giovedì 22 ottobre 2009

Bollettino di Montaonda n.22: Giornata di pioggia oggi a casa mia, ma forse mi confondo



Giornata neghittosa oggi. Al mattino nubi basse e pioggia, poca voglia di fare. Dovrei finire di riordinare i libri ma non ne ho proprio voglia. È compito immane. Da qualche giorno ho finito di costruire due scaffali – alti fino al tetto! – e quindi ho iniziato a smuovere masse di volumi. È anche il momento in cui dovrei decidere come disporli, e quindi creare nuove sezioni, accostarne altre, unificare gli argomenti che si erano annidati crescendo in luoghi incongrui. Ho anche iniziato a riordinare i cd, anche questa opera doverosa, eliminando depositi provvisori della prima ora. Su e giù dalla scala, bracciate, piene, alcuni volumi sono pesantissimi, altri così leggeri che sfuggono e sfarfallando precipitano al suolo. E chissenefrega. Forse dovrei davvero disfarmene una volta per tutte, di gran parte almeno, che tanto è carta senza valore, chissà se poi la leggerò mai. Moltissimi poi, come capita ai collezionisti, li tengo per ricordo anche se mi sono del tutto inutili. Come un certo libro tedesco sorta di breviario medico degli anni Venti. Ma perché buttarlo? E’ così curioso! E poi, sono quasi tutti (visto che ho cominciato a comprarli trent’anni fa) sono quasi tutti libri del passato. Ma, a pensarci bene, non ne ho tanti anche del futuro? Quelli che non ho ancora letto, quelli che torneranno importanti, come ora tutta la serie sulla caduta del muro di Berlino…(aggià, anche le foto!, ho iniziato a mettere ordine pure nelle foto, a scansire, a partire dai provini sopravvissuti dagli anni settanta, quando avevo i capelli lunghi e abitavo in periferia).
Insomma stamane ne avevo un po’ le palle piene di fare ordine e mi sono buttato sul letto a leggere “La vita conduce la danza”, le memorie di Germaine Krull, fotografa tedesca a Parigi negli anni Venti, uno dei tanti libri che da anni aspettava di essere letto. E mi sono sprofondato nell’infanzia in Slovacchia e poi a Parigi di questa figlia di un ingegnere tedesco, così vicina fisicamente a Gisele Freund, che avevo fatto in tempo a vedere arzillissima vecchietta, e a Philipp Halsmann, il protagonista a me tanto caro dell’ultimo libro di Pollack che ho tradotto (gli altri pare che non interessino più a nessuno, peccato).



Ma poi all’ora di pranzo ha telefonato un’amica per aggiornarmi sul fatto che ieri ha avuto il contratto per tradurre la neonominata premia nobel Herta Müller (e chi se la filava…) e chiaccherando mi dice su, datti da fare, e allora le ho detto (scusate la faticità) ah, ho ricevuto un invito ad andare in Nepal e pensavo di andarci, e lei mi rifà vai, non perdere tempo, se puoi vai. E io sì che posso e quindi ci vado. A dicembre. Poi a pranzo mi sono mangiato della polenta saltata sulla stufa con due uova al tegamino, ho riposato un po’ leggendo e poiché nel frattempo era schiarito ho deciso di andare a vedere se c’erano funghi, che la temperatura è salita, la luna boh, comunque, mi andava di fare due passi nel bosco umido e ho preso il bastone e sono salito verso il Muraglione, puntando alle marronete. Ma dopo i ruderi del borghetto sopra Montaonda – e mi dicevo eccolo qui il mio Nepal, da mostrare, queste rovine che parlano di una civiltà scomparsa, come Macchu Picchu o come si scrive, invase da rovi, ornielli, muschi ed edera, cammino e il movimento mi restaura l’umore, ritira su i muri crollati dei giorni d’inedia, o meglio a spostare libri, che per chi la biblioteca ce l’ha come un peso ancorato nella testa, ne ricava un fastidioso malessere, un senso di nausea e di mal di mare, perde l’orientamento degli orizzonti mentali… arrivato alla svolta per salire sul crinalino ho visto che invece c’era anche un sentiero che proseguiva a mezza costa e l’ho provato, un Holzweg, vediamo un po’, inoltrandomi tra terrazze inselvatichite di ornielli e carpini, l’erba verde, ebbra delle acquate dei giorni trascorsi, il muschio ringalluzzito e soffice come un cuscino. Ma guarda, il sentiero taglia e scende, e arrivo sopra la prima delle castagnete della valletta di Onda, e sta a vedere che magari trovo anche dei funghi. Invece niente, di porcini intendo, solo sconosciuti, e siccome non voglio seguire la marroneta, forse per il timore di essere sorpreso su un terreno coltivato, decido di esplorare il querceto, e punto in alto, risalgo il crinale erboso, hanno diradato le piante pochi anni fa, si incontrano tra l’erba i ceppi neri, e i rami ancora sottili delle piante superstiti non chiudono, ma ce ne manca!, la volta del cielo. Salgo senza traccia, è ripido ma ho il bastone e gli scarponi, e dopo una trentina di metri incontro un altro sentiero, pure a mezzacosta, sono sentieri un tempo dei contadini – le terrazze sono ancora in piedi – ora di boscaioli, cacciatori e fungaioli, ma più che altro credo degli animali, che sono di sicuro il transito più frequente. Tutti i sentieri della zona sono tenuti battuti dai cervi, dai cerbiatti e dai cinghiali, bisogna riconoscerlo, non fosse per loro in tanti punti non si passerebbe più, si perderebbero le tracce e il bosco diventerebbe un intrico impraticabile.
