi con il torso leggermente piegato in avanti. Dentro questa cesta di listelli di bambù intrecciati ci vedo di tutto: legna, vestiti, sacchi di riso, una tazza del cesso e una nonnina, montagne ben impilate di uova, addirittura 5 gabbie di ferro rettangolari piene di polli vivi, una sopra l’altra, per un totale di una trentina di bestie. Deve essere il cibo per i turisti, mi dico. Eccoli dunque i portatori, i camion dell’Himalaya, la prima cosa che vedo della grande montagna sono i suoi servi. Giovani e vecchi, donne e ragazze, magri ma muscolosi, tenaci, come tante formichine instancabili. Col tempo imparerò a riconoscere i professionisti, quelli che portano per mestiere: il loro carico spesso sono due, tre, quattro zaini di trekker o alpinisti, borsoni impermeabili con le attrezzature per scalare, tende, cartoni di cibo, legati uno con l’altro e appesi alla fronte, come un carico qualsiasi. Camminano spediti a gruppi di due o tre, vedo che sudano e che si fermano spesso, scaricando il peso su apposite panche di pietra ai lati del sentiero. Portano in teoria 20 kg, ma in pratica molto di più, gli permette di guadagnare più soldi. Fanno una fatica boia, certo, semplicemente sono abituati a portare pesi. Ai piedi hanno ciabatte di plastica, raramente scarpe da atletica. Di pelle sono abbastanza scuri, non tanto piccoli; non sono sherpa, questa è regione dei gurung, dice Surya. Il loro è un lavoro logorante ma ben pagato, in una giornata prendono 6-800 rupie, 6-8 euro, che è davvero tanto. E del resto, dentro di me capisco cosa mi colpisce di questo paesaggio umano, il mio occhio ricorda un simile passaggio quando ero bambino, negli alpeggi estivi delle valli dell’Ossola, la gente si muoveva nello stesso modo, al posto degli asini i muli, e trasportava gerle e barcui pieni di fieno, di legna, formaggio, capretti, pane e vino, radio, tutto il necessario, proprio come qui, uomini e donne. I bambini avevano le gerle piccole, qui hanno delle miniceste. La mia memoria risorge in Nepal…



Dopo 8 ore di marcia in leggera salita, addentrandoci nella valle lunghissima e diritta (capo e coda si perdono in distanze azzurrine), la strada sterrata, comunque impraticabile ai mezzi a causa delle molte frane, cede il posto alla mulattiera, e si comincia a fare su e giù per scalinate ripide e lunghissime, superando balze vallette e ponti, frane, scarpate e villaggi, boschi e terrazzamenti, prima di riso poi di fieno, arriviamo finalmente a Jhinu, quasi 1800 m, dove dormiremo. In linea d’aria abbiamo fatto circa 10 km, sui 30 che ci separano dal Campo Base. Jhinu è formato da una decina di lodge, in buona parte di recente costruzione. Sta su uno sperone che abbiamo dovuto risalire e da qui si entra nella parte più alta della valle. Il nome non può non farmi pensare a Janus, e così per me diventa il villaggio-porta: di qui si entra, per haec ad aspera. Guardo la valle percorsa, lunghissima, e di fronte, il pendio della montagna è terrazzato in una maniera impressionante, ci vorranno almeno due ore per risalirlo - sul nostro lato ne è bastata una.
Sono parecchio stanco. Faccio una doccia, mi riposo un po’ poi, alle 19, finito in fretta di mangiare, dopo aver bevuto con Surya una mezza bottiglina di Whisky nepalese, gli dico che per me ognuno di questi istanti è talmente sensazionale che non posso permettermi di sprecarlo al tavolo con gli altri clienti del lodge, a sparare cazzate: lui faccia pure - ho scoperto che conosce tutti, è in buona compagnia. Mi ritiro in camera per raccogliere le idee.
Il lodge mi offre una stanzetta con muri a secco di pietra squadrata e pannelli di legno, due letti, imbiancata di calce. È gelida ma c’è la luce e un pagliericcio abbastanza imbottito. Questa prima notte, lo sento, è una notte d’iniziazione e trasferimento: non sono più in città, ma nemmeno sono ancora arrivato altrove, sono su una soglia. Mi sento solo come capita sempre quando si deve oltrepassare una porta (altro che i metaldetector dell’aeroporto), e capisco che sono qui totalmente per me, per mia unica ed esclusiva volontà (mi confronto con questa cosa, e mi fa uno strano effetto che non so piegare meglio). Questo è il vero obiettivo del viaggio in Nepal, la mia iniziativa. Ecco perché non ho cercato guru, indovini, santoni: mi accorgo ora che sono qui per la montagna. L’ho cercata fin dai primi giorni, quando a Kathmandu si diradava la foschia umida della città e apparivano lontane le vette imbiancate, o quando a Duhlikel scrutavo più vicino, ma sempre lontanissimo, il Langtang. Da sempre, ovunque vado, cerco le vette bianche dei monti.
Stanotte inauguro il sacco a pelo di piumino “-20°”, appena comprato a Pokahra da un commerciante che dopo un lungo tira e molla mi ha detto (certo per blandirmi) che non ne aveva ancora venduti a prezzo così basso; ci entro vestito ma poi e progressivamente mi spoglierò del tutto. È giallo girasole, con l’interno verde muschio, bombato come se fosse gonfio d’aria, e quando ci entro mi trasmette una sensazione di morbida protezione, di calore e relax sconosciuti. Prima di addormentarmi ancora un rito: leggo (altrove ho già concluso che leggere per me è una porta alla meditazione, aprire uno specchio interiore). Entro nel vivo della lettura di Annapurna, di Maurice Herzog, comprato a Pokhara: è il resoconto scritto dal capo della spedizione francese che nel 1950 conquistò la vetta del primo 8000. Scopro un’epopea incredibile, avvenuta solo 60 anni fa (ma sembrano secoli!) in un Nepal ancora medievale, senza strade (nemmeno tra l’India e Kathmandu), con attrezzature e tecniche rudimentali; non abbiamo idea di cosa significasse allora arrivare sotto e poi in cima a un 8000, non c’erano carte, strade, tutto doveva essere scoperto e deciso lì per lì. Era un alpinismo interamente d’esplorazione, più emozionante di qualunque impresa pensabile. Una conquista pagata cara, con mutilazioni e sofferenze lunghissime. Penso a Herzog come a un eroe fuori dal tempo, un Giasone senza nave, e al posto del vello solo una visione interiore – oro puro, che gli è bastata, scoprirò poi leggendo, a farne un uomo fortunato per tutta la vita (ovvero: la felicità di una vita può davvero essere un istante, purché la sua luce continui a brillare…).
La mia notte è lunga, piena di risvegli e pensieri, tra il sogno e la veglia. Il sacco a pelo mi ha coccolato e riscaldato come una chioccia, è chiaro che mi ha procurato uno stato d’incubazione: lo spirito del pioniere francese e dei suoi compagni mi è rimasto vicino tutta la notte. Alle 6, ora concordata, Surya bussa alla mia porta. Albeggia, e prima di far colazione mi spinge sulla terrazza del lodge, per mostrarmi l’Annapurna– ieri era coperta dalle nubi. La cima è enorme, ci sovrasta come la testa di un elefante, tutta rosata. Impressionanti i ghiacciai sulla vetta, come morbida panna sulla roccia nera che emerge tra lo sfilacciato velo delle nubi sottostanti. Sono carico di energia, ma anche intimorito: mi sento proprio come se stessi per affrontare un’iniziazione. (1 - continua?)