mercoledì 2 settembre 2009

Bollettino di Montaonda n. 21

Reportage da Montaonda: Appartenenza a una terra, a un popolo… a se stessi, agli altri?


Perdonatemi l’avvio in medias res, ma proprio ora, leggendo le prime pagine di Andrew Harvey, A Journey in Ladakh, dove, nonostante il grande fascino che su di lui esercita il buddhismo più puro, racconta la sua paura a compiere il viaggio in quel paese mitico e sconosciuto, mi ritrovo perfettamente nei miei dubbi (sull’oriente: ricordate il tormentone?). Penso di me: sicuramente la paura di una simile affascinante via di ascesi è quella restarne sedotto e di perdere (abbandonare) quello che sono, i miei affetti, la mia terra, persino certi oggetti che amo, diciamo una certa materialità e con questo non intendo certo nulla di negativo, ma un complesso di cose che vanno dalla visione di un paesaggio familiare al parlare con le persone care, al suonare i miei strumenti, leggere i miei libri. Insomma, ciò su cui ho costruito e continuo a costruire la mia vita (e la mia mente). Seguire con sincerità la via del buddha (anche da eretici, non mi interessa qui approfondire questioni dottrinali) implica, mi sembra di capire, abbandonare tutto questo. Anche la via del monacesimo occidentale in fondo non era tanto diversa, e penso agli ordini mendicanti.
Poi, nella stessa ora, mi capita tra le mani “I sommersi e i salvati”, l’ultimo libro scritto da Levi, il fondamentale saggio sullo sterminio che non ho mai letto, pur essendomi occupato per anni del tema. E mi ritrovo immerso nell’universo concentrazionario (nella mia seconda patria, la Germania). Il giro di sinapsi è immediato: se andassi in Ladakh potrei liberarmi anche di questo. Eh! - E l’ulteriore passaggio: visto il grande fascino che, non solo su di me ma su tutta la mia generazione, esercita l’oriente, non potrebbe darsi che, o meglio, in quale percentuale entra in gioco il nostro rifiuto o la nostra difficoltà a fare i conti, a vivere il presente del nostro mondo che, per dirla in breve, ci fa ribrezzo, per tutte le cose che ha prodotto nel secolo che ci ha preceduto e in cui ci troviamo immersi fino al collo?
Non fraintendetemi: non voglio accusare nessuno di fuga, voglio soltanto chiedermi: quanta parte del nostro bisogno di essere altrove è generata dall’incapacità di essere dove siamo, fare i conti con questa sorta di inferno alla Saviano, di cui ci parlano i media e sentiamo anche sotto la pelle, nella nostra nevrotica vita quotidiana? Non è molto meglio la bolla della meditazione, il non-io, l’abbandonare le cose di questo mondo, viste le condizioni, ritirarci in una grotta e passare la giornata a meditare? Samsara, nirvana, non sono concetti con cui in fondo, in questa prospettiva, potremmo benissimo toglierci d’impaccio?… Ho amici e parenti che stanno proseguendo pratiche orientali, raggiungendo anche livelli d’impegno, e mi sembra che vivano questa dicotomia come una difficoltà. E dunque: mollare tutto e andare di là? E perché non farlo da qua? In un senso e modo diverso, e non voglio giudicare ma osservare, perché tra l’altro mi piacciono, lo fanno anche le sempre più numerose comunità, spirituali o materialiste, religiose o anarchiche, che si ritagliano uno spazio di sussistenza, a caro prezzo peraltro, in questo stesso territorio italiano in cui impazzano le nuove furie del XXI secolo. Sottrarsi allo stritolamento della macina del tempo…
Quest’estate ho iniziato a conoscere di persona alcune di queste realtà, e voglio andare avanti a vedere. Sono anni che sento parlare di Gran Burrone, di Pian Baruccioli, di Bagnaia, oppure di Miasto, o di quel posto in Piemonte con la chiesa sotterranea, dove vive quasi un migliaio di persone; e in fondo anche la mia vecchia Campicozzoli, nel suo piccolo, voleva essere di più di una casa abitata da una decina di persone, voleva essere sotto sotto un progetto di vita. Io stesso, quando credevo di poter acquistare il Cerro, un bellissimo podere quasi sulla vetta di Monte Giovi, volevo trasformarlo in una specie di comunità di ricerca (di non si sa cosa, diciamo delle muse, di pace e serenità), e anche ora, a Montaonda, ridotto il tutto alla mia singola persona, cerco di vivere questo progetto di comunità-individuale. Di vivere in pace tra me e me (e pure così: non è facile!). Attorno a me, in questa Toscana della montagna dell’Appennino, è pieno di antichi eremi, di conventi che risalgono al medioevo, come Camaldoli e Vallombrosa. Certo, le foreste, l’acqua, il cielo, tutto quello che cerco di raccontarvi. Vallette che nascondono anfratti con casupole come Montaonda. Tante piccole comunità, sparse sull’Appennino ma anche altrove, sulle Alpi, come i villaggi ecologici (RIVE). Insomma, anch’io cerco di isolarmi per ritrovarmi, in qualche modo - anche se poi, come sapete, i contatti con il mondo ci sono (e forse la nuova lotta contro l’intrusione delle pale rappresenta un po’ questo, nella mia sinossi - che poi vuol dire panorama… - del simbolismo attuale).