Comunque godo, è tutto umido ma non fa freddo, dopo le giornate di tramontano, sono uscito con la sola camicia, e ora la tolgo restando in maglietta. Provo a percorrere la traccia all’indietro, finché arrivo al galestro, dove so che sopra passa il sentiero segnato, quello che porta alle castagnete che voglio vedere. Allora punto su, sul galestro franoso, tra ginestre, ginepri, quercioli ed elicriso, tra massi di roccia sporgenti e radici. Sembra di essere in arizona, penso sempre così, chissà perché l’arizona, ci fossi mai stato… mentre cammino per associazione mentale al mondo dei western mi chiedo chissà com’era seguire le tracce, perché vedo che il terreno è morbido, e mi chiedo chi oggi ne sarebbe capace. Poi arrivo in cima, mi innesto nel sentiero pianeggiante, raccolgo qualche bacca di ginepro da mettere nella grappa che ho a casa, arrivo alle spiagge, le ormai celebri balconate rocciose, proseguo nel bosco, che conosco e riconosco nella sua veste preautunnale. Quando arrivo alla marroneta per terra è tutto un tappeto di bucce di castagne, mi diceva il vicino che di notte gli animali banchettano, ci sarebbe da appostarsi e chissà cosa non si vedrebbe, il sabba dei selvatici tra i castagni del bosco – dovreste vederle queste castagnete, sono lisce e rasate come campi da golf, prati distesi come tappeti tra una pianta e l’altra, vecchi mammuth seduti, ma in parte morti e pietrificati, dai rami slanciati e ritorti. Le castagnete sono posti spledidi, e oggi sono cosparse di marroni che arrivano anche sul sentiero, a dire il vero mi sembrano un po’ piccoli, comunque evito di calpestarli, ogni tanto ne raccolgo qualcuno che mi sembra bello ma poi, sono piccoli, non c’è niente da fare. Comunque sono qui per guardare i funghi, e le castagne non le voglio raccogliere, non voglio rubare a chi coltiva, raccoglie e vende, qui è un’attività importante, ho un sacco di amici che in questo momento sono impegnati nella raccolta dei marroni. Ne raccolgo qualcuno, come si fa a evitarlo? Ma guardatemi, non ho borse, mi sono solo riempito una tasca! Da mettere sulla stufa, no? Continuo a camminare, e arrivo sulla gippabile, da qui dovrebbe iniziare il servatico dove trovare i funghi. Ma: mi accorgo che non ho più il cellulare, nella tasca dietro dei pantaloni! Oh no! E chi lo ritrova più ora, con tutte le forre, i boschi che ho traversato! Cristacci! E non penso tanto alla spesa, sarebbe addirittura una buona scusa per cambiarlo dopo tutti questi anni (è il mio secondo cellulare in assoluto!), ma per i numeri di telefono che non ho mai scaricato! Aiuto! Sono le tre e 40, ho camminato 50 minuti, devo rifare tutto il percorso fatto! L’avrò perso dove mi sono fermato a pisciare? O sul galestro? Lì come faccio a vederlo, sarà caduto e rimbalzando sarà precipitato chissà dove! Non ne ho voglia, l’esito pare assai prevedibile, ma comunque devo fare un tentativo, non posso rinunciare. Ripercorro tutto il sentiero, e ripercorrendolo ripercorro a ritroso i pensieri che ho avuto, incontro quanto non mi ero accorto d'incontrare. Mi fermo a ispezionare ogni posto in cui mi ero fermato, piegato. Ho un’ottima memoria dei sentieri, fin da quando ero bambino mi sono abituato a ritrovare le strade. Altro che pollicino, a me i sassolini non servono! Così, un po’ disperando un po’ sperando, ma sempre meno, torno di gran fretta indietro, osservo e ritrovo, come in una moviola, ma accellerata, anche perché prima ero svagato ed esplorativo, ora gocciola e vedo nuvoloni dall’orizzonte