Ecco, il rapporto con il male ereditato, le difficoltà della vita, la macchina che aggredisce (il macchinismo nazista diceva mi pare Lacoue-Labarthe), il karma sociale: esiste un karma sociale, altra versione della colpa collettiva? Eschilo convinse gli ateniesi che non esiste una colpa che dai padri ricade sui figli, ma questo, in questo clima di guerre etniche e massacri tecnotronici, dove l’osso dello scimmione si unisce al drone, in un clima da Mad-Max, vale anche per l’individuo in quanto frutto di una società? In altri termini: non è che è un dovere per me, per noi, continuare ad essere europei per riscattarci da quello che hanno fatto i nostri padri? E quindi: recuperare la terra abbandonata, coltivarla, purificarla…
Mi spiego meglio: tutto nasce da strane sincronie, che parlano, rivelano immagini, fotografano contesti. Perché l’altra sera sono stato a Castagno d’Andrea, con degli amici di qua, al circolino dell’Arci c’era il figlio di Gabri che faceva il dj e allora perché no. A casa da me c’era Ottavio, uno dei fondatori di Campanara, classe ’54, romano, nelle ossa una forte militanza politica in Potere Operaio negli anni caldi (bollenti), perché dovevamo prepararci per il giorno dopo ad affrontare una piccola scaramuccia burocratica con la Comunità Montana, in sostegno di Campanara. Siamo arrivati su che c’era già musica, attorno a un tavolo del giardino abbiamo trovato una quindicina di amici della tribù, ovvero la vasta schiera degli abitanti che si sono radunati in questa valle a partire dagli anni ’80, tutti con un passato di viaggi (molti in oriente), e di militanza a sinistra e poi bio-agro eccetera (c’è una rete di conoscenze e contatti in valle, ci si incontra in luoghi diversi e si riconosce il terreno comune, comuni pratiche e idee, anche se poi non se ne discute molto, per me che arrivo ora sono posizioni e dati acquisiti, anche perché poi ciascuno è andato per la sua strada). Per cui si chiacchiera del più e del meno, rilassati, com’è andato agosto e via così. A un certo punto vedo arrivare un gruppo di giovanissimi, ci passano davanti a non più di 10 metri, evidentissimi, tra cui un ragazzone rasato con un cappellino a visiera messo sul coppino e una felpa nera con scritto in bianco, bello evidente “boia chi molla” - Va be’, va detto anche che San Godenzo è famosa per essere uno dei pochi comuni fascisti della Toscana (anche se la nuova giunta è di pseudosinistra Predappio resta vicina). Schierati per famiglie, storie di paese, ma è capitato che nella stessa famiglia ci fosse chi era di qua e chi di là. Ma è anche vero che San Godenzo è stata distrutta dai nazifascisti (il termine è corretto, c’erano entrambi) in ritirata, al 95%, e solo grazie al deciso intervento del prete si è salvata l’abbazia, che era già stata minata pure lei. A Castagno poi c’è stata una strage di civili, mi sembra 7 o 14 ammazzati, dovrei controllare, di quelle di rappresaglia inutile e assassina. Ecco: com’è possibile? Io ero molto imbarazzato, temevo che Ottavio saltasse su e cominciasse a inveire o peggio – il ragazzone aveva al massimo 18 anni, anche se era grande e grosso sembrava fatto di burro (e se invece fosse un cazzuto, con tanto di coltello in tasca, chi può dirlo?) - gli altri amici invece impassibili, apparentemente nessuno se ne è accorto, solo io (ma loro potrebbero dire altrettanto, no?). Ecco, e poi oggi al radiogiornale sento che una coppia di turisti gay che camminavano tenendosi per mano da qualche parte in Italia è stata maltrattata da una banda di ragazzotti. E come la mettiamo? Vado in Ladakh, o resto qui, cerco di combattere contro i mulini e tutta quell’altro di monnezza che ci porta il vento? E tra parentesi, l’ultima spero, stamattina ho fatto una passeggiata e ho incontrato due vicini (vicini qui vuol dire una mezz’ora a piedi), mi hanno superato in macchina, si sono fermati sono scesi e ci siamo fermati a chiacchierare un quarto d’ora, sono due persone amabili e davvero interessanti e vive, e spero davvero che diventeremo amici. Sono gay, come tanti altri di noi. Ebbene, che devo fare, non dovrei cominciare a preoccuparmi per loro, per tutti i vicini strani o diversi? La ricordate la poesiola di Niemöller, no? E allora, il Ladakh? Certo si potrebbe dire: andarci ma per tornare qui. Andarci con una missione. Portarlo qui e sparpagliarne i semi, come di una pianta esotica...

P.S. troppo lungo, lo so, troppo lungo! E naturalmente scusate il ritardo! Che cose ne sono successe, altre no, però insomma, spero che non vi siate offesi… la foto non c’entra, è di giugno, ma fa un bel contrasto, no? E poi: scavare, nel giardino di casa! Anche MO, l’avevano fatta saltare i nazisti, ve l’avevo detto? Linea gotica, possibile covo di partigiani! Resistere va bene, ma a che, e con che armi?