che invadono la valle. Arrivo al galestro e mi metto a cercare le mie tracce! E pensare, qui avevo pensato a chi insegue e qui ora mi trovo a inseguirmi! Passo per passo – più o meno e davvero – ritrovo i buchi del bastone, le impronte degli scarponi, arrivo a ricostruire alcuni passaggi. Ma niente, nemmeno nei punti dove mi ero piegato, dove speravo che il cellu fosse caduto, niente. Torno più indietro, al bosco diradato ed eccolo lì, lo trovo, neanche tanto nascosto, luccica tra l’erba. Che soddisfazione. Vorrei fotografarlo, ma non posso, è lui che fa le foto (la macchina è il contrario dei fantasmi, si può fotografare solo allo specchio!)… allora fotografo il posto, come per prendere un appunto, l'avete visto in apertura. Ora torno a casa con una storia da raccontare, la mia passeggiata tutt’altro che walseriana, voglio scriverlo nel bollettino, così mi levo pure quello, che sono settimane che non scrivo! E questo è solo il minimo, e per questo non scrivo mai bollettini, dovrei scrivere ore e ore e di tutto, di un luccichio della pioggia, di un animaletto, di un pensiero come un ragno che mi guarda da giorni affacciato alla finestra. Ma lui sta fuori dal vetro e i moschini che vorrebbe catturare stanno di qui, ci cozzano contro testardi, vorrebbero uscire, e non sanno che quel vetro li salva dall’inganno della tela vischiosa. E il ragno li guarda, beffato. Ah, come tutto è complesso, l’altro giorno fotografavo i sorrisi e le rughe nel legno di una vecchia pala da fornaio, che a osservarla bene si trasforma nella mappa di una terra sconosciuta, con le sue linee di quota, o i licheni sulla pietra di dietro… tutto è trasparente, come diceva Nabokov, ma non sulla superficie, se ci guardi attraverso, lui scriveva seguendo quasi con stizza un ombrello che non si voleva chiudere per bene (rileggevo ieri, credo per la terza volta)…




Che altro dire, da questa soglia dell’afasia? Il quotidiano è fenomenale, ma come accorgersene se non così? Sono stato venerdì scorso a provare a suonare nella banda del paese, e vicino a me sedeva un signore con un sax tenore degli anni ’50, era stato un importante jazzista, di cognome fa Conte, con Valdombrini ha suonato, e vederlo soffiare nello strumento con quel filo di voce e cavarne grappoli di note così naturali, come un respiro, accipicchia, emozionante… ah, devo anche delle scuse al neosindaco, ha ragione, mi ha fatto osservare che nell’ultimo post ho apostrofato con uno “pseudosinistra” la sua giunta appena insediata, ha ragione, ma chiaramente mi riferivo alla situazione nazionale, non a lui che non conosco, quello che farà lo vedremo, gli faccio i migliori auguri, anche perché nella banda suona la fila davanti alla mia e dovrà sopportare tutti i miei errori, se non mi cacceranno, sono trent’anni suonati che non suono leggendo da uno spartito… e poi, chissà se lui ha visto “Life is a Miracle” di Kusturiza, là c’era una ferrovia che univa e qui ci sono le pale che dividono, e mentre lui suona il clarino come il protagonista io come quello mi chiamo: e quindi nel film di San Godenzo abbiamo almeno qualcosa in comune, no, in questa sarabanda!
Come sempre, perdonate il ritardo e le ellissi sulle cose più … - ah, domenica ho anche visto Claudio Lolli, cantare io so che un giorno e zingari felici… che contrasto anche qui, tra queste due canzoni (infine, cliccate almeno su quest'ultima foto per ingrandirla, ne vale la pena, è il QT8, il mio quartiere di Milano, nel 1978, le ombre sono mia e di Gianfranco Falcone)